Il campionato 1996-97 è uno dei più disastrosi della storia recente romanista. Durante l’estate del 1996, l’allenatore Carlo Mazzone è sostituito dall’argentino Carlos Bianchi, vincitore della Coppa Intercontinentale con il Velez Sarsfield. Nonostante il suo curriculum, Bianchi non riesce ad imporre le proprie idee nel gruppo. Porta con sé il difensore Roberto Trotta, suo pupillo, rivelatosi un giocatore di scarsissimo valore e, nel mercato di riparazione di gennaio, riesce ad ingaggiare Vincent Candela ed Omari Tetradze. Solamente il francese lascerà un’impronta importante nella storia del club capitolino.
Nella seconda parte della stagione con una Roma sull’orlo della retrocessione, l’allenatore argentino è sostituito da una vecchia conoscenza del pubblico romanista: Nils Liedholm, coadiuvato da Ezio Sella, allenatore della squadra Primavera. Il Barone riuscirà a traghettare la squadra verso la salvezza, finendo al 12° posto della classifica.
Per la Juventus, al contrario, è una stagione memorabile. Scudetto, Supercoppa Italiana, Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale sono i trofei conquistati dalla truppa di Marcello Lippi; e come dimenticare le imprese epiche di San Siro (6-1 contro il Milan) ed Parigi (stesso risultato contro il P.S.G.); oppure il 4-1 casalingo contro l’Ajax, in semifinale di Champions League che bissa il successo per 2-1 all’Amsterdam Arena? Senza contare il trionfo a Tokyo contro il River Plate, grazie alla splendida rete di Ale Del Piero.
Insomma, nonostante la sconfitta contro il Borussia Dortmund, nella finale di Champions League, la Juventus è riuscita a portare il verbo del calcio in giro per il mondo, come sua abitudine.
Il 15 marzo 1997, le due compagini si affrontano al Delle Alpi. Agli ordini dell’arbitro genovese Cesari si schierano le seguenti formazioni:
JUVENTUS: Peruzzi; Porrini, Ferrara, Montero e Dimas; Di Livio (Jugović dal 77’), Deschamps, Zidane (Lombardo dal 65’) e Tacchinardi; Vieri (Padovano dal 65’) e Amoruso. Allenatore: Lippi
ROMA: Cervone; Pivotto, Petruzzi, Aldair e Candela; Tommasi (Fonseca al 46’), Di Biagio (Statuto dal 57’), Thern e Carboni; Balbo e Totti. Allenatore: Bianchi
GIANCARLO PADOVAN, “CORRIERE DELLA SERA”:
Sicuramente verrà lo scudetto, ma lo scudetto non sarà tutto. Non basterà dire che è il ventiquattresimo, che è meritato e perfino bello anche per chi bianconero non è. Altresì dovrà essere fatto un rilievo più impegnativo: che questo titolo prossimo venturo, ribadito con solennità dal 3-0 di ieri sulla Roma, è il primo interamente ascrivibile ai meriti del tecnico che questa Juve ha griffato: Marcello Lippi.
Deposta l’enfasi, premesso che lo “zonismo” ed il relativo 4-4-2 cui si ispira è di matrice “italianista”, come la storia professionale dell’allenatore conferma, resta l’analisi di una squadra che (salvo rare eccezioni) ha imparato ad essere implacabilmente risoluta pur prescindendo dagli uomini. Prescindendo da Roberto Baggio (quello di tre anni fa, non quello attuale), la Juve vinse il campionato 1994/95. Ma allora poteva contare sull’irripetibile Vialli, si crebbe in casa un pesantissimo Ravanelli e si stava accingendo a scoprire Del Piero.
Quell’impresa, dunque, non venne firmata principalmente dal tecnico, ma piuttosto dagli uomini che ne interpretavano il copione, secondo quanto il sommo Gianni Brera, verosimilmente, sarebbe tornato a bollare (dopo il “sacchismo”) come eretismo podistico. Tuttavia già la conquista della Coppa dei Campioni l’anno scorso, con una seconda parte affidata a piedi ed a soluzioni non sempre di primo rango (i goal di Jugović e Padovano, i rigori di Pessotto e Ferrara nella finale), premettevano che la rivoluzione si sarebbe compiuta la stagione successiva: via Vialli, Ravanelli e Sousa, non indispensabile Del Piero (bersagliato da due seri infortuni, ma anche destinato alla panchina).
Importante, eppure non insostituibile, Bokšić. E, men che meno, non necessario Padovano, o Pessotto, o Torricelli. Nemmeno Conte, il capitano e l’uomo che assieme a Deschamps era deputato a sostenere il centrocampo, fermo da novembre, è risultato impossibile da surrogare.
Quale mirabile costruzione abbia architettato Lippi (e quanto sangue vi abbia pompato e quanta anima sia riuscito a soffiarvi dentro) è stato facile accertare da metà stagione in avanti, quando il turn-over, più che una opportunità, è diventato una necessità. Però, nelle ultime due settimane, cioè nelle gare interne con Vicenza (2-0) e Roma (3-0) ed in quelle in trasferta con Rosenborg (1-1 in Champions League) ed Inter (0-0), il bisogno di avvicendare Conte, Bokšić, Del Piero, Pessotto, Deschamps e Zidane (assenti con il Vicenza), o Torricelli e gli attaccanti titolari (a Milano ed ieri), hanno reso l’esatta dimensione della realizzazione “lippiana”.
La Juve non solo è sempre stata all’altezza di sé medesima (tranne a Trondheim, dove ha sottostimato l’avversario e sarà meglio non ripetere l’errore mercoledì); non solo ha sempre tenuto fede al proprio progetto tattico ed alla vocazione di imporre il gioco; è pure riuscita a raggiungere gli obiettivi primari e secondari con una disinvoltura essenziale. Infatti, di fronte all’ectoplasma della Roma, ha saputo indovinare gli autori dei goal (Vieri e Amoruso) ed il momento in cui realizzarli.
Sigillato l’incontro quattro minuti prima della fine del primo tempo, la squadra si è dedicata alla gestione della gara, come se si trattasse di un test di avvicinamento alla Coppa Campioni: fuori Zidane e Vieri, dentro Lombardo, a segno l’esteta Nicola Amoruso, primo goal in campionato. Mentre Lippi faceva respirare la Juve a pieni polmoni, la Roma di Bianchi biascicava intorno al pallone. Rinunciando a Tetradze ed a Moriero (per dissidi personali e non per la sciatalgia diplomatica), l’indecifrabile tecnico argentino si era inibito la via laterale di destra, consegnandola a Dimas e Zidane, che dilagavano contro un Tommasi inaccettabile ed un Pivotto buono da centrale e molto meno da esterno. Naturalmente, non è solo questa la ragione dell’avvilente prestazione romanista, che ha spezzato una serie di sei risultati utili: perché pure a sinistra Carboni stentava ed in mezzo Di Biagio galleggiava nel vuoto creatogli anche dall’inconsistente Thern. Rispetto a Genova, quando vinse, la Roma ieri era sfilacciata. Inevitabile che abbia perso.
Incommensurabile la delusione di chi cerchi di scrutar calcio dentro un guscio vuoto.
LE INTERVISTE:
Vieri: «Ad Amoruso l’avevo detto, era la nostra partita, però non mi esalto perché nel calcio ci vogliono sempre riprove».
Amoruso: «La jella evidentemente è finita. Ringrazio Lombardo per l’assist; pensate, quando eravamo alla Samp, fu lui a darmi la palla per il mio primo goal in serie A».
Sensi: «Non si può perdere così, questa Roma è da cambiare. Onore alla Juve, comunque, per come ci ha superato».
Nella seconda parte della stagione con una Roma sull’orlo della retrocessione, l’allenatore argentino è sostituito da una vecchia conoscenza del pubblico romanista: Nils Liedholm, coadiuvato da Ezio Sella, allenatore della squadra Primavera. Il Barone riuscirà a traghettare la squadra verso la salvezza, finendo al 12° posto della classifica.
Per la Juventus, al contrario, è una stagione memorabile. Scudetto, Supercoppa Italiana, Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale sono i trofei conquistati dalla truppa di Marcello Lippi; e come dimenticare le imprese epiche di San Siro (6-1 contro il Milan) ed Parigi (stesso risultato contro il P.S.G.); oppure il 4-1 casalingo contro l’Ajax, in semifinale di Champions League che bissa il successo per 2-1 all’Amsterdam Arena? Senza contare il trionfo a Tokyo contro il River Plate, grazie alla splendida rete di Ale Del Piero.
Insomma, nonostante la sconfitta contro il Borussia Dortmund, nella finale di Champions League, la Juventus è riuscita a portare il verbo del calcio in giro per il mondo, come sua abitudine.
Il 15 marzo 1997, le due compagini si affrontano al Delle Alpi. Agli ordini dell’arbitro genovese Cesari si schierano le seguenti formazioni:
JUVENTUS: Peruzzi; Porrini, Ferrara, Montero e Dimas; Di Livio (Jugović dal 77’), Deschamps, Zidane (Lombardo dal 65’) e Tacchinardi; Vieri (Padovano dal 65’) e Amoruso. Allenatore: Lippi
ROMA: Cervone; Pivotto, Petruzzi, Aldair e Candela; Tommasi (Fonseca al 46’), Di Biagio (Statuto dal 57’), Thern e Carboni; Balbo e Totti. Allenatore: Bianchi
GIANCARLO PADOVAN, “CORRIERE DELLA SERA”:
Sicuramente verrà lo scudetto, ma lo scudetto non sarà tutto. Non basterà dire che è il ventiquattresimo, che è meritato e perfino bello anche per chi bianconero non è. Altresì dovrà essere fatto un rilievo più impegnativo: che questo titolo prossimo venturo, ribadito con solennità dal 3-0 di ieri sulla Roma, è il primo interamente ascrivibile ai meriti del tecnico che questa Juve ha griffato: Marcello Lippi.
Deposta l’enfasi, premesso che lo “zonismo” ed il relativo 4-4-2 cui si ispira è di matrice “italianista”, come la storia professionale dell’allenatore conferma, resta l’analisi di una squadra che (salvo rare eccezioni) ha imparato ad essere implacabilmente risoluta pur prescindendo dagli uomini. Prescindendo da Roberto Baggio (quello di tre anni fa, non quello attuale), la Juve vinse il campionato 1994/95. Ma allora poteva contare sull’irripetibile Vialli, si crebbe in casa un pesantissimo Ravanelli e si stava accingendo a scoprire Del Piero.
Quell’impresa, dunque, non venne firmata principalmente dal tecnico, ma piuttosto dagli uomini che ne interpretavano il copione, secondo quanto il sommo Gianni Brera, verosimilmente, sarebbe tornato a bollare (dopo il “sacchismo”) come eretismo podistico. Tuttavia già la conquista della Coppa dei Campioni l’anno scorso, con una seconda parte affidata a piedi ed a soluzioni non sempre di primo rango (i goal di Jugović e Padovano, i rigori di Pessotto e Ferrara nella finale), premettevano che la rivoluzione si sarebbe compiuta la stagione successiva: via Vialli, Ravanelli e Sousa, non indispensabile Del Piero (bersagliato da due seri infortuni, ma anche destinato alla panchina).
Importante, eppure non insostituibile, Bokšić. E, men che meno, non necessario Padovano, o Pessotto, o Torricelli. Nemmeno Conte, il capitano e l’uomo che assieme a Deschamps era deputato a sostenere il centrocampo, fermo da novembre, è risultato impossibile da surrogare.
Quale mirabile costruzione abbia architettato Lippi (e quanto sangue vi abbia pompato e quanta anima sia riuscito a soffiarvi dentro) è stato facile accertare da metà stagione in avanti, quando il turn-over, più che una opportunità, è diventato una necessità. Però, nelle ultime due settimane, cioè nelle gare interne con Vicenza (2-0) e Roma (3-0) ed in quelle in trasferta con Rosenborg (1-1 in Champions League) ed Inter (0-0), il bisogno di avvicendare Conte, Bokšić, Del Piero, Pessotto, Deschamps e Zidane (assenti con il Vicenza), o Torricelli e gli attaccanti titolari (a Milano ed ieri), hanno reso l’esatta dimensione della realizzazione “lippiana”.
La Juve non solo è sempre stata all’altezza di sé medesima (tranne a Trondheim, dove ha sottostimato l’avversario e sarà meglio non ripetere l’errore mercoledì); non solo ha sempre tenuto fede al proprio progetto tattico ed alla vocazione di imporre il gioco; è pure riuscita a raggiungere gli obiettivi primari e secondari con una disinvoltura essenziale. Infatti, di fronte all’ectoplasma della Roma, ha saputo indovinare gli autori dei goal (Vieri e Amoruso) ed il momento in cui realizzarli.
Sigillato l’incontro quattro minuti prima della fine del primo tempo, la squadra si è dedicata alla gestione della gara, come se si trattasse di un test di avvicinamento alla Coppa Campioni: fuori Zidane e Vieri, dentro Lombardo, a segno l’esteta Nicola Amoruso, primo goal in campionato. Mentre Lippi faceva respirare la Juve a pieni polmoni, la Roma di Bianchi biascicava intorno al pallone. Rinunciando a Tetradze ed a Moriero (per dissidi personali e non per la sciatalgia diplomatica), l’indecifrabile tecnico argentino si era inibito la via laterale di destra, consegnandola a Dimas e Zidane, che dilagavano contro un Tommasi inaccettabile ed un Pivotto buono da centrale e molto meno da esterno. Naturalmente, non è solo questa la ragione dell’avvilente prestazione romanista, che ha spezzato una serie di sei risultati utili: perché pure a sinistra Carboni stentava ed in mezzo Di Biagio galleggiava nel vuoto creatogli anche dall’inconsistente Thern. Rispetto a Genova, quando vinse, la Roma ieri era sfilacciata. Inevitabile che abbia perso.
Incommensurabile la delusione di chi cerchi di scrutar calcio dentro un guscio vuoto.
LE INTERVISTE:
Vieri: «Ad Amoruso l’avevo detto, era la nostra partita, però non mi esalto perché nel calcio ci vogliono sempre riprove».
Amoruso: «La jella evidentemente è finita. Ringrazio Lombardo per l’assist; pensate, quando eravamo alla Samp, fu lui a darmi la palla per il mio primo goal in serie A».
Sensi: «Non si può perdere così, questa Roma è da cambiare. Onore alla Juve, comunque, per come ci ha superato».
MARCELLO LIPPI: grande condottiero? Premetto che né gli scudetti, né la Nazionale mi interessano più di tanto. Premetto che SOLO e SOLTANTO le coppe internazionali mi permettono di osare la parola “storia”. Proseguo chiedendo: è mai possibile che un allenatore definito “grande” non riesca (con quei giocatori e quella dirigenza) a VINCERE SUL CAMPO ben 6 finali (dico: 6)?. Cioé: COPPA UEFA (una sconfitta e un pareggio), COPPA DEI CAMPIONI (un pareggio, due sconfitte e un pareggio)? Ripeto: è mai possibile?
RispondiEliminaSembra strano, ma ho questa sensazione. Se il signor Lippi, dopo la Coppacampioni vinta ai RIGORI, non fosse mai più arrivato in finale: forse sarebbe stato meglio. Mi ha procurato tante atroci sofferenze (Parma di un certo Malesani, Borussia, Real e Milan) che le patirò (come un male incurabile) per tutta la vita. Cari amici iuventini: datemi una risposta. Ma prima riflettete su quanto segue. In tutte le finali internazionali (quelle che contano): MARCELLO LIPPI non è riuscito a VINCERNE SUL CAMPO nemmeno una su 6. Una che sia una. Lasciamo stare Tokyo (terra di campanelli, non di calcio). E se aggiungo la finale mondiale arriviamo a 7. E se vi ricordo i calciatori che aveva a disposizione: cosa potete rispondermi?
RispondiEliminaMille grazie a Ravanelli.
RispondiEliminaAltrettante a Ferrara, Pessotto, Padovano e Jugovic: furono loro a chiedere di calciare i rigori?
Caro LIPPI: se fosse stato per te, avremmo perso anche la finale di Roma. Sono i fatti a parlare. Tra Parma, Ajax, Borussia, Real e Milan
(6 finali): non ho visto nemmeno l'ombra di una partita VINTA SUL CAMPO. Tokyo? MILLE GRAZIE SOLO E SOLTANTO AL GRANDISSIMO DEL PIERO.
Gli scudettini non fanno storia, caro Lippi.