mercoledì 25 ottobre 2023

Nicola LEGROTTAGLIE


Nicola Legrottaglie è nato il 20 ottobre 1976 a Gioia del Colle – scrive Simone Stenti su “Hurrà Juventus” del dicembre 2007 – in provincia di Bari. Ha mosso i primi passi nel calcio nelle giovanili del Bari, senza riuscire a esordire in prima squadra. A vent’anni, all’inizio del 1996-97 inizia infatti un lungo peregrinare in giro per l’Italia calcistica. Dalla Pistoiese – dove con mister Catuzzi diventa centrale difensivo dopo anni a centrocampo – al Prato, dalla Reggiana al Modena. Ma la squadra del destino diventa il Chievo. A Verona trascorre tre periodi diversi, l’ultimo dei quali diventa decisivo. Nel 2001-02 i veneti approdano per la prima volta in Serie A e anche Legrottaglie fa il grande salto. Tredici presenze e due gol nella prima annata, quattro reti in trenta partite nella seconda, entusiasmante, che porta alla Nazionale di Trapattoni: esordio con la Turchia e gol con la Svizzera.
Nell’estate 2003 arriva la chiamata dalla Juventus di Lippi, Campione d’Italia e reduce dalla finale di Champions League. I primi mesi sono da incorniciare. Contribuisce alla vittoria della Supercoppa Italiana con il Milan – decisivo nella rete di Trézéguet che porta la gara ai rigori – e proprio in casa del “suo” Chievo segna il primo gol in bianconero. Nel momento migliore, suo e della squadra (fino a novembre in testa al campionato), affiorano i primi sintomi della pubalgia, un problema che ne condizionerà non solo il resto della stagione – chiusa con ventuno presenze totali e un’altra rete nell’ultima partita casalinga, contro la Sampdoria – ma anche quelle successive, trascorse a Bologna (la seconda parte dopo i primi mesi con la Juve di Capello) e a Siena, dove contribuisce alla salvezza.
Nel 2006 torna alla Juventus per disputare il torneo di B. Risolto definitivamente il guaio muscolare, mette la firma sul pronto ritorno in A nonostante un altro lungo stop per un infortunio alla spalla rimediato a Napoli. Il resto è cronaca di questi giorni con il ritorno in copertina grazie a una serie di prestazioni esaltanti e il rinnovo del contratto fino al 2010.
C’è una vivace commedia di Peter Howitt, “Sliding doors”, in cui una radiosa Gwyneth Paltrow verifica come la vita, il suo svolgimento, la sua stessa personalità può cambiare a seconda dell’apertura o meno delle porte di un metrò. Nicola Legrottaglie si è trovato davanti a quelle porte scorrevoli un gran numero di volte: La più spettacolare delle quali questa estate, quando aveva già pronte le valigie per volare in Turchia. Innanzi tutto, Nicola, ci puoi spiegare perché mai proprio il Besiktas?
«Ah, semplice: perché era l’unica squadra che mi voleva. Soltanto qualche mese fa per tanti la mia carriera era morta e sepolta. Infatti, mi hanno chiamato solo i turchi».
– Poi il destino ha voluto che all’ultimo momento non partissi e che Andrade s’infortunasse e ti liberasse il posto da titolare.
«Non credo al caso. Sono un ragazzo molto credente e riconosco la volontà di Dio. È stata una mano che dal cielo mi ha aiutato e mi ha scritto un bel programma. È ovvio che mi dispiace per i compagni che si sono fatti male, ma anch’io sono stato bravo a sfruttare l’occasione concessa. Non è che, se uno si fa male, poi chi entra è automatico che faccia bene».
– Dove hai trovato le motivazioni giuste?
«Nel mio passato. Nel rivivere tanti momenti brutti. Nonostante fossi un privilegiato, ho passato un periodo di grande tristezza. Poi ho fatto un incontro che mi ha cambiato prospettiva».
– E chi ha incontrato?
«Gesù. Noi atleti siamo abituati a curare ogni dettaglio del nostro corpo, ma spesso trascuriamo la cosa che conta di più: l’anima. Invece, ho imparato a nutrire anche quella e vivo più sereno. E, di riflesso, gioco meglio».
– Sì, ma nel tuo periodo buio bianconero avrai pure sbagliato qualcosa in campo?
«Ma certo, c’era anche una motivazione tattica. Io arrivavo dal Chievo, una macchina in cui tutto era sincronizzato. Qui, invece, si giocava in maniera più individuale. Per cui spesso ero convinto di trovare un compagno dove invece non c’era. Questo mi spiazzava e non mi adeguavo. Per presunzione, ero convinto che fossero gli altri a doversi adeguare al mio modo di giocare. Mi credevo un campione, ma non lo ero».
– Che differenza trovi tra quella Juve e quella di oggi, a parte la fin troppo evidente situazione societaria?
«Il mio primo anno qui è un discorso a parte: arrivai in uno spogliatoio che aveva appena perso la Champions col Milan e il morale era quello che si può immaginare. Poi c’erano grandissimi campioni arrivati a fine carriera, come Ferrara e Montero. Insomma, una stagione sbagliata».
– Nello spogliatoio, però, sembra che vi sia una specie di eredità fatta di grinta e motivazioni.
«Quella non cambia mai, è il marchio Juventus. Organizzazione perfetta e tutti sintonizzati sullo stesso canale. È lo specchio della famiglia Agnelli, io ho conosciuto il Dottore e la personalità dello spogliatoio e della società è esattamente la stessa che ho visto in lui».
– Quello che cambia è il trattamento degli arbitri: mai come quest’anno siete stati tartassati.
«Sì, ci sono stati errori evidenti. Purtroppo, lavori tutta la settimana poi alla domenica ti scontri con questo genere di imprevisti e non puoi non rimanere male. Sono comunque convinto che siano tutti in buonafede, perché l’arbitro è come noi giocatori: al lunedì non vuole leggere critiche sul giornale e, perciò, se sbaglia sono convinto che sia il primo a rammaricarsene».
– E tu il lunedì le leggi le pagelle?
«Non compro i quotidiani sportivi. Se entro in un bar, magari li sfoglio, ma non vado a cercarli di proposito».
– Neppure dopo il gol al Parma, quello che ha acceso la partita e coronato una tua prestazione super?
«Sì, ne ho letto qualcuno che girava qui a Vinovo, ma se non lo avessi trovato avrebbe fatto lo stesso. Lo dico spesso ai miei compagni più giovani: se sapete che le critiche possono influenzarvi, saltate le pagine sportive. Lo scorno può essere grande soprattutto quando credi di aver fatto una buona gara e poi leggi critiche che non ti spieghi. Che poi è la dimostrazione che alla fine ognuno vede la sua partita».
– Quali sono le partite che ti hanno emozionato di più?
«Be’, quest’anno quella con la Reggina, quando ho segnato il primo gol, praticamente al mio esordio da titolare. Un significato pazzesco, considerato quello che mi era successo. Poi, più in generale, il gol in Nazionale con la Svizzera, durante la preparazione agli Europei in Portogallo».
– Dove però non sei andato.
«Fu una delusione tremenda. Persi la convocazione all’ultimo momento. Mi telefonò Trapattoni dicendomi che non poteva chiamare uno che soffriva di pubalgia».
– Tra l’altro ci hai messo molto a guarire.
«In realtà, sono guarito da poco: mi è durata cinque anni e oggi mi sento rinascere. Non riuscivano a trovarmi una piccola ernia inguinale. Ho trentuno anni, ma è come se ne avessi ventisei».
– E quindi puoi mettere nel mirino l’Europeo e forse anche Sudafrica 2010. Centrali difensivi a Donadoni servono come l’acqua nel deserto.
«Be’, Cannavaro e Materazzi chi li tocca?».
– Sì, ma mica sono eterni.
«Le scelte le fa il CT, ma se ha bisogno di uno lì in mezzo, per me sarebbe il coronamento di un sogno».
– Parlando di “Sliding doors” e mercato che svolta all’ultimo momento, tu hai cominciato presto: la prima volta eri ancora al Chievo.
«Primo anno di A. Arrivavo dal Modena, trentadue presenze in C1, ero convinto di far bene anche in A. Ero giovane e dunque un po’ ribelle: le prime dieci partite mister Delneri me le fa vedere tutte dalla tribuna. Ero arrabbiato, ma così arrabbiato che faccio di tutto per essere venduto al Perugia a gennaio. Bene, due giorni prima della chiusura del mercato, il mister mi invita a cena al ristorante Tre Risotti di Verona e, tra un piatto e l’altro, mi dice che sono il futuro e che conta su di me. Gli credo, rinuncio a trasferirmi e la domenica dopo sono di nuovo in tribuna. Ma mi sta pigliando in giro? Invece subito dopo andiamo a Roma con la Lazio. La sera prima, senza nessun preavviso, viene da me e mi sfida: “Domani mi devi far vedere che cosa sai fare”. Quella domenica ho segnato. E non sono mai uscito dai titolari. Da allora adoro mister Delneri».
– Senza rete: metti in fila le prime quattro alla fine del campionato.
«Non parlo col cuore, ma provo a fare solo con la testa. Allora, prima Inter. È una squadra fuori dal normale: completissima, fisicamente troppo forte. Seconda la Roma, che pratica un gran bel calcio, ma che alla lunga può pagarlo. Ma sono proprio belli da vedere. Terzi noi, quarto il Milan».
– Niente Fiorentina?
«Squadra compatta, che gioca assieme da anni. Contro di noi però non li ho visti in gran spolvero».
– Il Milan vi tocca a San Siro.
«Che stadio! Unico al mondo: il suo urlo mette i brividi. Poi una partita con due maglie così nobili, ci sarà da divertirsi. E sarà bello giocare contro Kakà, un campione fantastico e un Atleta di Cristo, come me».
– A proposito di fede, possiamo dire che ti ha regalato anche una famiglia d’adozione, qui a Torino?
«Come no? La famiglia Di Gioia: Aldo, Betty, Francesca, Federica e Stefano. Condividiamo la fede e con loro mi sono ricreato una specie di habitat familiare. Sto bene davvero in loro compagnia, sono talmente integrato che spesso mi fermo a dormire da loro».
– Kakà mi ha confidato che a fine carriera vorrebbe diventare pastore evangelico. Tu hai già qualche idea sul dopo?
«Mi piacerebbe diventare ambasciatore della mia fede nel mondo. Magari potermi applicare nel sociale, anche per il tramite della Juventus. Un po’ come fa Leonardo con la Fondazione Milan».
– Intanto, però, ti dai all’alcol.
«Macché, scherziamo? Un amico possiede le Cantine Di Marco a Martina Franca e mi ha chiesto di dare il nome a un’etichetta: così è nata Tenuta Legrottaglie, primitivo di Manduria DOC. Molto buono, ma non posso esagerare, mezzo bicchiere ogni tanto».
– Un bel modo per tenersi legato alle radici.
«Sono molto affezionato alla provincia di Taranto, però non è che a Torino possa rimpiangere qualcosa. È una città che offre così tanto a un giovane come me! La trovo interessantissima, con piazze bellissime e una vivibilità impagabile per un calciatore. Vado in giro e nessuno mi rompe le scatole. Non potrei mai fare la vita che faccio, tanto per fare un esempio, a Roma o a Napoli. Bel vantaggio, no?».
– Chiudiamo con una curiosità. Che cosa ascolti con quelle cuffione da Teletubby?
«Ultimamente ascolto soltanto musica cristiana. Soprattutto prima della gara, serve per rilassarmi. Artisti i cui nomi possono dir poco al grande pubblico, ma vi segnalo Michael W. Smith e Corrado Salmé».

ANDREA PARODI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 26 FEBBRAIO – 3 MARZO 2008
Tutto si può dire di Nicola Legrottaglie, meno che non sia orgoglioso delle sue idee. Uno dei calciatori più disponibili e pazienti mai incontrati. Lo attendiamo a lungo per intervistarlo, una mattina di sole accecante a Vinovo: prima l’allenamento, poi una registrazione per un’emittente satellitare. Si affaccia in un salottino con l’addetto stampa Luca Casassa che sono già le 14,30. Teniamo voglia fare in fretta per tornare a casa e pranzare – come hanno già fatto i compagni di squadra da tre quarti d’ora – ma bisogna ricredersi. Non avessimo deciso noi la fine dell’intervista, avremmo parlato per tutto il pomeriggio senza annoiarci.
Nicola Legrottaglie a 360 gradi, mai titubante, sempre attento. Si diverte compilando l’identikit del Guerino. Chiede incuriosito cosa ha risposto Kakà alle stesse domande. E poi si lascia andare. Parlando di Ranieri e di Chiellini. Della Juve e delle sue soddisfazioni. Di bianconero, ma anche di azzurro. Ovviamente non è mancato l’aspetto religioso, rispondendo per le rime (rigorosamente bibliche) a chi lo giudica per l’astinenza sessuale lunga oltre due anni. Nicola Legrottaglie è stato fedele al suo pensiero. Semplicemente, e senza troppi giri di parole.
– Nicola, il tuo rendimento in difesa è maggiore quando sei in coppia con Chiellini. Qual è il segreto del vostro affiatamento?
«Si va molto d’accordo. Ci rispettiamo moltissimo, parliamo tanto. E, confrontandoci a lungo, miglioriamo assieme».
– Con Grygera, invece?
«Altrettanto. È una bella persona».
– Vi vedete anche al di fuori degli allenamenti anche al di fuori degli allenamenti e delle partite?
«Non poi così tanto. Risulterebbe anche stancante. Parlo più con loro che con la mia famiglia. È indicativo, no?».
– Pensi ci possa essere affiatamento anche con Stendardo?
«È appena arrivato; non lo conosco ancora. Ma è un bravissimo ragazzo. Non sarà difficile legare con lui: ha grandi qualità ed è sicuramente intelligente».
– Mellberg?
«Non lo conosco. Ho visto solo una cassetta di una partita con l’Aston Villa».
– Con Ranieri il tuo rendimento è cambiato. Come ha fatto?
«Ha semplicemente dimostrato grande fiducia. Non è da poco. E partito da zero, senza l’alone di diffidenza che c’era con gli allenatori precedenti».
– Perché, non ti sei capito con Deschamps e Capello?
«I rapporti sono sempre stati buoni con tutti. Ma mancava la fiducia. La forza di Ranieri è stata proprio quella di togliere le etichette che in passato mi hanno limitato».
– Il rapporto con Deschamps come lo giudichi?
«Con Didier ho avuto soprattutto sfortuna. Mi sono infortunato la spalla e sono stato fuori cinque mesi».
– E Capello?
«Con lui ho iniziato bene. Poi, arrivando Cannavaro, è logico che dei due abbia scelto lui».
– La prima volta c’era Lippi in panchina. Un ricordo?
«Un altro grande uomo che mi ha dato fiducia. E mi ha anche richiamato in Nazionale».
– A proposito di Azzurro, Donadoni non ti ha ancora chiamato al telefono?
(sorride imbarazzato) «Non ho mai sentito nessuno, né lui né altri del suo entourage. Ho solo percepito molte voci mediatiche. Siete voi giornalisti che leggete sempre il mio nome sul suo taccuino dei convocati».
– Questo è l’anno degli Europei, ma anche delle Olimpiadi. L’oro manca dal 1936. Se ti chiamassero come fuori-quota, accetteresti?
«Se hanno bisogno io ci sono. Il mio telefono è sempre libero».
– Il tuo numero lo hanno utilizzato quelli del Besiktas in estate. Il caso ha fatto sì che tu sia rimasto alla Juve.
«Non credo al caso ma nella volontà di Dio. Lui ha scelto e che mi ha fatto restare».
– Contento della scelta divina?
«Contentissimo. Ti dirò di più: per me tornare alla grande alla Juve è stato come vincere uno scudetto».
– Spiegati meglio. Una rivincita?
«Non è una rivincita, ma una grande soddisfazione. Voglio dire: qui a Torino mi avevano dato tutti per finito. Dio ha voluto diversamente e sono tornato quello che ero. Non solo, ma sono diventato importantissimo per la squadra. Per me è stata pura felicità. Nessun trofeo potrà mai coprire una così importante vittoria personale».
– Il contratto dice 2010. Vuoi fare come Birindelli e sposare la Juve a vita?
«Io voglio prima di tutto sposare una donna. Scrivilo questo, mi raccomando».
– Ma il Guerino è un settimanale di sport, non di annunci matrimoniali.
«Lo so, ma ci tengo a dirlo».
– Del Piero dimostra che si può diventare bandiere.
«Fosse per me indosserei questa maglia fino oltre i quarant’anni».
– A proposito di maglia. Come mai il numero trentatré?
«L’anno scorso avevo il trenta. È arrivato Tiago e mi ha chiesto se gli davo il mio numero. Allora ho ripiegato sul trentatré, gli anni di Cristo quando è morto».
– Vivere a Torino com’è?
«Bellissimo, per noi calciatori è la città ideale. No stress, no problemi. Mi trovo alla grande. Soprattutto perché ho anche tanti amici e persone che mi vogliono bene fuori dal campo».
– Tu parli molto di umiltà. In cosa ti senti di esserlo?
«Per me essere umile è capire le persone, ascoltarle, aiutarle. Voglio soprattutto dare all’esterno un’immagine diversa da quella che tutti pensano. Quando la gente scopre che sono un calciatore di primo piano, pensa subito chissà cosa. Invece voglio offrire un’immagine di persona al loro stesso livello, farli sentire a proprio agio».
– Devo ammettere che ci riesci molto bene. E come manifesti questa umiltà?
«Per esempio comprendendo i miei errori. Chiedendo scusa, senza far finta di niente. Umiliandomi quando tratto male qualcuno».
– E nel mondo del calcio esiste un modello di umiltà?
«Ce ne sono tanti. Per esempio Guzman è uno di questi. Anche Maxwell e Oliveira lo sono. Purtroppo conosco poco Kaká. Vorrei conoscerlo meglio, mi dicono tutti che sia molto umile».
– Come mai ti piace tanto parlare della tua religiosità?
«In realtà non mi piace poi tanto. Ma questo è il mio modo di pensare e ne vado orgoglioso. Il succo del discorso non è la religione di per sé, ma in che modo si instaura il rapporto con Dio e la Bibbia».
– E tu come lo instauri questo rapporto?
«Leggendo e interpretando cosa diceva il mio cuore nel profondo. Ho sentito una voce dentro. Era la voce di Dio che mi guidava. Io l’ho semplicemente seguita».
– In un Paese fortemente cattolico come l’Italia, la scelta di diventare evangelico, quindi protestante, non è facile.
«Non ho nulla contro i cattolici. Anzi, siamo tutti fratelli cristiani. Mi sono avvicinato alla chiesa evangelica perché vengo da una famiglia evangelica e ho ascoltato questo messaggio».
– Deduco che leggi spesso la Bibbia. Qual è il versetto che più ti ha colpito?
(senza esitazione e con sicurezza). «Matteo 6, 33».
– Complimenti. La conosci a memoria?
«La Bibbia, intendi? La leggo spesso. Non la conosco tutta a memoria. Ma questo versetto sì, ci trovo dentro la mia dimensione e me lo ripeto spesso. È la mia forza».
– Cosa dice?
«Cercate prima il Regno e la Giustizia di Dio, e tutto il resto vi sarà sopraggiunto».
– Tu come lo interpreti?
«Metti Dio al primo posto. Tutto il resto verrà da solo e sarà lui a dartelo e a decidere per te. Come per il mancato trasferimento al Besiktas, per esempio».
– Ultimamente ha fatto molto parlare la tua scelta dell’astensione dal sesso. Alcuni criticano e deridono. Non ti dà fastidio?
«No, non mi dà per niente fastidio. Vivo in una mia dimensione. Non saranno due risate o due critiche a farmi cambiare idea o a farmi pentire. Assolutamente. Il problema è un altro. Il problema non è mio, ma di chi critica. Il Signore dice che sono beati quelli che sono criticati, perché saranno salvati. Chi critica non si rende conto di una cosa importante. Ed è molto strano che nessuno ci pensi. Sarebbe che su mille che criticano ce ne sono altri mille che riconoscono queste parole. E le apprezzano. In molti mi contattano per dirmi grazie. Ecco, a me interessa maggiormente interpretare il pensiero di queste persone. Oltre tutto voglio fare una precisazione. Non pratico sesso da oltre due anni, è vero. Aspetto la donna giusta. Capirò che è lei quando la incontrerò. Ma se domani mi sposassi lo farei senza problemi, spesso, anche poco prima di una partita importante».
– Te lo auguro. Hai detto che prima di questa conversione facevi una vita sregolata. In che senso?
«Il classico calciatore single».
– Sesso con donne sempre diverse?
«Anche».
– E questo ti ha mai causato problemi nelle prestazioni sportive, per caso?
«No, quello no. Anche se in molti lo pensano. Ma sono consapevole che comportandosi in quel modo si possono avere certe conseguenze».
– Come le malattie?
«Malattie sessuali sicuramente, ma anche gravidanze indesiderate. Ecco, mi domando: perché questo non viene mai detto? È importante che lo si dica a gran voce. Non si pensa mai alle conseguenze, ma solo a cosa ci si aspetta da una certa persona. Oltre al discorso morale ripeto: finché non trovo la donna giusta non voglio neanche rischiare».
– Potresti diventare testimonial di punta per qualche campagna sociale di prevenzione. Ci hai mai pensato?
«Io sono qui. Se vogliono sono disponibile».
– Disponibile allo stesso numero che potrebbero utilizzare Donadoni o Casiraghi?
«Lo stesso».
Mentre ci salutiamo dice: «Qui va a finire che a furia di parlare di morale sessuale e astensione prematrimoniale mi chiamerà il Papa per dirmi che quelle cose dovrebbe dirle lui e non io».

Il rendimento stagionale della coppia Chiellini-Legrottaglie è ottimo e Nicola disputa ben trentaquattro incontri, realizzando due reti (contro il Parma e la Reggina).
Comincia il campionato 2008-09 e, nel match di Coppa dei Campioni contro l’Artmedia Bratislava del 13 agosto, realizza il suo primo gol in Europa. Va a segno anche contro l’Atalanta in dicembre con un bel colpo di testa. Termina la stagione con trentasei presenze, che lo fanno indiscusso leader della difesa bianconera.
L’estate 2009 è caratterizzata dal ritorno di Cannavaro, dopo l’esperienza al Real Madrid. Logico che per il Duca gli spazi si riducano, anche se riesce a totalizzare ben ventotto presenze. «Penso che siamo partiti con ambizioni troppo elevate e in corso d’opera ci siamo accorti che c’erano dei limiti. Purtroppo le cose si capiscono con il tempo. Penso che avere singoli giocatori molto validi non basti, è importante che ci sia un filo conduttore unico, che tutti mettano da parte l’io e pensino solo al bene della squadra. Forse siamo stati anche troppo osannati dalla stampa e dal pubblico in avvio di stagione. Infatti non è sbagliato il detto “l’umiltà precede la gloria”. Bisognava andarci un po’ più cauti, anche la gente si è fatta troppi castelli in aria».
Il 2010-11, nonostante in panchina ci sia il suo mentore Delneri, non inizia nel migliore dei modi. Nicola è spesso relegato in panchina a causa dell’arrivo di Bonucci, il quale è impiegato con continuità al fianco di Chiellini. Il 4 novembre nella partita contro il Salisburgo si procura una lesione di primo-secondo grado del bicipite femorale destro: la prognosi è di circa quaranta giorni. Rivede in campo il 16 dicembre avversario il Manchester City. Il giorno della Befana torna a vestire la maglia da titolare nella gara che vede la Juve affrontare il Parma, segnando una rete di testa su calcio d’angolo battuto da Aquilani. Purtroppo la partita terminerà 4-1 per il Parma e da quel momento comincerà il lungo periodo negativo che porterà la truppa bianconera al settimo posto consecutivo.
Il 31 gennaio è acquistato a titolo definitivo dal Milan, terminando in questo modo la sua carriera in bianconero. Il suo tabellino recita 154 presenze e nove reti, mentre il palmares è riempito (si fa per dire) soltanto da una Supercoppa italiana. Ma il Legrottaglie che ci piace ricordare è quello del campionato di Serie B, quello della rinascita: sua e della Juve. Lì abbiamo capito che Nicola era un giocatore “vero”.

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