venerdì 3 maggio 2024

TIAGO



L’arrivo alla Juventus, un impatto difficile con la nuova realtà – scrive Enrica Tarchi su “Hurrà Juventus” del marzo 2009 le valigie quasi in mano, poi la presa di coscienza, l’affetto dei compagni e un rinnovato entusiasmo per un progetto del quale vuole essere protagonista. C’è tutto questo, ma non solo, nella storia bianconera di Tiago: ragazzo romantico e antidivo per eccellenza, uomo che vive per la famiglia come un papà qualunque, lontano dai riflettori. Un giovane che ama la musica e i libri, che lascia il calcio fuori dalla porta di casa.
– Tiago, Fernando Pessoa diceva “La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo”. Non credi che questa frase si possa adattare al tuo impatto con il mondo bianconero... «Sono parole che esprimono bene il mio modo di vedere le cose, perché penso che la nostra vita la costruiamo noi stessi. La mia esperienza qui è stata difficile all’inizio, ma ora la sto facendo diventare bellissima».
– Prima di partire con le cose belle, prima che ci racconti tutto di te, vogliamo chiudere quel capitolo raccontando cosa è successo l’anno  scorso? «Semplicemente pensavo di venire qui e giocare subito, come mi era successo ovunque, fin dall’inizio della carriera. Probabilmente sono sempre stato fortunato, lo ammetto, ma questa situazione mi ha messo in crisi. Una crisi dalla quale sono uscito, grazie anche a compagni fantastici che mi hanno sempre invitato a continuare a credere in me stesso. Anche la società, nel periodo più difficile, ha sempre dichiarato di credere in me».
– Allora facciamo qualche passo indietro e ripercorriamo la tua carriera: dagli esordi a Viana do Castelo alle esperienze di Braga, Lisbona, Londra, Lione e infine di Torino. I tuoi primi calci al pallone? «A Viana do Castelo, ovviamente, il mio paese, dove abitano ancora i miei genitori, mio fratello e tutti i miei amici. È li, nel quartiere dove vivevo, che ho cominciato a giocare a calcio. Tutto il giorno, da mattina a sera. Eravamo tanti, ci divertivamo, non avevamo idoli, non guardavamo il calcio in tv, ci piaceva giocare e basta».
– E i tuoi genitori cosa dicevano? Sono degli sportivi? «I miei genitori non mi hanno mai ostacolato, anche perché a scuola andavo volentieri e senza problemi. Infatti ho proseguito fino al diploma, seguendo un corso di studi indirizzato all’ambito sportivo: se non avessi fatto il calciatore ora sarei insegnante di educazione fisica. A mio padre Carlos, comunque, il calcio piace, ma da tifoso. Mia madre Julia, che è maestra d’asilo, non è invece una grande appassionata. Mio fratello Duarte giocava anche lui, ma per divertimento, poi ha scelto un’altra strada».
– C’è qualcuno in famiglia da cui hai ereditato qualche gene calcistico? «Ereditato proprio no, ma il marito di mia zia, “tio” Zé Santos, è stato fondamentale per la mia carriera. È stato lui l’allenatore che dalle giovanili del Vianense mi ha portato all’Ancora Praia, un’altra squadra della mia città. È stato lui che mi ha cambiato, che ha dato una svolta alla mia carriera trasformandomi da attaccante in centrocampista. Ancora oggi abbiamo un ottimo rapporto, segue la mia carriera e le mie vittorie le sente giustamente anche un po’ sue. Adesso non allena più, ma a Natale quando sono andato a casa mi sono allenato con lui. I suoi figli non giocano a calcio, quindi sotto l’aspetto calcistico sono la sua più bella soddisfazione».
– Dei tuoi amici, con cui giocavi nel campetto sotto casa, ce n’è qualcuno che è diventato calciatore? «No, di tutti quei bambini che passavano le giornate a correre dietro a un pallone sono stato l’unico a diventare calciatore. Ci vogliono applicazione, dedizione, sacrifici, ma anche fortuna. Il mio migliore amico, Pedro Vasco, giocava benissimo, ma non è andato avanti e ora lavora in fabbrica. Continuiamo a sentirci anche se siamo lontani: ciò che importa è che lui sa di poter contare su di me, e viceversa».
– Con gli altri amici del paese hai mantenuto i contatti? Hanno cambiato atteggiamento nei tuoi confronti? «All’inizio non è stato facile. Quando tornavo a casa mi guardavano con un certo sospetto, pensavano che il successo mi avesse cambiato, ma dopo cinque minuti si rendevano conto che ero quello di sempre».
– A Viana do Castelo hai conosciuto anche la donna della tua vita, Barbara. «Io avevo 15 anni e lei 13, andavamo nella stessa scuola. Tutto è nato lì, siamo praticamente cresciuti assieme mi ha seguito dappertutto. Oggi Barbara fa la mamma a tempo pieno. Quando ci siamo trasferiti a Braga non avendo ancora figli, ha studiato psicologia per tre anni, poi il trasferimento a Londra le ha impedito di proseguire negli studi. Ora si occupa di Beatriz, che ha quattro anni, e di Francisco, che ne fa due a maggio. Siamo una famiglia normale, quando non lavoro faccio il papà a tempo pieno. La famiglia è tutto: è la base della mia vita, da solo non sarei riuscito a fare niente, a viaggiare così tanto e ad affrontare esperienze così diverse».
– In tema di viaggi, partiamo dal primo: da Viana do Castelo a Braga. «Dopo un anno nell’Ancora Praia, mi videro alcuni osservatori del Braga e mi chiamarono. Era il 1997, la prima volta che andavo via dal mio paese. Un’ora di macchina, ma spesso facevo avanti e indietro in pullman. A Braga vivevo a casa di una mia zia, fino a quando non mi ha raggiunto Barbara».
– Il grande salto è stato il passaggio al Benfica. «Sicuramente sì. La sorpresa più grande l’ho ricevuta al mio arrivo, pensate che mi comprarono nel mercato invernale, arrivai quindi a stagione in corso, di mercoledì, e il sabato ero già in campo, grazie alla stima di Gesualdo Ferreira (attuale allenatore del Porto) che mi aveva voluto. Dall’esordio, una bella vittoria per 4-1, sono sempre stato titolare. Nel Benfica non ho avuto grandi problemi di ambientamento, anche perché conoscevo, attraverso la nazionale, Simao, Edmilson e tanti altri. Questa è stata un’esperienza fondamentale per la mia carriera perché, rispetto al gioco che facevo a Braga, principalmente difensivo, l’allenatore mi chiese di andare avanti, di fare gol. Infatti con il Benfica ho segnato tanto».
– E con il Benfica hai vinto anche il tuo primo trofeo, la Coppa di Lega. «Sì, contro la Porto di Mourinho, una grandissima soddisfazione».
– Quello stesso Mourinho che poco dopo ti ha voluto a Chelsea. «Ed io accettai, come si poteva rifiutare un’occasione come quella? Così è arrivata anche la mia prima volta all’estero. Un cambiamento enorme, sia a livello personale che calcistico. Le differenze tra calcio portoghese e inglese sono enormi: in Premier c’è più velocità, intensità, fisicità, mentre in Portogallo il gioco è più lento e tecnico. Per quanto riguarda la vita personale devo dire che Londra non ce la siamo goduta come magari potremmo fare oggi. Mia moglie era incinta e ha patito il clima freddo e il tempo spesso grigio. Eravamo molto giovani, la prima volta fuori dal nostro paese, facevamo un giro ogni tanto per la città e poco altro. In squadra invece c’erano altri giocatori portoghesi, come Carvalho, già miei compagni di nazionale, grazie ai quali l’ambientamento è stato più semplice».
– A Londra è arrivato anche il tuo primo successo in campionato, il primo anche per il Chelsea dopo 50 anni. «Non nascondo che a livello sportivo a Londra ho vissuto una delle emozioni più forti della mia carriera. Ricordo il quartiere di Chelsea bloccato per ore, con i tifosi a festeggiare, ovviamente in modo molto tranquillo, non come accadrebbe in Italia e in Portogallo. In società abbiamo fatto la storia, è stato un piacere anche a titolo personale per ognuno di noi. Oltre al campionato, in quella stagione abbiamo vinto la FA Cup (Coppa d’Inghilterra), una splendida annata».
– Hai vinto e poi sei partito, perché? «Perché a fine stagione è arrivato Essien, che voleva dire sovrabbondanza a centrocampo e molto probabilmente panchina. D’altronde il Chelsea è così, cerca il continuo ricambio, l’ingaggio del meglio che c’è sul mercato. Quindi, quando il Lione ha bussato alla mia porta, ho pensato che fosse il momento di andare».
– A Lione e nel Lione, la squadra regina di Francia, ti sei trovato subito alla perfezione. «L’allenatore mi voleva e sono arrivato in un ambiente splendido, in una squadra bellissima che giocava un calcio perfetto. Anche a livello di stile di vita, con la bambina piccola, ci siamo trovati a nostro agio».
– Altro ambiente la Francia: meno pressioni che in Portogallo o in Italia, immagino... «Eravamo i più forti, quindi era tutto più facile, perché sapevamo che potevamo vincere tutto. I tifosi, come i giornalisti, non sono come in Portogallo o in Italia, diciamo che in questo senso le pressioni sono minori. Forse è una realtà più simile all’Inghilterra, dove i tifosi sono caldi solo allo stadio e i giornalisti si danno al gossip».
– Già, il gossip... quanto di più lontano da te e dal tuo modo di intendere il calcio e la vita. «Assolutamente. Preferisco stare lontano dai riflettori. Non invidio per nulla giocatori come Beckham che sono sempre sui giornali, o come Del Piero che, volente o nolente, fa sempre notizia».
– Veniamo al calcio giocato allora, tra Benfica, Chelsea e Lione, qual è la squadra che faceva il gioco più adatto alle tue caratteristiche? «Direi il Lione, perché era il più spettacolare, con un centrocampo a tre e Juninho che inventava».
– Da quanto hai detto sembra che a casa tua non passi molto tempo a guardare il calcio. Quando sei arrivato alla Juventus che cosa conoscevi di questa società? «Poco, a dire la verità. Sapevo quello che aveva fatto Paulo Sousa e le uniche partite della Juventus che avevo visto erano la finale di Champions vinta a Roma e quella persa con il Borussia Dortmund».
– Per noi juventini è quasi naturale paragonarti a Paulo Sousa, almeno idealmente. Ma calcisticamente vedi qualche affinità tra voi? «No. Come giocatori non ci assomigliamo, giochiamo nello stesso ruolo, ma lui era uno che amava mantenere la posizione, io invece avanzo e provo a fare gol, forse grazie al mio passato da attaccante, anche se con il 4-4-2 è più difficile, ma questo è il modulo scelto da Ranieri, alla Juve funziona e quindi mi sto adattando».
– Visto che non segui il calcio, in TV guardi altri sport? «Poco, perché mia moglie non è una grande sportiva, quindi quando siamo assieme preferisco guardare qualcosa che piaccia anche a lei, come i film, in particolare le commedie. Al massimo le faccio “sopportare” qualche film d’azione, visto che Mel Gibson è il mio attore preferito. Il mio film è senza dubbio “Braveheart”. Tornando allo sport, al massimo ogni tanto guardo qualche partita di tennis, che praticavo quando ero a Lione, mentre qui non ne ho ancora avuto la possibilità. Quest’estate spero di andare a vedere il Roland Garros».
– Il calcio rimane proprio fuori dalla porta di casa? «Assolutamente. Pensate che qui a Torino Barbara è venuta allo stadio solo un paio di volte, a Londra una, idem in Portogallo. È chiaro che di calcio si parla, ma in modo trasversale, quando parliamo della mia giornata, della nostra vita».
– La casa e la famiglia, dunque, sono il tuo vero rifugio. «Sì, viviamo moltissimo la casa, usciamo poco, anche perché patiamo un po’ il freddo visto che in Portogallo la temperatura è ben diversa! Mi piace portare i bimbi ai giardini, poi tornare a casa e giocare con loro. Poca tv, un po’ di musica, i piatti sfiziosi di mia moglie che è un’ottima cuoca, per fortuna. Noi infatti ci dividiamo così: lei cucina ed io mangio. Cosa? Cucina portoghese, in particolare il bacalhau, un piatto a base di merluzzo, con verdure e riso. In Portogallo siamo specialisti del piatto unico».
– Sempre per curiosare nei tuoi gusti, ci racconti cosa fai in ritiro? «Leggo, guardo qualche serie in dvd e ascolto musica».
– Un’ultima curiosità. Nella tua vita di “viaggiatore”, per riprendere Pessoa, ti sei ambientato nelle città in cui hai abitato, oppure le hai vissute sempre come tappe dei tuoi “viaggi”? «Direi che le vivo proprio un po’ come trasferte. Appena abbiamo qualche giorno di riposo, infatti, torniamo in Portogallo. Per me è difficile legarmi a un luogo, ambientarmi e farlo diventare una seconda casa, ma questo non mi ha mai condizionato a livello professionale. A Torino sto bene e spero di rimanerci il più a lungo possibile. Voglio vincere qualcosa di importante, a partire da quest’anno».
– È una promessa? «Diciamo un impegno, ma ci credo davvero».    

Come raccontato nella testata ufficiale juventina, nella prima stagione non riesce a esprimersi al meglio e, per questo, motivo trova poco spazio nel centrocampo della compagine di Claudio Ranieri, anche a causa dell’esplosione di Zanetti. In campionato disputa una ventina di gare, quasi mai da titolare e con un rendimento di assai basso profilo, rivelandosi il grande acquisto flop della rinascita bianconera. Durante il mercato estivo è spesso dato in partenza, tuttavia, soprattutto per sua volontà di non trasferirsi, rimane a Torino come riserva.
L’anno successivo, dopo un inizio nel quale è poco presente, anche a causa di un infortunio, riesce a disputare qualche spezzone di partita, nei quali mostra netti progressi rispetto alla stagione precedente, ricevendo anche i complimenti dell’allenatore Ranieri: «Ho sempre dichiarato che i ragazzi sono stati acquistati dopo essere stati soppesati e valutati. Poi è ovvio che possono incontrare delle difficoltà. Adesso Tiago non si sente come l’anno scorso un giocatore che deve dimostrare qualcosa, perché su di lui si regge il gioco della squadra e ha meno responsabilità. Ora riesce a fare quello che sa fare. I ragazzi gli vogliono bene e lui dimostra di avere una classe cristallina. Ha giocato bene in mezza Europa ed era strano che in Italia non ci riuscisse. Adesso negli spezzoni di partita che gli sto dedicando sta dimostrando di non essere un acquisto sbagliato».
Conferma le ottime impressioni destate in precedenza con altre gare di alto livello, come gli scontri diretti con la Roma in campionato, e il Real Madrid in Coppa Campioni. Ma la sfortuna è in agguato: sabato 22 novembre 2008, al secondo minuto di gioco della partita Inter-Juve, si procura una distorsione al ginocchio sinistro causato da un contrasto con Stankovic, che lo costringe a uno stop di una quarantina giorni. Rientrato dall’infortunio, gioca da titolare l’8 febbraio in Catania-Juventus, confermando i miglioramenti visti in precedenza. A causa degli infortuni di Zanetti e Sissoko, forma con Marchisio la coppia titolare del centrocampo bianconero per la parte finale della stagione.
Con l’arrivo di Ciro Ferrara, nell’estate del 2010, e col passaggio al modulo 4-3-1-2 a lui più congeniale, tutti si aspettano la sua definitiva esplosione. Il giocatore stesso è molto speranzoso. «Con Ferrara va molto bene, sento la sua fiducia, il mio problema? Non era l’incapacità di adattarmi al campionato italiano ma il modulo, ho sempre giocato in un centrocampo a 3. Quando l’anno scorso giocavamo a 4 ero bloccato con compiti difensivi, ora invece sono più libero, difendo ma posso anche andare a prendermi il pallone e costruire gioco, così posso esaltare le mie caratteristiche. Perché ora sorrido tanto? Sta andando tutto per il meglio: sono soddisfatto del mio lavoro e di quello della squadra, abbiamo battuto il Real giocando un buon calcio, che altro possiamo chiedere in questa fase di preparazione?».
Il portoghese, però, si dimostra in netto calo rispetto alla stagione precedente, disputando partite di non elevato spessore condite anche da grossolani errori, simili a quelli che lo avevano caratterizzato nel suo difficile primo anno in bianconero. Trascorre una prima parte di stagione essenzialmente come riserva, per poi venire definitivamente accantonato dopo la partita contro il Maccabi Haifa, disputata il 3 novembre 2009.
L’8 gennaio 2010 è ufficializzato il suo trasferimento all’Atletico Madrid, terminando così la sua poco felice avventura in bianconero.
«A Torino ho perso un anno, il primo – racconta in un’intervista al sito della Federazione portoghese – volevo dimostrare di vincere attraverso il lavoro. In seguito sono tornato a vedere le cose in maniera positiva, dando il massimo e dimostrando all’allenatore che potevo fare bene, per me e per i compagni. Da quel momento le cose sono cambiate e migliorate: è stato il punto più basso della mia carriera, ma da quell’annata imparai molto. Con Ranieri non c’è mai stata sintonia. È importantissimo per un giocatore avere la fiducia dell’allenatore, a maggior ragione quando cambi squadra e ti trasferisci in un nuovo paese. In Italia, sin dall’inizio, non ho mai percepito la fiducia di Ranieri: dal primo momento tra noi non c’è mai stata sintonia, ero alla Juve ma sarei voluto andare via».

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