lunedì 14 ottobre 2024

Didier DESCHAMPS


Fratelli nel dolore. Didier Deschamps ha un amico, – scrive Matteo Dalla Vite sul “Guerin Sportivo” del 10-23 agosto 1994 – il suo migliore amico: si chiama Marcel Desailly, e con lui ha diviso le gioie nel Nantes e la profonda tragedia di un parente che viene a mancare. Didier è un ragazzo sensibile, come Desailly. Entrambi si sentono fratelli, forse perché quelli veri non ci sono più. «È difficile parlarne, anche se sono già passati alcuni anni. Marcel aveva un fratello, giocava bene al calcio: noi tre eravamo inseparabili, sembravamo indistruttibili, ma un giorno un incidente d’aut se lo è portato in Paradiso. Anch’io avevo un fratello, si chiamava Philip. Scomparve quando l’aereo che lo portava a Bruxelles per lavoro cadde; se ne andò quando io avevo diciotto anni e lui ventuno. Adesso ha capito perché ci sentiamo così uniti?».
Didì Deschamps ha un cuore forte e grande, un passato di bravo ragazzo e la facciotta sempre vispa. Ha legato con tutti perché già sa qualche parola in italiano e perché ha insita la voglia di sdrammatizzare, scherzare, combattere e non mollare mai. Ecco la sua vita, fatta di sensazioni forti e sviluppatasi dopo un’infanzia che non ha lasciato brutti segni.
«Sono nato a Bayonne il quindici ottobre del 1968 da una famiglia che mi ha fatto vivere felice. Mia madre Ginette faceva la sarta, mio padre Pierre lavorava all’aeroporto; adoravo andare da lui a guardare gli aerei che decollavano o atterravano. Ho avuto un’infanzia semplice, durante la quale non ho fatto piccoli lavoretti ma solo molti sport. Ho giocato a tennis, mi sono cimentato nel rugby, ed ero anche abbastanza cattivello, poi ho provato con la pelota basca ma quel che volevo era solo il calcio. La mia passione più vera? La caccia: quante volte sono andato con mio padre, quante volte ci siamo divertiti col fucile in mezzo ai boschi. Sì, lo so, è la stessa passione di Baggio: un giorno proveremo ad andare insieme, se non altro per vedere chi dei due ci sa fare di più. Mi piaceva anche andare a pesca e, udite udite, anche studiare. No, non ero un secchione: mi piaceva e mi piace apprendere. La sa una curiosità? Mi guardi bene: beh, a undici anni io ero già con soli tre centimetri in meno. Buffa, no...?».
«Ho cominciato a giocare nell’Aviron Bayonne, la squadretta della mia città. Ho sempre dato il massimo, sempre lottato: del resto sono basco. Noi baschi francesi siamo meno poveri di quelli spagnoli ma nonostante questo abbiamo orgoglio e volontà. Quando ci mettiamo in testa una cosa, dobbiamo raggiungerla. A tutti i costi. Così, quando mi sono messo in testa di giocare al calcio, ho iniziato a far sul serio. Nell’Aviron ho giocato fino a quattordici anni, poi il Nantes mi ha visto e preso con sé. Mi scopri Jean Claude Suaudeau, grande talent scout che ha lanciato molti giocatori francesi. Se son sempre stato centrocampista? No, per alcuni anni ho fatto il libero, sia nelle giovanili e sia in prima squadra. Io un leader? Diciamo un piccolo leader, anche perché in effetti ho vestito la fascia di capitano in tutte le formazioni delle giovanili e anche in Serie A. Chissà perché tutto questo: probabilmente avevo già una maturità spiccata e una capacità particolare nel capire e ragionare come una persona adulta. Forse il fatto di essere cresciuto poco di altezza dagli undici anni in poi mi ha fatto capire che la serietà dovevo cercarla il più in fretta possibile».
«Ho fatto tutta la trafila delle giovanili, e il vero esordio l’ho conosciuto a sedici anni in Coppa Uefa: giocavamo contro lo Spartak Mosca, io entrai solo per pochi minuti. Anche contro l’Inter disputai spezzoni di partita: sì, furono davvero grandi esperienze. Insomma, sono stato sette anni al Nantes e a quasi venti mi sono trasferito all’Olympique Marsiglia. Arrivai a novembre, a metà stagione, e dirigenti e tecnico decisero di mandarmi per un anno in prestito al Bordeaux. Fu un anno difficilissimo, giocato nella seconda categoria del campionato e con la società strozzata dai debiti. Poi, finalmente, me ne tornai a Marsiglia e non me ne andai più. L’esperienza all’OM mi è servita in questa nuova ottica italiana; mi è servita perché ho la fortuna di aver giocato nella squadra che più si avvicina a quelle italiane sia per organizzazione e ambizioni sia per la pressione che l’ambiente esterno esercita intorno ad essa. Con questa squadra, poi, ho conosciuto i momenti più belli della mia carriera: dopo aver esordito in Nazionale in un Francia-Jugoslavia nell’aprile del 1989, ho conosciuto la gioia più grande della mia carriera quando battemmo il Milan nella Coppa dei Campioni. Quella sì che è stata una serata davvero speciale…».
«Ve la ricordate quella serata, no? Noi del Marsiglia abbiamo battuto il Grande Milan con la testa, l’intelligenza, l’intuizione, la furbizia. Grazie al temperamento vincente e alla sapienza tattica di Goethals, il nostro allenatore, abbiamo cercato di giocare il più possibile nella loro metà campo. Sapevamo che se avessimo ripiegato ci avrebbero fatti secchi, ma siamo riusciti a farli fritti noi. Per lo scudetto? Ci sono loro, certo, ma anche la Juve come tante altre squadre. Sarà un campionato livellato e combattuto fino alla fine: questa mia Juventus è già forte. Platini? “Michele”, come lo chiamo io, mi ha detto ogni cosa: mi ha detto per esempio che vincere da voi è difficilissimo e che la volta in cui ci riesci diventi un vero idolo. Mi ha insegnato anche a stare attento ai giornalisti; sì, insomma, di chiacchierare il meno possibile e solo quando si ha qualcosa di vero da dire. Questo vostro campionato sarà il campionato dei miei ex compagni: oltre a Desailly, Boksic e Futre, sono arrivati giocatori bravissimi. Pelé è forte, ma un po’ incostante. Angloma non è molto veloce, ma si tratta di un difensore piuttosto esperto. Boghossian, invece è ancora un po’ inesperto. Il mio ex compagno di reparto Sauzée? Nell’OM lui stava sul centrodestra della metà campo, io sul centrosinistra: non so perché ha fallito, ma credo che attorno a lui non ci fossero abbastanza uomini capaci di difendere. Io, invece, sarò lo scudiero di Roberto Baggio. Ma a una condizione: che lui lo sia poi del sottoscritto quando andremo a caccia insieme...».
«Mi piacciono le macchine, ho una BMW 850; così come mi piace la cucina. Il mio piatto preferito? Il Foie Gras. Mi sono sposato cinque anni fa a Nantes con Claude. Come l’ho conosciuta? Dopo una partita, assieme a sua sorella, andammo in discoteca. Ci conoscemmo meglio e ci piacemmo subito. Figli? Credo che mi deciderà quest’anno, in Italia. Se sarà femmina la chiamerò Anais, se sarà un maschio Jonathan. Mi piacciono i bambini, e anche molto: l’anno scorso ho devoluto una cifra per alcuni ragazzini portatori di handicap. Che tipo ero da piccolo? Un tipo tranquillo, piuttosto serio, uno al quale non piaceva tanto fare il pazzo. Adesso, in compenso, c’è mia moglie che diventa... pazza per un vostro cantante italiano, Eros Ramazzotti. A me? Piace sì, ma più di tutti preferisco Umberto Tozzi che una volta venne a cantare a Marsiglia. Già, Marsiglia: non dimenticherò mai la lezione che abbiamo dato al Milan. Una lezione che in campionato ho già voglia di ripetere. Per filo e per segno...».

Appena arrivato alla corte di Lippi subisce un infortunio gravissimo: parziale rottura del tendine di Achille. Didier si deve fare operare e la convalescenza è molto lunga, sei mesi. Didier non è il tipo che si arrende facilmente: una volta guarito diventa subito indispensabile costituendo con Paulo Sousa, una coppia di centrocampo fortissima che porta la squadra bianconera a vincere scudetto e Coppa Italia e arrivare in finale di Coppa Uefa.
Ritrovata la forma migliore, Didier non perde più il posto. Fortissimo nel pressing a tutto campo e nel contrasto, ha un senso della posizione che gli consente di integrarsi con qualsiasi compagno, senza la minima difficoltà. È uno di quei giocatori, magari poco appariscenti, che fanno sempre sentire il peso della loro grande generosità agonistica e uno spiccato senso tattico. Il numero di palloni che tocca e i chilometri che percorre sono incalcolabili. L’unico difetto che gli si può appuntare è che segna raramente: infatti, nelle 178 partite disputate con la Juventus, realizzerà solamente quattro goal.
La stagione successiva è memorabile: la Vecchia Signora non riesce a bissare lo scudetto ma arrivano la Supercoppa Italia, e, soprattutto, la Coppa Campioni.

MAURIZIO CROSETTI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 2-8 MAGGIO 1997
Il perno del compasso bianconero è questo francese senza fronzoli, lustrini e tocchetti, questo omino scolpito nel marmo. Strano e solare personaggio, Didier Deschamps, che in tre anni è riuscito a fare in modo che la Juventus gli assomigliasse, diventando una squadra che vince con la forza interiore, con l’applicazione e mai per grazia ricevuta. La carriera e la figura sportiva di Deschamps sono proprio questo: una costruzione, non una predestinazione. Sono la storia di chi non era il migliore del mondo e lo sapeva, ma sapeva anche che bisogna provare a essere sempre un po’ migliori di così, un po’ migliori di sé. «Io volevo solo un contratto professionistico, non sognavo altro, non pensavo che potessi ottenere di più da questo sport».
Non è modestia ma realismo, un compagno di viaggio che Didier Deschamps non ha mai abbandonato. Altrimenti non potresti vincere la Coppa dei Campioni se stai nel Marsiglia, e se dall’altra parte del campo c’è il grande Milan. Altrimenti non potresti diventare il giocatore più prezioso della Juventus, se in squadra con te giocano campioni come Del Piero, Zidane, Boksic, Peruzzi. Altrimenti non potresti diventare il capitano della Francia anche se non hai il genio di Djorkaeff, se non segni quanto Dugarry, se non sei accostabile a Michel Platini neanche nel ricordo. Per farcela, serve altro. E Deschamps ce l’ha.
«Dimenticate Michel, guardatelo solo nei poster», disse non appena giunto a Torino. E si ironizzò su questo mediano che correva e basta, che era costato troppo poco per essere vero, che non segnava mai e che venne addirittura operato al tendine d’Achille dopo un po’ di Juventus. «Nessun problema, so che le cose si conquistano per gradi. All’inizio stavo male, poi sono guarito. Il resto l’ha fatto la serenità. Se c’è quella, e se giochi in una squadra forte, non hai bisogno d’altro».
Il serenissimo Deschamps ha lavorato, è stato zitto, ha capito che la svolta poteva essere il nuovo ruolo di regista-incontrista accanto al regista-artista Zidane. Così è nato il doppio motore juventino, capace di propulsione fisica e geometrica. «Non sono più un distruttore, sono migliorato tecnicamente, ho avuto fiducia» dice il nuovo Deschamps, quello che non pensa più a rompere il gioco altrui ma a costruire il proprio. Lo fa con spaventoso dinamismo e inesausta grinta: per alcuni osservatori, Deschamps è uno dei giocatori più duri del campionato, però non c’è nulla di gratuito nei suoi colpi. Semmai, una grande spinta atletica: «Dipende dal professor Ventrone, non avevo mai faticato tanto in vita mia. Nei primi tempi lo sognavo la notte ed erano incubi. Poi ho capito che i nostri successi dipendono anche da lui».
Tenace come un basco, orgoglioso come un francese e aperto come un mediterraneo, Didier Deschamps è uno che parla di tutto, un uomo molto intelligente e ironico. Ma anche un sottile critico del calcio, uno dei primi ad avvertire i possibili rischi legati alla sentenza Bosman. «Adesso i francesi sono di moda, tutti li vogliono e i nostri club non hanno il potere economico per reggere l’assalto. Ma così si impoverisce il movimento nazionale e tra qualche anno non ci sarà quasi nulla. Bisogna reagire, imparando la lezione dai paesi stranieri: noi francesi siamo venuti in Italia a conoscere il calcio più competitivo del mondo, il minimo che possiamo fare è vincere i Mondiali francesi del 1998».
Proprio la Nazionale, della quale Deschamps è capitano e nella quale gioca da sette anni, rappresenta un sogno non del tutto appagato: «Abbiamo mancato la qualificazione agli ultimi Mondiali e siamo usciti dagli Europei senza perdere una partita. Speriamo vada meglio in casa nostra, tra un po’ di mesi».
Nella Juventus capace di vendere grandi giocatori e tenere grandi faticatori, Didier Deschamps è un intoccabile. «Ma il salto di qualità è dipeso proprio dal vostro calcio. Qui si assimila una mentalità diversa, si diventa professionisti a 360 gradi. Ecco perché chi lascia la Juventus può solo scendere. In questi anni abbiamo battuto avversari anche più dotati di noi: ma la migliore squadra del mondo è quella che sa restarlo più a lungo, con una grande fame di vittoria. Che non è finita. Vogliamo lo scudetto dal primo giorno di lavoro, a luglio. Un lavoro mostruoso e prezioso».
Ha vinto più Coppe lui da solo, di tutto il calcio francese, eppure non si sente in cima alla piramide, e neppure gli viene la tentazione di guardare gli altri da lassù. Ha deciso che il calcio non lo avrà in eterno: anche se il giorno dell’addio è ancora lontano, il compasso della Juve ha già deciso che vivrà a Biarritz, dove ha casa, e lo farà senza morire di ricordi. Non c’è solo un pallone dentro la sua vita: «L’anno scorso è nato mio figlio Dylan, è accaduto tra la vittoria della Coppa dei Campioni e la partenza per gli Europei. Mi pareva di non toccare terra dalla gioia».
Anche se non è un fantasista, anche se non è un marcantonio, Didier Deschamps è stato eletto miglior giocatore francese del ‘96. «Le vittorie nella Juventus sono state decisive, inoltre mi è servita la vetrina degli Europei. Adesso bisogna continuare».
Non si vergogna nel mostrarsi stupito di tanta carriera, lui che all’inizio chiedeva solo un contratto e un mestiere. Ha avuto molto di più. «Forse sono migliorato al momento giusto, quando il calcio francese è tornato a essere una realtà importante. Tutto cominciò battendo il Milan in Coppa dei Campioni: una svolta storica che abbiamo sfruttato un po’ tutti».
E lui meglio di altri, forse perché ha saputo crescere senza cambiare, restando prima di tutto una persona normale.

Si prosegue con lo scudetto, la Supercoppa Europea, la Coppa Intercontinentale e un’altra finale di Coppa Campioni persa contro il Borussia Dortmund degli ex. E ancora nel 1997-98: la Supercoppa Italiana, lo scudetto e un’altra finale di Coppa Campioni sfortunata, contro il Real Madrid.
Diventa insostituibile anche nella Nazionale francese della quale è l’indiscusso capitano e con la quale vince il Mondiale casalingo del 1998 e gli Europei olandesi del 2000; con la maglia “bleu” totalizza 103 presenze e quattro goal.
Poi il lungo addio. Stagione 1998-99: entra, come altri suoi compagni, in collisione con Marcello Lippi e il tecnico viareggino sarà costretto a dimettersi dall’incarico. «Premetto che nessuno può essere soddisfatto per quello che è successo. Però è vero, sabato mattina ho litigato con Lippi, non per la decisione tecnica di tenermi fuori squadra, fatto che pure mi ha deluso e fatto arrabbiare ma che ho accettato, piuttosto perché avevo delle cose da dirgli e gliele ho dette. Mi dispiace che sia successo alla vigilia delle sue dimissioni. Per ora non lo chiamerò, ma in seguito accadrà. Questa vicenda non toglie nulla al nostro rapporto, del resto in questi cinque anni Lippi ha litigato con molti giocatori. Succede anche tra moglie e marito. Responsabile della sua dipartita? Lo sono per quello che non ho fatto sul campo, io sono uno dei più anziani del gruppo e da me ci si aspetterebbe di più».
Inevitabilmente lascia Torino, per raggiungere Vialli al Chelsea, dove ritrova Marcel Desailly, suo amico fraterno. «Cosa ho trovato a Torino? Una grande società, una professionalità impeccabile da parte di tutti, dal magazziniere al massaggiatore, dai medici al presidente e tutti i dirigenti. Ci mettono nelle migliori condizioni per dare sempre il cento per cento. Sono arrivato a Torino che avevo vinto due campionati francese e una Coppa dei Campioni, ma la Juventus mi ha dato ancora di più».
L’esperienza inglese non sarà molto fortunata e Didier terminerà la carriera l’anno seguente a Valencia. Intrapresa l’attività da allenatore, sfiora una Coppa Campioni coi francesi del Monaco, sconfitti in finale dal Porto di Mourinho.
Nell’estate del 2004 è il maggiore candidato a sedere sulla panchina della Juventus del dopo Lippi, prima del blitz “umbertiano” che porta a Torino Fabio Capello. L’appuntamento, però, è solamente rimandato; nella turbolenta estate del 2006, infatti, la nuova dirigenza bianconera lo ingaggia, per riportare la Juventus in Serie A.
Quando mancano due giornate alla fine del campionato 2006-07, raggiunta la matematica promozione nella massima serie, Didier rassegna le proprie dimissioni da allenatore della Juventus. «Accettai la panchina della Juve senza sapere se avrei allenato in C, in B e con quale penalizzazione. Si parlava di meno trenta, meno diciotto. Fu un modo per sdebitarmi con chi mi aveva dato tantissimo nei cinque anni vissuti a Torino da giocatore. Ottenendo la promozione in A penso di avere saldato il mio debito, di essermi messo in pari».
Successivamente, Didì, si pentirà di quella decisione: «Sul momento mi sembrò una decisione giusta, coerente. Invece fu un errore tutto mio. Con il passare del tempo ho realizzato che la gente del calcio non aveva colto le ragioni di quella mia scelta. Faccio un esempio: fui contattato dal Liverpool e la prima cosa che i miei interlocutori mi chiesero durante la riunione fu: “Perché se ne andò dalla Juve?”. Io e la società avevamo visioni diverse sul futuro e devo dire che anche chi mi stava vicino, come il mio agente, non mi consigliò al meglio. In pratica nulla fece per ricomporre la frattura. Fatto sta che venivamo da un’annata psicologicamente difficile, in cui ci ritrovammo in città e stadi mai visitati prima dalla Juve. Ogni partita era una battaglia. Consumammo davvero molte energie e sapevo che le aspettative l’anno successivo sarebbero state ancora più alte. Ma non si poteva pretendere di vincere subito lo scudetto, bisognava andare per gradi, ricostruire. La mia posizione all’epoca era chiara: meglio prendere tre giocatori fortissimi all’anno, piuttosto che sei o sette di medio valore. Per essere all’altezza del proprio passato e delle aspettative che la circondano, la Juve ha bisogno di un continuo ricambio di campioni. Certo la qualità ha un prezzo, ma in quell’anno in B riuscii a lanciare giovani come Marchisio e De Ceglie, quindi potevamo concentrarci su pochi rinforzi di alto livello. E il discorso regge, anche se parliamo di due grandi rinforzi, piuttosto che cinque arrivi di medio valore».

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