lunedì 15 luglio 2024

Marco DI VAIO


Attaccante molto veloce, ficcante e dotato di un tiro molto potente e preciso, viene acquistato dalla Juventus, nell’ultimo giorno del calciomercato edizione 2002. Proviene dal Parma, proprio pochi giorni dopo aver giocato e segnato alla Vecchia Signora nella finale della Supercoppa Italiana: «Eravamo a Tripoli. Nel primo tempo meglio loro e 1-0 di Del Piero, poi siamo usciti noi ed io ho fatto un gran secondo tempo, ma ancora Del Piero ha fatto 2-1. Si diceva che dovessi andare all’Inter, dopo che Ronaldo era stato ceduto al Real, ero convinto, invece mi chiamò il mio agente Alessandro Moggi e mi disse che mi aveva preso la Juve».

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Ormai certi dubbi pesanti li ha spazzati via, gettati nel dimenticatoio Marco Di Vaio. Lo ha fatto all’indomani di una serata importante: quella in cui, subentrato a Christian Vieri, ha messo a segno il gol che ha chiuso definitivamente – se ancora qualcuno potesse nutrire dei dubbi – Italia-Azerbaigian e quindi il discorso della qualificazione per il campionato d’Europa 2004.
«Sì, finalmente ho capito che andare in panchina – ha detto all’indomani del suo primo gol con la maglia della Nazionale – non è un declassamento, né tanto meno una mortificazione, ma rappresenta solo un’occasione da cogliere al volo. E che puoi mettere a frutto soltanto se mentalmente sei preparato, cioè sereno e caricato, non certo rassegnato. Dipende tutto da quello che vuoi dalla tua vita di calciatore. Ma quando accetti di restare in una squadra come la Juve, non puoi essere insofferente, qualche panchina ci può anche stare».
Un Marco Di Vaio diverso quello che ha iniziato nel modo giusto la sua seconda stagione alla Juve e che è rientrato da Reggio Calabria dopo aver segnato il suo primo gol in Nazionale. Un uomo che sembra essersi liberato da certi dubbi che lo avevano assalito soprattutto nello scorso campionato, quando al rientro dopo un serio infortunio in Champions League, aveva fatto fatica a recuperare la brillante condizione di inizio stagione.
Il suo arrivo alla Juventus, la scorsa estate, era stato dettato da motivi contingenti. In precampionato aveva già fatto soffrire Buffon e compagni sulla sabbia colorata di verde di Tripoli, dove il suo gol non era bastato a far quadrare i conti del Parma e ribaltare la doppietta di Alessandro Del Piero che aveva indirizzato la Supercoppa verso Torino. Pochi giorni dopo, a causa dei problemi al ginocchio che aveva fermato Trezeguet e alla necessità della Juve di rinfoltire i ranghi in vista di una stagione estremamente impegnativa, era diventato bianconero.
Ma la sua vicenda non era stata delle più lineari: dopo una confortante partenza – e due splendidi gol alla Dinamo Kiev – era incappato in un infortunio (la tremenda testata contro O’Brien nel corso della partita di Champions League contro il Newcastle che lo aveva mandato in ospedale con un forte trauma cranico) che forse lo ha condizionato anche dopo il pur sollecito rientro. Il vero Di Vaio, insomma, si era rivisto solo a sprazzi. «In certe occasioni resti fuori dalla formazione iniziale e cerchi alibi – confessa Marco Di Vaio – oppure, quando vai in campo vorresti spaccare il mondo e non ci riesci. Allora è comprensibile che si possa perdere la tranquillità, la sicurezza dei propri mezzi. Alcune prestazioni non troppo felici si possono spiegare solo così».
– Ma come hai valutato il tuo primo anno alla Juve? In che misura ti ha soddisfatto? «Il bilancio è stato buono: quando si vince uno scudetto e si arriva a una finale di Champions League, anche se non si riesce a vincerla, non ci si può lamentare. A livello personale forse poteva andar meglio, ho avuto alti e bassi. Comunque è stata un’esperienza positiva da cui credo di essere riuscito a trarre insegnamenti preziosi».
– Quali sono stati i momenti più difficili da superare? «Ho sofferto, e parecchio, le pressioni dell’ambiente, fossero esse esterne o interne. Sentivo in altri termini che la gente si aspettava molto da me e mi rendevo conto di non riuscire a rispondere nella maniera giusta a queste aspettative. Tutto questo mi dava ovviamente un senso di comprensibile insoddisfazione».
– E poi cos’è successo? «Poi sono andato in vacanza, ho riflettuto a lungo su quanto mi era successo e qualcosa si è finalmente sbloccato, è cambiato dentro la mia testa. Ovviamente non ho fatto tutto da solo: mi hanno aiutato in maniera determinante Malisa, la mia compagna, mia madre Rossella e mio padre Gino».
– A quale conclusione ti hanno portato questi suoi ragionamenti? «Innanzitutto mi sono reso conto che nella Juve ci sono tanti grandi campioni che non possono giocare tutti in tutte le partite. È ovvio che vorresti esserci sempre, e che se stai fuori ci resti male. Credo che succeda a tutti, non solo a me. Ma ho capito che un`eventualità del genere poteva succedere anche a me e che non dovevo considerarla la fine del mondo. Non dovevo considerare la panchina come una gabbia né tanto meno come un’umiliazione, ma come un’occasione da sfruttare, un trampolino di lancio. Bisogna andare in panchina senza accettarla con rassegnazione ma animati dalla voglia di dimostrare sul campo di non meritarla. Ragionando così, ora mi sembra che la porta si stia persino allargando, per me».
– Di riuscire a sfruttare l’occasione, come stavi dicendo, è successo già contro la Roma, per esempio. «Sì, sono entrato dopo l’infortunio di Del Piero e ho segnato due gol. Purtroppo non sono bastati per vincere, ma non ha importanza. È stata la dimostrazione che la panchina si può interpretare in maniera positiva».
– Ed è anche una costante per te. Anche il giorno del tuo esordio in Serie A, era successa la stessa cosa. «È vero: giocavo nella Lazio, ero entrato nella ripresa contro il Padova e avevo fatto subito gol. E non è storia di ieri, ma del 1994».
– Una storia che si è ripetuta tante volte, però. L’ultima l’11 ottobre scorso contro l’Azerbaigian, con la maglia della Nazionale. «Già, ed è stato un fatto importante soprattutto perché non avevo mai segnato con la maglia della Nazionale, e la cosa cominciava a darmi fastidio, lo confesso. Il segreto forse sta nel fatto che gioco sempre con lo spirito e l’entusiasmo di quando avevo diciotto anni».
– Ora si è aggiunto un particolare: sia nella Juve che in Nazionale spesso Di Vaio in panchina si ritrova con Fabrizio Miccoli. «Già, e di posto spesso ce n’è uno solo! Ma sarà così per tutta la stagione. Dopo Italia-Azerbaigian il primo a complimentarsi con me per il gol è stato proprio lui. Ma siamo amici, ci rispettiamo, ci vogliamo bene. È una storia che si ripeterà ma noi ci aiuteremo e sosterremo a vicenda. Così sarà più facile per entrambi. E poi si tratta di un grande giocatore, con colpi straordinari. Giocare con uno come lui è facile e divertente!».
– Anche ad Ancona, in campionato, avete giocato insieme: tu hai fatto la prima punta, e Miccoli ha segnato due gol. «Sono stato felice per lui: meritava una serata da protagonista dopo la sfortuna avuta all’esordio, nella prima di campionato. In quanto a me, ho giocato da prima punta, ho cercato di mettermi al servizio della squadra, e credo di aver dato il mio apporto».
– Hai studiato da Trezeguet, insomma, tu che più che altro sei una seconda punta, un contropiedista. «Sulla seconda punta sono d’accordo. Preferisco giocare al fianco di un giocatore che abbia certe caratteristiche, ma posso fare anche la prima punta, l’ho già fatto in passato con buoni risultati e non solo episodicamente. Non mi considero però un contropiedista, anche se sono veloce e nelle ripartenze posso mettere a frutto certe mie qualità. Quella del contropiedista è una leggenda: tutto dipende anche da chi hai vicino. Io credo di essere un attaccante abbastanza completo e sto cercando di fare di tutto per dimostrarlo».
– Come è cominciata per te la nuova stagione? «Credo di avere avuto le occasioni che mi aspettavo, che speravo di avere. Purtroppo si è infortunato Del Piero e mi si è presentata qualche opportunità in più. Che spero di riuscire a cogliere».
– Come in occasione della partita con la Roma. «È stata davvero una giornata speciale per me, anche perché non era in preventivo. È stata la mia gioia più grossa da quando sono alla Juve, dopo quella del gol al Perugia, l’anno scorso, che ci è valso lo scudetto».
– Tu hai segnato un gol importante anche in Nazionale. Il tuo primo gol in azzurro, il terzo della partita, ha chiuso definitivamente la pratica della qualificazione per l’Europeo. «Sarei stato ugualmente felice se avessi segnato il quarto o il quinto gol. La prima volta in Nazionale ti dà una emozione immensa, che ti rimane dentro, impressa indelebilmente nella mente. Resterà uno di quei momenti della mia vita di calciatore che non dimenticherò mai».
– Il tuo obbiettivo per questa stagione? «Far meglio dell’anno scorso e soprattutto vincere ancora. Che cosa? Non metto limiti. Più che si può. Cercando di dare il massimo contributo».

E il buon Marco farà davvero meglio, con 44 presenze e 17 gol; facendosi ricordare, soprattutto, per la bellissima rete realizza a San Siro contro il Milan, con uno splendido tiro al volo di destro. Ma la stagione juventina è deludente e Marcello Lippi abbandona la nave bianconera. Arriva Fabio Capello che non crede in lui e viene così ceduto al Valencia: «A Torino ho passato due anni intensi, anche non facili ma crescendo tanto e togliendomi soddisfazioni importanti. Il secondo anno, nonostante facessi bene, non c’è stata continuità nel mio utilizzo. Da qui sono nati i contrasti con Lippi o, sarebbe meglio dire, chiacchierate in privato, ma sempre nel rispetto dei ruoli. Non a caso quando andai in Spagna lui arrivò alla Nazionale e mi convocò subito. Ranieri mi voleva a Valencia e credeva nelle mie qualità; posso dire che la sua presenza è stata determinate per farmi accettare il trasferimento fuori dall’Italia».

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