sabato 26 ottobre 2024

Giorgio FERRINI

 

Giorgio Ferrini merita una lapide nel vecchio campo di via Filadelfia, accanto agli eroi della leggenda granata – scrive Elio Domeniconi sul “Guerin Sportivo” del 17-23 novembre 1976 – adesso tanti clubs sorgeranno nel suo nome e nel suo ricordo. Ma vogliamo anche una lapide perenne sul campo che l’ha visto protagonista di tante epiche battaglie e dove i tifosi gli hanno allestito la camera ardente, per dargli l’ultimo saluto. Il Torino ha perso un altro dei suoi simboli, come Gigino Meroni, come lo squadrone caduto nel cielo di Superga. Giorgio Ferrini era un capitano emblematico, ormai si si identificava con il Torino. Era diventato una bandiera. La bandiera granata.
Il flash-back del campione inizia con una data storica: 20 settembre 1959, Sambenedettese-Torino, 0-0. Arbitro De Marchi di Pordenone, queste le formazioni. Sambenedettese: Dreossì; Alberti, Lorenzini; Bronzini, Santoni, Chermes; Valentinuzzi, Mecozzi, Tassi, Buratti, Pennati. Torino: Soldan; Scesa, Cancian; Bearzot, Lancioni, Bonifaci; Crippa, Mazzero, Virgili, Moschino, Ferrini.
È l’esordio in maglia granata di Giorgio Ferrini ed è l’inizio della riscossa del Torino. L’anno prima, rimasto senza soldi, si era abbinato alla cioccolata Talmone. Sulla maglia dove ora c’è lo scudetto tricolore, c’era una grande T simbolo dei gianduiotti. Il Torino era precipitato in serie B, sembrava la fine di un mito. Poi l’allenatore Imre Senkey, si affida a quel ragazzino biondo, arrivato da Trieste. Lo tiene a battesimo Enzo Bearzot, altro vecchio cuore granata, che poi gli cederà anche la fascia da capitano. Il Torino acquista grinta e torna in serie A.
Un giorno Ferrini, ci raccontò la sua storia, l’abbiamo ancora nel notes: «Giocavo allora nella Ponziana, vincemmo il campionato di promozione. Al Torino mi aveva segnalato un ex, l’argentino Josè Curti. Venne a osservarmi il dott. Alberto Lievore, un grande scopritore di talenti, ha portato tanti giocatori al Torino, da Vieri a Rosato. Gli piacqui, combinò l’affare, mi portò con sé a Torino e mi affidò a Ussello, che era già alla guida del vivaio. Avevo diciotto anni e tante speranze. Dopo un anno tra i giovani granata, venni mandato a farmi le ossa in serie C, a Varese. Mi ci trovai bene, anche perché lì conobbi Mariuccia, che sarebbe poi diventata mia moglie, non me ne sarei andato più. Fu Fabbri a convincermi a tomare».
Nel purgatorio di serie B, trentotto partite e quattro gol. E dopo la promozione, quindici campionati di fila in serie A (dal 1960 al 1975): 404 presenze, trentanove gol, sette allenatori: Imre Senkey, Beniamino Santos, Nereo Rocco, Edmondo Fabbri, Giancarlo Cadè, Gustavo Giagnoni, ancora Fabbri. Li ricordava tutti con simpatia e affetto: «Nereo Rocco – ci disse un giorno – è uno dei pochi uomini che hanno segnato una traccia profonda nella mia vita. Un grande allenatore, un grosso personaggio».
Accusarono Rocco, di aver creato anche a Torino il clan dei triestini, ma il Paron li lasciava dire. Si limitava a ribattere: «Avessi dieci Ferrini, sarei a posto».
Nel suo cuore c’era anche l’argentino Santos, il povero Jo che si schiantò in macchina mentre tornava dalla Spagna furibondo perché i dirigenti del Genoa gli avevano venduto Meroni. «Santos – ci disse Ferrini – per me è stato una specie di padre putativo. Era un profondo conoscitore del calcio e un grande psicologo. Quando mi vedeva un po’ giù di corda, mi prestava la sua automobile perché potessi raggiungere la mia fidanzata, Mariuccia, a Varese. Erano davvero altri tempi...».
Da tutti gli allenatori, Ferrini, cercò di imparare qualcosa. Raccontava: «Fabbri, secondo me è il miglior tecnico esistente in Italia. Ho una grande stima di lui, proprio perché conosce come pochi il suo mestiere. Cadè è l’allenatore che non mi considerò più titolare. Ci rimasi male, perché non mi andava che preferisse gente che ritenevo inferiore, ma mi dispiacque anche perché con Cadè mi trovavo bene. A rilanciarmi fu Giagnoni. Seppe ridarmi quella carica e quell’entusiasmo che avevo perduto. Ma fu un gran dritto, l’allenatore con il colbacco. Aveva capito la psicologia del tifoso granata e si comportò di conseguenza».
L’ultima partita di Ferrini durò soltanto due minuti. A Cagliari, Fabbri lo mandò in campo all’88’ a sostituire Santin. Il Torino, all’inizio, si era schierato così: Castellini; Lombardo, Callioni; Santin, Cereser, Salvadori; Graziani, Mascetti, Sala, Zaccarelli, Pulici.
Ormai Ferrini doveva lasciare il posto ai giovani. I tifosi della Ponziana l’avrebbero rivoluto a Trieste, gli aveva fatto allettanti offerte anche la Sanremese. Ma Ferrini preferì rimanere a Torino, perché ormai faceva parte della famiglia granata. E anni prima, Italo Allodi aveva tentato invano di portarlo all’Inter. L’offerta era allettante: trecentocinquanta milioni, una cifra enorme, per quell’epoca. Ma Lucio Orfeo Pianelli si rifiutò di cedere la bandiera del Torino e Ferrini fu ben lieto di restare. Così come accettò con entusiasmo di fare il luogotenente di Gigi Radice, dopo aver appeso le scarpe al fatidico chiodo. Chiese soltanto uno stipendio che gli permettesse di mantenere la famiglia, moglie e due figli, senza intaccare il capitale (con i primi risparmi si era comprato il bar-tabaccheria in via Filadelfia, poi era arrivata la villetta di Pino Torinese). Fu subito accontentato.
I medici escludono che l’emorragia cerebrale che l’ha portato alla morte, sia stata provocata dai colpi di testa, piuttosto la causa potrebbe essere il logorio nervoso. Ha detto il professor Fasano: «Ferrini, quando ha smesso di giocare al calcio, ha avuto dei problemi, non ha potuto evitare alcuni stress nervosi che favoriscono questo tipo di malattia cerebrale. Doveva crearsi una vita futura: il fatto di essere un introverso emotivo, può aver favorito lo sviluppo della malattia».
Ma che ragione aveva Ferrini di preoccuparsi? Pianelli gli aveva garantito che un posto per lui nel Torino ci sarebbe sempre stato. E gliel’aveva ripetuto anche dopo la miracolosa guarigione. Ma Ferrini era un combattente per natura, si è rifiutato di vivere da pensionato. Pochi giorni dopo era già allo stadio, a incitare i suoi amici contro il Malmö, l’abbiamo rivisto in occasione di Juventus-Genoa: era sicuro di vincere il tackle anche contro il destino.
È sempre stato un lottatore, ma non ha mai fatto il killer. La fama gliela fecero in Cile, quando l’arbitro Aston, un inglese che odiava gli italiani, lo cacciò dal campo facendolo trascinare via dai carabinieri, come se fosse un delinquente. Alla vigilia, il saggio Giglio Panza l’aveva ammonito che i cileni, aizzati da una campagna di stampa per un paio di articoli apparsi sui giornali italiani, l’avrebbero provocato in ogni modo. Ma quando Ferrini vide Leonel Sanchez colpire Maschio, non seppe più controllare i propri nervi. La sua generosità ebbe il sopravvento, fu l’inizio della battaglia. Quella partita e quella squadra sono rimaste nella storia del calcio italiano: 2 giugno 1962, Cile-Italia 2-0, gol di Ramirez e Toro, gli azzurri schierati così: Mattrel; David, Robotti; Tumburus, Janich, Salvadore; Mora, Maschio, Altafini, Ferrini, Menichelli.
Ferrini fu il capro espiatorio, come al solito pagò per tutti. Per cinque anni, non fu più convocato. L’ostracismo finì per merito di Valcareggi. E Ferrini, nel giugno del 1968, fu tra i protagonisti del campionato europeo, a Roma. Giocò contro la Russia e contro la Jugoslavia, nella prima partita (nello spareggio gli fu preferito l’ex compagno di squadra Rosato). L’Italia vinse il titolo europeo, Ferrini fu nominato Cavaliere della Repubblica. E quella croce lo ripagò di tante amarezze.
Ammetteva di essere stato un gladiatore, però spiegava: «Ho perso il conto delle espulsioni in Italia e all’estero. In certi periodi della mia carriera, in campo ero veramente terribile. Ma dovete ammettere che ne ho anche viste tante: dall’espulsione cilena dell’ineffabile Aston, al gol annullato ad Agroppi a Genova contro la Sampdoria, a quello non concesso un mese dopo a San Siro contro il Milan. Quell’anno arrivammo secondi a una sola lunghezza dalla Juventus campione...».
Ferrini ha chiuso la carriera a trentasei anni, con un carnet ricco di successi: sette presenze nella Nazionale A, cinque nella B, sette nella Giovanile, il titolo europeo nel 1968, il secondo posto in campionato con Giagnoni nel 1972, il terzo con Rocco nel 1965, le due Coppe Italia con Cadè e con Fabbri, che continuava a ripetere: «Nei confronti di Ferrini ho solo un rammarico: di non averlo conosciuto bene quando ero alla guida della Nazionale. Altrimenti l’avrei convocato anche in barella».
Gli mancava solo lo scudetto. E Radice gli aveva promesso di farlo tornare in campo per la partita dell’apoteosi. Ma improvvisamente la partita con il Cesena era diventata importante, perché la Juventus poteva vincere a Perugia, così Ferrini dovette limitarsi a fare da spettatore. L’anno prima, smettendo di giocare, aveva dichiarato ai cronisti: «Si vede che è destino. Quando ero forte io, nel pieno della carriera, non lo era altrettanto la squadra. Adesso che vado in pensione, siamo vicini allo squadrone...».
Ha fatto appena in tempo a festeggiare lo scudetto, poi se ne è andato pure lui. Ma i tifosi del Torino non lo dimenticheranno mai. Non è retorica, è sacrosanta verità.

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