domenica 15 gennaio 2023

Aldo DOLCETTI

 

Aldo Dolcetti tra poco compirà trentasei anni – scrive Nicola Calzaretta sul “Guerin Sportivo” del 17-23 settembre 2002 – è nato a Salò, zona lago di Garda, ma ben presto con la famiglia si è trasferito in Piemonte, per la precisione a Trino Vercellese in mezzo a risaie e zanzare. È una testa pensante, con le celluline grigie sempre in funzione, anche quando vestiva la divisa del Pisa in A e del Cesena in B. «Calcio e creatività: questi sono i miei mondi ed ho fatto di tutto perché nella mia vita avessero il giusto spazio e la giusta combinazione. In un ambiente piuttosto conservatore come quello calcistico, certe sensibilità non sono sempre viste di buon occhio».
Oltre a inventare a centrocampo grazie a un sinistro ben educato alle morbide geometrie, Dolcetti si è sempre dilettato attraverso le varie forme dell’arte. «Ho sperimentato me stesso in molti campi: scrittura, musica, informatica, pittura, oltre ovviamente al... campo sportivo».
Una ricerca continua e costante, intanto per dare una risposta alle esigenze dell’anima. E poi per soddisfare un antico desiderio, quello di provare a cambiare dall’interno il mondo del calcio: «Ho sempre mal sopportato le finzioni e l’ipocrisia. Vorrei una realtà diversa fatta di rapporti sinceri tra le persone, dove non ci si ferma all’apparenza, ma si cerca di scavare nel profondo per conoscere e conoscersi veramente».
Dolcetti ha chiuso con il calcio professionistico nell’estate del 2000 quando è entrato in pianta stabile nello staff della DSP. «Sta per Digital Soccer Project: osserviamo e analizziamo le partite di calcio e con le informazioni che ricaviamo, realizziamo servizi e prodotti per i tecnici e i media. Io partecipo alla ideazione sostanziale ed estetica di questi lavori che possono essere realizzati su carta e su video. Ho avuto il primo contatto con DSP, anche se a quell’epoca ancora non si chiamava così, alla fine degli anni ‘80 quando giocavo a Pisa. È successo che mister Lucescu ha incominciato a chiedere informazioni sempre più “scientifiche” al nostro preparatore atletico, Adriano Bacconi, che ben volentieri si è cimentato nella rielaborazione al computer dei dati raccolti sul campo. Spesso, però, lavorando anche di notte. Io osservavo tutto dall’esterno, fino a quando ho iniziato a collaborare con Adriano, se non altro per farlo dormire di più. Ho comprato un computer per la verità con intenzioni piuttosto “terrene”, diciamo ludico-artistiche, per fare bella figura. Anche Adriano si è dotato di cervellone e abbiamo iniziato a rileggere i dati delle partite, a rielaborarli. Poi Lucescu è passato al Brescia e si è portato dietro Bacconi. Ed è lì, nel Bresciano, che dopo qualche tempo è nata la DSP. Io continuavo a collaborare a distanza e in maniera saltuaria».
Finché Toldo e compagni non partono per i Campionati europei di Belgio e Olanda. Due anni fa. «Avevo appena terminato il campionato con il Cuneo (CND) e volevo riavvicinarmi a Brescia, dove nel frattempo era tornata la mia famiglia. Avevo frequentato con una certa assiduità lo studio grafico di un dirigente del Cuneo in modo da affinare le mie conoscenze, così quando Adriano mi ha chiamato per affidarmi le animazioni in tempo reale dei gol dell’Europeo ho accettato volentieri e mi sono messo al lavoro. Realizzavo delle piccole opere d’arte che il sito di Eurosport metteva in rete appena gliele inviavo. A quel punto ho deciso di restare in DSP».
Oggi Dolcetti in azienda è l’alter ego di Adriano Bacconi. «Ci conosciamo da tanti anni e ci incastriamo alla perfezione. Lui è più scientifico, ha un approccio verso la realtà decisamente professorale. Io, invece, metto dentro l’estro e la fantasia, e non potrebbe essere altrimenti, oltre alla conoscenza del pianeta calcio che ho frequentato per oltre quindici anni. Siamo cresciuti molto come azienda al punto che siamo entrati a far parte del gruppo Panini: il profumo della coccoina mischiato al puzzo dei chip caldi del computer».
L’estate 2000 è stata quella che a trentaquattro anni ha ribaltato i piani, con il pallone nel ruolo di accessorio. «Ho giocato ancora in Eccellenza per due stagioni, ma forse ho sbagliato, i rapporti di forza fra l’extra-calcio e il campo si erano già capovolti. Anche se l’ultima gara giocata è stata la finale di Super Coppa Lombarda tra il Dario Boario, la mia squadra, e il Suzzara, mi ritenevo già un ex calciatore».
Poi si corregge: «La verità è che la mia svolta è iniziata nello stesso momento in cui mi sono trovato nel vivaio della Juventus».
Flash back sul giovanissimo Dolcetti. Dopo il tradizionale oratorio di Trino Vercellese con i preziosi consigli di Cisiu Tavano, viene notato dagli osservatori bianconeri perché con la palla ci sa fare davvero. La Juve lo giudica abile e arruolato ma Aldo non si lascia incantare: «Intanto ho preso il diploma di geometra, anche se avrei fatto volentieri il liceo artistico. E poi ho impostato la mia vita di calciatore professionista in modo tale da non tener chiusa nessuna porta, dedicandomi a tutto quello che testa e cuore dettavano».
La pittura innanzitutto: «Fin da piccolo mi dicevano che ero dotato. Col piede mancino avevo gran tecnica e con la mano destra disegnavo molto bene. Sono un autodidatta. Ho iniziato a dipingere quando ero a Pisa, mentre durante le stagioni di Cesena sono riuscito anche a organizzare delle mostre, vendendo a malincuore qualche pezzo: in pratica giocavo a calcio e vivevo tra le tele, i colori e l’acquaragia».
È un espressionista della figura umana, Dolcetti. Grandi quadri con uomini o donne da soli, pochi colori, scavo interiore. «Ho sempre guardato con curiosità a tutto ciò che appartiene alla sfera mentale. In particolare mi sono sempre interessato all’aspetto psicologico del calciatore che diventa un ex ed ho percepito questo momento come un trauma, anche per il giocatore ricchissimo. Forse è per questo che ho ritardato il mio ritiro effettivo e, tutto sommato, ho scelto una strada morbida per abbandonare il campo. Ed è anche per questo che durante la carriera ho fatto tante altre cose parallele al calcio: volevo prepararmi a vivere un evento che, prima o poi, si sarebbe comunque verificato».
In certi casi è la vita stessa che ti spinge a svoltare ancora più decisamente. «Dopo l’ultimo anno di Cesena ho tentato la strada dell’estero. Senza fortuna, però. Allora ho giocato per un paio di stagioni in serie C, al Sud con Savoia e Avellino. Ero ormai sulla soglia dei trentatré anni: il sinistro e il senso della posizione c’erano, ma cominciava a mancare la tenuta atletica».
Arriva, improvvisa, una chiamata: «Nel ‘99 mi telefona un dirigente del Cuneo. L’allenatore è Salvatore Jacolino. Dico di sì. Mi piace questa nuova sfida, mi inorgoglisce che Jacolino, dopo gli anni delle giovanili bianconere, mi voglia ancora con sé».
Non c’è solo il sentimento. «Sono andato a Cuneo anche perché il presidente Franco Arese, un passato di atletica leggera da professionista, mi ha fatto firmare un contratto per la Asics come uomo immagine. La stagione sportiva non è andata bene, ho deciso di smettere e di buttarmi in nuove esperienze».
Ciao Cuneo e addio Asics. «Il rammarico più grande è che Arese non ha manifestato alcuna volontà di conoscermi. Tutto il contrario di Bruno Bolchi, lui mi ha veramente capito, è stato l’unico che si è sforzato di instaurare un rapporto vero. Mi ha allenato per due stagioni al Cesena e non è un caso se quegli anni per me sono stati i migliori, sotto tutti gli aspetti. Mi ha tolto quella sorta di timidezza che mi sono sempre portato dietro: sul campo, per dirtene una, ho sempre preferito far segnare i compagni piuttosto che concludere personalmente».
Dopo Pisa, dove ha conosciuto Cristiana che è poi diventata sua moglie e gli ha regalato Lorenzo e Adele, Dolcetti ha lasciato il cuore sulla riviera romagnola. «A Cesena oltre al calcio e alla pittura, ho curato due trasmissioni radiofoniche: Amanita Muscaria e Parastinchi Football Music. Con quest’ultima mi sono molto divertito. Eravamo in tre, si suonava e si cantava, i toni erano stemperati, ironici e spesso alle trasmissioni partecipavano anche i miei compagni di squadra. Poi la scrittura: per un certo periodo ho tenuto una rubrica su un quotidiano locale che si intitolava “Linea alla regia”. Erano mie considerazioni sul mondo del calcio e sui suoi stereotipi. Infine sono stato il direttore “irresponsabile” di una pubblicazione clandestina chiamata “Il Fungo”, un periodico alternativo dove venivano toccati diversi argomenti, con toni dal colto al demenziale».
Piedi e testa, fuori dai luoghi comuni. Il mondo di Dolcetti è proprio speciale.

RICCARDO COLETTO, WWW.PRIMAVERA.VERCELLI.IT DEL 17 APRILE 2020
Dopo cinque anni intensi alla Juventus, nello staff di Massimiliano Allegri, Aldo Dolcetti, si è concesso un anno sabbatico in attesa di rientrare in gioco con ancora più energia. Aldo, nato il 23 ottobre (giorno di Pelè) 1966, ha passato la sua gioventù a Trino, ove ha ancora molti amici.
Le prime esperienze calcistiche sono nell'Orsa e poi nell'AC Trino. A tredici anni, gli osservatori della Juventus si accorgono di lui e lo portano a Torino, dove rimane per sei anni. Impara molto dai suoi allenatori: Sentimenti IV, Viola, Grosso, Salvatore Jacolino e Giovanni Trapattoni. Nelle ultime due stagioni è in orbita prima squadra. Viene poi mandato a fare esperienza a Novara in Serie C2, con cui sfiora la promozione. L'anno successivo (1987) passa al Pisa in Serie A dove rimane per quattro stagioni. Gioca tra gli altri proprio con Allegri, Dunga, Simeone, Cuoghi, Sclosa, Faccenda, Piovanelli, Argentesi, Padovano, Incocciati, Neri, Chamot.
– Aldo, com’è stata la tua esperienza in questi cinque anni di Juventus? Per te è stato come un ritorno a casa?
«Sono stati cinque anni molto intensi e incredibili se pensiamo ai risultati. Quando Allegri mi ha cercato, io non ho accettato subito perché ero ancora legato al Milan con un progetto importante per il settore giovanile di cui sentivo la responsabilità, ma poi ho messo sul tavolo i pro e i contro delle due situazioni. Aver trascorso da ragazzo ben sei anni alla Juventus mi ha spinto a ritornarci per essere artefice di qualcosa di importante da allenatore. Anche se sono stato completamente dietro le quinte, la soddisfazione è stata ugualmente enorme perché credo che il mio contributo sia stato apprezzato da Allegri e dal Club. Con Allegri ho iniziato un percorso che all’inizio aveva un preciso obiettivo, ossia che lui diventasse un allenatore di livello mondiale. Qualcosa alla Juventus è stato fatto, di sicuro dal punto di vista dei risultati. Per me anche per come abbiamo utilizzato i giocatori, per come abbiamo variato modo di giocare e soprattutto per la bravura di trovare sempre strade diverse per ripetersi a vincere sempre in ogni stagione».
– Ti pesa la scelta di non stare sotto i riflettori, come quando hai allenato l'Honved di Budapest, la Spal o la Primavera del Milan?
«Ero un calciatore di un certo tipo e sono allo stesso modo un allenatore di un certo tipo. Mi piace creare ed essere più un rifinitore che un goleador. Le esperienze fatte da allenatore sono state entusiasmanti, ma devo dire che sono stato io a decidere e a pianificare quello che sto facendo oggi, ossia ufficialmente il Collaboratore tecnico di Allegri. Aver fatto anche l’allenatore in prima persona mi sta aiutando a capire meglio tutto e poco importa se non sono visibile. In un club di alto livello è obbligatorio che in prima pagina ci siano soltanto il presidente, il direttore, l’allenatore e i giocatori».
– Escludi la possibilità di riprendere una carriera “solista”?
«Mai dire mai. Nel caso mi dovessi trovare in futuro nella situazione giusta, sarei pronto anche a ritornare ad allenare in prima persona. E sarei molto in gamba! In pratica però oggi vorrei continuare quel percorso di crescita che Allegri e il suo staff vuole portare avanti nei prossimi anni».
– Qual è il migliore giocatore con cui hai giocato in squadra?
«Magari non vale perché ero solo un ragazzo con poche oggettive possibilità di trovare spazio, ma mi viene da dire Platini anche se appunto non era un compagno di squadra alla pari. Durante la mia vera carriera, dico invece Carlos Dunga perché un brasiliano atipico con tanto temperamento e mentalità vincente».
– Quale è il migliore giocatore che hai incontrato sui campi da gioco?
«Non c'è dubbio che sia stato Maradona perché era già uno spettacolo vederlo prima della partita nel corridoio o nella palestra dove allora si faceva spesso il riscaldamento. In campo poi era un fuoriclasse di tecnica e velocità che significavano creatività all'ennesima potenza».
– Come si fa ad allenare Cristiano Ronaldo?
«La scorsa stagione mi ha permesso di capire cosa significa essere sempre il numero uno. Cristiano è così soprattutto perché è competitivo ogni giorno. Vuole in ogni allenamento segnare gol, vincere ed essere il migliore. Con lui dal primo giorno ho instaurato un buon rapporto e credo che allenare un fuoriclasse come lui sia semplice. Basta sentirsi adeguati e avere una mente che viaggi almeno come la sua».
– Cosa hai fatto in questi mesi da disoccupato di lusso?
«Quando la scorsa estate Allegri ha subito pensato all'idea di stare fermo per l'intera stagione, io ho pensato di investire questo tempo in un preciso obiettivo: migliorare la lingua inglese e conoscere meglio il calcio inglese. Per questo motivo da settembre mi ero trasferito in Inghilterra, dove da oltre tre anni c'è mio figlio Lorenzo. Devo dire che è stata un'altra grande esperienza vedere un sacco di partite di Premier League e Championship, oppure incontrare manager e staff per un confronto a 360°. Tutto però è ovviamente terminato agli inizi di marzo a causa del coronavirus».
– Come stai invece vivendo questa situazione riguardante questo problema mondiale?
«Sono in ritiro a casa mia in provincia di Pisa con mia moglie Cristiana, mia figlia Adele e il nostro cane Mirò. Siamo in campagna con tanta terra, per cui siamo isolati bene, anche se la situazione è surreale e allarmante. Io voglio vedere il bicchiere mezzo pieno per cui dico che questa è anche l'occasione per comprendere l'importanza di alcune cose. Penso ai rapporti interpersonali, anche se oggi si possono avere a distanza grazie alla tecnologia. Penso sia giusto apprezzare cose un po' dimenticate come la lentezza, i lavori manuali, il gioco e la semplicità. Sono ottimista: questa esperienza darà slancio a tutti per ritornare alle normali attività lavorative con più motivazione».

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