Ha lasciato il calcio giocato nel 1987 – si legge sulla pagina Facebook de La Maglia della Juve l’8 febbraio 2020 – a nemmeno trentun anni compiuti. Terminata la carriera agonistica ha lavorato come procuratore ed ha anche scritto un libro sulla sua vita (“Luna Tonda”, realizzato in collaborazione con Argia Di Donato) ma pare aver trovato la sua dimensione professionale solo da quando si è trasferito a Ibiza, dove ha aperto un locale molto frequentato durante la stagione turistica.
Quando non è occupato al Soul Beach Café, Luciano Marangon si riposa e si diverte. A Luciano Marangon è sempre piaciuto divertirsi: quando giocava era uno che faceva parlare di se’ sia le riviste di cronaca rosa quanto quelle sportive. Di quei giorni, non rinnega nulla: più che comprensibile.
«Mi è sempre piaciuto divertirmi, vivere bene; del resto, non ho mai fatto nulla di male a nessuno, non si può incolpare qualcuno soltanto perché cerca di stare il meglio possibile. L’Italia non mi offriva più quello che cercavo: è un paese splendido, ma la classe dirigente, pian piano, lo sta portando alla rovina. Ho avuto un migliaio di donne, ma non ne ho amate che due: una di queste è la madre di mio figlio Diego. Andavo in vacanza in Costa Azzurra quando i miei colleghi non sapevano nemmeno dove fosse. Fuori dal campo non mi sono mai risparmiato, ma nemmeno in campo: da calciatore, ho sempre dato il massimo, ovunque ho militato. Nel cuore porto soprattutto il Napoli, il Vicenza, con il quale ho ottenuto un sorprendente secondo posto in Serie A e, ovviamente, il Verona; in gialloblu ho vinto da protagonista uno storico scudetto. Ma non posso dimenticare gli anni trascorsi nel settore giovanile della Juventus, nel 1972 ci aggiudicammo il Campionato Primavera. Conservo ricordi carichi d’affetto nei confronti di quei tempi, ma soprattutto devo ringraziare la Signora per avermi formato come uomo: a Torino ti insegnano a vivere, ti fanno crescere sotto tutti i profili. Con la prima squadra bianconera non son riuscito a giocare una sola partita ufficiale; al contrario di mio fratello Fabio, formatosi anch’egli nel vivaio zebrato. Il Trap lo mandò in campo l’11 maggio del 1980 in occasione dell’ultima di campionato contro la Fiorentina. In ogni caso, con la maglia della Juve non avrei mai potuto diventare titolare: ero chiuso da Cabrini. Anche in Nazionale, dove ho disputato unicamente un incontro, avevo la strada sbarrata da Antonio. Ma non ho alcun rimpianto: “Cabro”, nel nostro ruolo, era il migliore al mondo. Davanti a un giocatore simile, potevo solo togliermi il cappello».
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