«Omar Sivori è un vizio». Soleva ripetere l’avvocato Giovanni Agnelli con un accostamento tanto colorito quanto efficace. Omar arriva da Buenos Aires nell’estate del 1957, grazie al programma del dottor Umberto Agnelli, che esige il rilancio della Juventus dopo cinque stagioni di vacche magre. Omar è uno degli Angeli dalla Faccia Sporca del calcio argentino. Non è alto, ha un baricentro piuttosto basso, dettaglio importante per un calciatore, una zazzera corvina e lo sguardo pungente di chi ti vuole prenderti in giro. Il resto della storia non ha misteri. Su di lui sono stati versati torrenti di inchiostro.
Il suo è un calcio diabolico, cinico, quasi maligno, che nasce dal piede di un prestigiatore fatto per pungere i difensori e divertire il pubblico. La scuola argentina gli ha insegnato che innanzitutto conta il divertimento, lo spettacolo, il numero a effetto del giocoliere. Omar, però, è anche essenziale. È perfetto nel profilo, la posizione del corpo rispetto alla palla.
Quando corre in linea retta verticale, per superare meglio chi gli si affianca si esibisce in ripetuti tocchi prima di cambiare direzione in diagonale, d’improvviso, con carezza d’esterno, proprio in mezzo alle gambe dell’avversario che sta effettuando la normale falcata. È il momento del coup de théâtre, il famoso tunnel. Questione di tempo e di coordinazione. Il pubblico delira. Omar è imprevedibile e fantasioso quanto istintivo. La sua grandezza si definisce soprattutto nella capacità di mantenersi freddo in area di rigore, là dove i calciatori di solito perdono la testa con entrate tempestose.
Per lui tutto è un gioco per ragazzi. Gli avversari non fanno complimenti ma Omar è astuto come una volpe e difende la palla sollevando e inclinando il piede a protezione della stessa, in modo che l’avversario calci contro la pianta della sua scarpa. Quando supera il portiere, lo fa con irriverenza, mai di forza e piuttosto con perfida delicatezza. Sfrutta con estrema abilità gli assist di John Charles, un gallese stupendo per generosità e forza penetrativa: «C’era il desiderio di fare qualcosa di speciale, di giocare con gli avversari. Per cui, giocavo con i calzettoni abbassati per far vedere che non avevo paura; c’erano i tunnel, i dribbling, tutto quello che si poteva fare per innervosire i rivali. Io, poi, sentivo moltissimo il pubblico, non riuscivo a far finta di niente. E i miei compagni si divertivano tantissimo con queste mie esibizioni».
È un emotivo: quante volte lo si vede sbiancare prima di una gara importante. È terrorizzato dai viaggi in aereo. In campo non esibisce un bel carattere: è infatti squalificato per trentatré giornate complessive. È il suo tallone di Achille. Il tallone di un campione immenso: «Io e Boniperti avevamo una concezione totalmente diversa del calcio e non riuscivamo ad andare d’accordo. Tutto lì, avevamo dei caratteri forti e inconciliabili. In campo, però, questo dissidio non aveva alcuna conseguenza; si giocava senza pensare alle differenze o alle polemiche».
Tanti sono gli aneddoti da ricordare. In un Juventus-Sampdoria portò la sua irrisione verso gli avversari a un punto estremo: scartato anche il portiere, si fermò sulla linea con il pallone sotto la suola, aspettando il recupero del difensore avversario, e quando il poveretto (Vincenzi) si avventò a corpo morto, spostò il pallone indietro mandandolo a vuoto, per poi appoggiarlo in rete: «Stavamo vincendo 3-0 con il Padova e la partita stava già finendo, quando l’arbitro ci concesse un rigore che i padovani contestarono vivacemente, nonostante non avesse influenza sul risultato finale. Vedendo la disperazione di Pin, il portiere, mi avvicinai e gli dissi: “Non preoccuparti, tanto lo tiro sulla sinistra”. Andai sul dischetto e, ovviamente, tirai sulla destra, segnando. Pin si arrabbiò come un matto, inseguendomi e insultandomi. Non me la perdonò mai. Lo incontrai nuovamente, un paio di anni dopo su una spiaggia, e lui ancora si arrabbiò. Inutilmente tentai di spiegargli che io avevo inteso la mia sinistra e non la sua. Non ci cascò e continuò a odiarmi».
All’atto della presentazione, Sivori fece qualche palleggio davanti agli occhi dell’Avvocato, il quale, da grande intenditore, gli fece notare che era bravo, ma che non sapeva usare il piede destro. Omar prese il pallone e fece tre o quattro giri di campo palleggiando con il sinistro, senza mai far cadere il pallone. Poi si fermò davanti all’Avvocato e con la sua naturale sfrontatezza disse: «Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro?».
Una mattina Sivori si presentò all’allenamento con gli occhi gonfi di sonno; i compagni stavano già facendo i soliti giri di campo da una ventina di minuti. La giornata era bella e Omar si sdraiò sull’erba. Arrivò Gren, il Professore, che era allenatore della Juventus, affiancato da Carletto Parola. Gren si sdraiò di fianco a lui e gli passò il pallone sul piede; Omar, sentendo la palla, aprì gli occhi e si mise a palleggiare, passandosela dal destro al sinistro, dal sinistro al destro, sempre rimanendo coricato. Quindi passò il pallone al Professore, anche lui sdraiato sull’erba, e diedero vita a un numero da circo, da autentiche foche del calcio. A un tratto si alzò e piazzò la palla sulla lunetta dell’area di rigore; scommise con Gren e Parola, sulle traverse e sugli incroci che avrebbe colpito. Ne fallì uno su dieci. Ogni tiro era annunciato: incrocio dei pali sulla sinistra, palo interno sulla destra, traversa centrale. E così fece.
Erano anni molto difficili per gli attaccanti, soprattutto quelli dotati di grande talento, come il Cabezón. I difensori erano soliti tracciare, con i tacchetti, una riga fuori dall’area di rigore minacciando il malcapitato attaccante di entrare duramente se l’avesse superata. Sivori non solo la oltrepassava allegramente, ma aveva la fissazione di umiliare l’avversario facendogli tunnel e, magari, di ritornare a sfidarlo per farglielo una seconda volta. Così, un giorno a Torino, lo stopper del Catania, tale Grani, lo minacciò, dicendogli che, al ritorno, gli avrebbe spaccato una gamba. Omar, con molta calma, accettò la sfida, avvertendo il difensore di affrettarsi a farlo, altrimenti se ne sarebbe pentito. Detto e fatto; dopo pochi minuti del match del Cibali, del 26 febbraio 1961, il Cabezon entrò con il piede a martello del povero Grani, distruggendogli il ginocchio.
Sivori realizza 167 reti nelle 253 partite disputate in maglia bianconera. Vince tre scudetti e tre Coppe Italia e si aggiudica nel 1961 il Pallone d’Oro. Si trasferisce al Napoli nel 1965 per incompatibilità di carattere con Heriberto Herrera, il Sergente paraguagio. «Sivori come Coramini», aveva detto il Ginnasiarca. «Purtroppo, si arrivò al distacco definitivo. Non riuscivamo a intenderci e a concepire il calcio nella stessa maniera. Me ne andai io, nonostante la stima della società, perché non mi sembrava giusto porre il dilemma “o Sivori o Herrera”. L’allenatore doveva restare ed io andare, non potevamo restare insieme. Inizialmente, pensai di tornare in Argentina, ma alla fine mi convince Flavio Emoli, ex capitano juventino approdato al Napoli, a tentare un’altra avventura italiana». Per Omar, da quel giorno, cominciano a sognare i tifosi partenopei.
ANGELO CAROLI
Omar aveva il sorriso di un adolescente che sa tutto della vita. Era simpatico, di battuta pronta e salace. Prima di ambientarsi con il fuso orario del nostro meridiano passarono tre mesi. La notte non riusciva a prendere sonno. Durante la tournée in Svezia divise la camera con Garzena. Le assegnazioni venivano stabilite da una partita a scopone. Prima di spegnere la luce, Bruno si sentiva ripetere, come una litania insopportabile: «Parlami dell’Italia e della tua fidanzata ma non dormire, altrimenti impazzisco». Garzena era costretto a fare le ore piccole per impedire che quei giorni tanto lunghi portassero il genio argentino sull’orlo dell’esaurimento. Una volta preso sonno, Omar dormiva fino a mezzogiorno e non si contano le volte in cui si presentò tardi all’appuntamento con gli allenamenti.
Con Garzena aveva fatto una scommessa singolare: «Mi pagherai una cena ogni volta che farò passare il pallone fra le gambe del primo avversario che mi viene a tiro dopo il fischio d’inizio dell’arbitro». Il Falco di Venaria accettò. La sfida si riferiva alle amichevoli che la Juventus doveva disputare in Inghilterra e che rientravano nell’operazione dell’acquisto di Charles. Gli inglesi, si sa, sono impulsivi. E Omar sapeva che avrebbe avuto ottime possibilità di riuscita. Boniperti toccava il pallone piano, l’avversario si avventava contro Omar, il quale, con indifferenza e precisione, infilzava le gambe avversarie. Garzena pagò tre cene e rinuncio alla disputa.
VLADIMIRO CAMINITI
La storia del calcio mondiale si arricchisce anche di partecipazioni straordinarie, assi dall’incredibile talento e l’increscioso carattere, tipi umani da prendere con le molle. Ce ne sono stati, ce ne saranno sempre. La tempra del carattere è alla base della classe, e si può essere forti in molti modi; c’è la forza temperata dall’educazione, dal rispetto di sé da cui nasce il rispetto per gli altri; e c’è la forza selvaggia, istintiva ed emotiva. Sivori, un po’ come George Best appartiene a questa seconda categoria di fuoriclasse specialisti. Egli anticipò in tutto le stravaganze di Maradona, salvo domarle con un carattere durissimo e spietato, da capo indio, fin dalle guance butterate e i fondi occhi neri che sapevano bruciare di odio come accendersi d’amore.
Contrariamente a quanto si è letto, Sivori non fu subito accolto in Italia da consensi della critica. La sfortunaccia di un esordio agostano in notturna in amichevole a Bologna con sonora legnata che preoccupò il giovane saggio Umberto Agnelli, partecipò a suscitare qualche perplessità sul suo modo di interpretare il calcio e su come avrebbe potuto adattarsi a quello nostro. Carlin se ne fece interprete sulle colonne di “Tuttosport”, dove scriveva ogni mercoledì una seguitissima pagina di critica satirica: quell’argentino dall’arruffato testone e i calzettoni arrotolati alla cacaiola sulla caviglia, rallentava il gioco, considerava la squadra una proprietà personale. Carlin fu smentito nei fatti, fu saltato anche lui in tunnel dal diabolico Omar. E se era vero che aveva un’opinione del calcio tutta sua, più vero ancora era che, accoppiato a Charles, andava a costituire un tandem irresistibile, Omar in particolare col suo coraggio sprezzante, la sua sfida a stinchi nudi ai più smaniosi terzini, la sua classe a passettini incalzanti che lo portava a esprimere nel tunnel la “summa” della sua strategia individualistica.
Non amava allenarsi, anche se sopportò per il primo anno il serioso e bravo slavo Broćić, che Giordanetti aveva assunto per corrispondenza, ma in campo, in condizioni fisiche appena passabili, faceva la differenza; il suo goal era catturato nel vivo delle difese, irrideva alla forza con la tecnica più spericolata nel possesso e uso del pallone. Volle, al secondo anno, avere come allenatore il suo maestro e scopritore Cesarini, le sue bizze e la sua nevrosi della fama lo fecero squalificare a ripetizione (il più squalificato giocatore d’Italia, secondo solo ad Amarildo: ben trentatré giornate di squalifiche). A quali vette avrebbe potuto attingere se avesse anche saputo darsi un contegno atletico, se si fosse allenato seriamente, se avesse avuto più equilibrio in campo e fuori! In campo, spesso impazziva letteralmente, nonostante la saggezza materiata di disciplina che Boniperti infondeva alle truppe, lui se ne tirava fuori.
Agiva sempre di sua testa, non obbediva a nessuno. Viveva la partita in prima persona singolare indeclinabile, tenendo palla come e quanto volesse. Vero che i suoi fulgori tecnici furono titanici, e tante sue partite restano memorabili anche sotto l’aspetto strategico; ma qui siamo all’ultimo anno di Boniperti calciatore, il secondo e terzo scudetto di questo fenomeno maldicente linguacciuto rimangono pietre miliari nella storia del campionato.
Su “Tuttosport”, raccontava la Juventus di Sivori e dell’ultimo Boniperti, nonché il saggio Panza, anche il colorito e puntiglioso René Morino. Le cronache di calcio di Morino celebrarono le insuperabili prodezze di Omar per la fabbricazione di quei due scudetti artistici, dopo i quali l’asso di San Nicolas cominciò a rabbuiarsi. Eppure aveva accelerato i tempi del ritiro di Boniperti. Eppure era rimasto sulla tolda del comando. Ma bisogna che un fuoriclasse sappia innanzitutto comandare a se stesso.
Il declino atletico di Sivori cominciò presto. La Juventus, ingaggiata da Heriberto Herrera per ripristinare l’ordine professionale, lo mandò per disperazione al Napoli. Toccò a Piercesare Baretti raccontare su “Tuttosport” la malinconica guerra privata tra Heriberto e Omar. La vinse Heriberto, perché la Juventus non ha mai tollerato i ribelli.
ANGELO CAROLI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 2005
Non imitabile, perché rappresenta il sogno che si fa realtà e la fantasia che diventa calcio. Una pietra miliare perché trasforma un gioco in felicità senza tempo. Omar Sivori è tante cose messe insieme. Ora lo piange chi ama lo sport nell’accezione più favolistica. Omar fallisce solo l’ultimo exploit poiché non sa segnare un goal al destino. E gli spasmi del destino sono cinici e imbattibili, anche perché spesso allontanano in modo prematuro i ricordi più affascinanti e cari. Il destino chiude i battenti davanti ad uno dei discoli più irridenti del pallone. Adesso uno degli angeli dalla faccia sporca ritrova e riabbraccia, lassù fra le nuvole, un grande partner di stagioni irripetibili, John Charles. Il gigante mancato l’anno scorso all’affetto dei familiari e dei tifosi bianconeri disseminati in ogni angolo dei quattro continenti.
Omar è una stravaganza del destino; un vizio lo definisce un giorno l’avvocato Giovanni Agnelli; una piroetta tecnica figlia dell’invenzione; un tocco che ricorda il pungere dei serpenti a sonagli; un’occhiata demoniaca rivolta all’avversario; uno show arrogante; un impulso suggerito da un gene maligno e spettacolare; uno slancio viscerale e luciferino che gli lievita dentro e che intanto gli ispira gesti leggiadri; insomma Sivori è un prim’attore alquanto introverso nato per ammaliare le folle anche di colore avverso. Per chi vive al suo fianco è e resta lo showman universale senza limiti di tempo e spazio. Cerco nella memoria accostamenti.
Impossibile, lui non è imitabile, appunto. Resta nella mia memoria il Giamburrasca del pallone che prova e regale gioia ai compagni di squadra, ai dirigenti e ai tifosi. Una creatura diabolica a cui piace respirare i battiti della vita nel modo più scanzonato, irriverente, talvolta dissacrante. Uno zingaro, un picaro attaccato alla famiglia ma pure cittadino di ogni dove e capace di una sensibilità che non vuole comunicare. È facile pensare a Omar e al suo zazzerone corvino, gli occhi scuri come i capelli e indiscreti come sonde che ti penetrano in fondo all’anima. Quando posa per i fotografi è quasi frenato da un imbarazzo misterioso tanto che tiene le mani appoggiate ai fianchi, il testone (cabezón per gli argentini) appena inclinato in basso, lo sguardo sfuggente e fisso verso un punto imprecisato del prato, i calzettoni ravvoltolati alle caviglie, le tibie con il marchio di tacchetti nemici nuovi e antichi. Poi il sorriso, un sorriso dolce che riserva alla famiglia, sorriso indocile e talvolta perfido da mostrare sul campo. Una specie di etichetta satanica.
Che cosa si può raccontare di ciò che Omar offre sull’erba del Comunale, del Marchi, del Combi e di ogni stadio italiano? Innanzitutto il vorticoso frullio dei piedi. Toccano il pallone con la rapidità del baleno, la lievità delle carezze e il garbo di mani guantate. Se volete mettere le ali alla fantasia immaginate un bisturi che incide con l’asettica e pitagorica perizia di un chirurgo. Il calcio di Omar è prima di tutto illusionismo. Un illusionismo mai fine a se stesso, che provoca guasti e umiliazioni all’avversario. Quando si presenta per la prima volta al Comunale è un pomeriggio assolato dell’estate 1957. Compie un paio di giri di campo senza che il pallone tocchi terra. Il sinistro si muove in verticale, rapido e leggiadro, con la meticolosa bravura di un prestidigitatore. Un dirigente delle minori bianconere lo scruta insoddisfatto, inclina la testa da un lato e mette una mano sotto il mento quasi per sorreggerlo. È perplesso, molto perplesso, strizza le labbra tra i denti e azzarda una storica profezia: «Questo qui va bene in un circo equestre, da noi non sfonderà».
Tutto intorno volteggia un silenzio sospetto. E imbarazzante. Mai profezia fu più incauta e fallace. Qualche giorno dopo, ci alleniamo al Comunale non ricordo per quale ragione, il nuovo allenatore Broćić raduna la rosa a metà campo. Sussurra in un italiano stentato una frase che suona più o meno così: «Se Boniperti lancia il pallone a Stivanello e Stivanello crossa per Charles segneremo un sacco di goal. Perché John ha due strade, indirizzare la palla in porta o servire Omar. E lui farà la festa ai portieri». Detto e fatto. Gli score di quegli anni sono la testimonianza più obiettiva.
Omar debutta in campionato e da quel giorno tira fuori dal repertorio numeri di puro divertimento e praticità. Quando si gioca in casa prima del match entra in campo prima degli altri, si fa servire il pallone e si sposta sotto la curva Filadelfia per battere a rete con semplicità didascalica. Il gesto è scaramanzia che diventa tradizione. Il segnale di una sorte benefica che gli dà ulteriori stimoli. La folla saluta con ovazione prolungata. Lui sente gli eventi. Gli capita ogni tanto di vomitare prima di una gara importante. Dotato di una padronanza assoluta del pallone, accoppia il pragmatismo al senso più genuino dell’estetica. Il tunnel sta in cima ai suoi pensieri come un’impensabile follia. E sta allo Zenith della filosofia, sempre ai limiti dell’azzardo, degli incantatori di platee. Lo realizza in due modi: con l’avversario di fronte e con il guardiano che lo marca correndogli di fianco. È impossibile chiudere per tempo il compasso delle gambe, quando ti accorgi che sta per toccare il pallone questo è già schizzato dall’altra parte, sempre di sua proprietà.
Un altro fiore all’occhiello, che vent’anni dopo verrà riproposto da Diego Maradona, è il continuo tocco breve, ripetuto e verticale come per seguire una linea retta. Sono pizzicate di stradivari eseguite con alta frequenza. Incredibili le conclusioni in area di rigore, dove gli attaccanti sono per solito preda di ansie e frenesie. Lui esercita e arricchisce il carisma attraverso intuizioni tecniche programmate con cinismo e messe in atto con la lievità insostenibile delle farfalle. È immenso soprattutto nell’area di rigore, dove per ogni calciatore l’erba scotta come il sole in agosto e dove, perdonatemi se mi ripeto, lui diventa algido come un robot. Nonostante questo, Omar è emotivo, capace di reazioni spropositate. Sente le partite come un predicatore percepisce i suggerimenti del Vangelo. Talvolta va ben di là dalle indicazioni del Nuovo Testamento. Se provocato non mostra l’altra guancia ma replica ai colpi che gli segnano le tibie. Un giorno Charles lo schiaffeggia davanti all’arbitro per placare un’isteria improvvisa che sta offuscando il versante razionale di Omar.
Parla il necessario e quando parla incide. L’ironia è per lui pane quotidiano, forse figlia di un’autostima autorizzata dalla grandezza calcistica. Talvolta l’ironia si trasforma in satira che colpisce e incide. Sivori ama la vita ma questo non gli impedisce di adorare la famiglia, che successivamente si arricchisce della moglie Maria Elena, la quale gli dà tre figli, Umberto, Nestor e Myriam.
Il dottor Umberto Agnelli preleva Omar dal River Plate nell’estate del 1957 su segnalazione di Carletto Levi che avverte la società bianconera: «Il River è in crisi economica e Sivori non è incedibile, costa solo troppo». Il Dottore fiuta l’affare e lo acquista per poco meno di 180 milioni, questa è la cifra di cui si parla all’epoca. Umberto Agnelli accompagna l’assegno con una dichiarazione confessione: «Sivori ha ventidue anni, con lui creeremo una squadra che diverte e può vincere per cinque o sei anni. Potremo tenere alto il livello di incassi e garantire bilanci in ordine». Operazione felicemente conclusa, è l’inizio di una storia fantastica che all’apice offrirà pagine leggendarie di duelli con il Real Madrid targato Di Stéfano, amico di lunga data, e Pachín, badilante che lo marca con maniere selvagge.
È l’epoca della Torino soft, piena di garbo e discrezione. Della Torino di Buscaglione e di Van Wood, del salone dell’automobile e di via Roma che di notte appare come una scintillante propaggine di Parigi. D’inverno i calciatori indossano giacca, camicia e cravatta; d’estate polo Fred Perry e Lacoste. La moda è confezionata dalle grandi case e non dagli sponsor. O tempi o costumi!
Omar nasce a San Nicolas, Argentina, il 2 ottobre del 1935. San Nicolas è a circa 200 chilometri da Baires. Lui gioca nel River Plate che lo vende alla Juve. Dopo 253 partite ufficiali in bianconero con 167 reti all’attivo e dopo aver vinto tre scudetti, tre Coppe Italia e un Pallone d’Oro nel 1961 (è il primo bianconero a fregiarsi del prestigioso titolo) si trasferisce al Napoli dove milita fino al 1969. In serie A disputa complessivamente 278 partite e realizza 146 reti. Come oriundo in maglia azzurra vanta nove presenze e otto goal. Torna in patria e diventa commissario tecnico della Nazionale argentina raccogliendo l’eredità di Cap che nei Mondiali di Germania 1974 non fa molto, anche se elimina l’Italia con un pareggio. Come commissario tecnico fa il duro, manicheo irreprensibile e rigoroso. I ritiri da lui programmati sono lunghi e fustiganti. Ecco l’insospettabile sdoppiamento di personalità. Forse le imposizioni di Heriberto Herrera che lo obbligano a divorziare dalla Juve nel 1966 sono una specie di tardiva redenzione caratteriale.
Al ritorno in Argentina acquista due fattorie a cui dà il nome di Juventus e Napoli. Non smetterà di seguire le imprese dei bianconeri. Ottimi sono i rapporti con Bettega, Giraudo e Moggi ai quali non fa mancare indicazioni su prodotti raffinati nell’area argentina. Lo rivedo in un paio di circostanze, la prima all’inaugurazione di “Juvecentus” nel 1987. Sorridente e ironico come sempre e con lo sguardo velato dalla nostalgia per il passato e una tristezza derivatagli dalla morte del figlio Umberto, si allontana a testa bassa dai saloni dove tutto ha respiro bianco e nero. Quasi a voler fiutare gioie pregresse e nostalgie. Bruno Garzena ed io lo osserviamo mentre svanisce al di là dell’ingresso. All’unisono osserviamo: «È impossibile non amare il calcio quando gli attori sono fenomeni come lui».
È quasi un’impresa estrapolare dalla sua favola italiana una diapositiva speciale che lo riguardi. Omar, dicevo all’inizio, è una successione di miracoli messi insieme. Personalmente mi piace citare un 19 marzo del 1961, quando la Juve batte il Torino 1-0 nel derby di ritorno. Il Comunale è sferzato da un vento fastidioso ed è ovviamente stracolmo. Mi capita di crossare un pallone abbastanza teso da sinistra verso il centro area granata. Omar anticipa Bearzot e segna uno dei rari goal con la testa. Vado ad abbracciarlo. Andiamo ad abbracciarlo. Gli dico che con un cross del genere è un facile fare goal. Mi sbircia e risponde: «Hai avuto solo culo». Lo dice con un ghigno affettuoso, dopodiché abbassa di nuovo gli occhi pungenti come spilli e pieni di sarcasmo. Con il trotterellare di un personaggio da favola si risistema a centrocampo per la ripresa del gioco. «Il derby dobbiamo ancora vincerlo», incita. Lo vinciamo e lo scudetto verrà dopo.
La domenica successiva Omar compie l’ennesimo miracolo. Charles ed Emoli sono out. Il sottoscritto, umile gregario, ha la tonsillite. Il medico mi blocca e Parola (Gren vola in Svezia per i funerali del suocero) affida a Leoncini il compito di marcare Vinicio e utilizza Mazzia, il Professore, a centrocampo. Sono in tribuna, pieno di sciarpe e antibiotici. Più che a una partita assisto a un fuoco d’artificio: Omar segna tre goal, uno più spettacolare dell’altro, Nicolè arrotonda il punteggio mentre Vinicio appaga le aspettative bolognesi con una doppietta.
Ho usato il presente storico per raccontare Sivori, quasi per riascoltare una storia incredibile, l’illusione di rivivere nel presente, congelandoli per un po’, fotogrammi remoti. È la mia intenzione. Solo che adesso Omar appartiene davvero al passato. Immenso Cabezón con la sindrome del “ganar” (di vincere), chi ama il calcio ti saluta con nostalgia e tristezza nel cuore. E tanta affettuosa riconoscenza.
Omar è una stravaganza del destino; un vizio lo definisce un giorno l’avvocato Giovanni Agnelli; una piroetta tecnica figlia dell’invenzione; un tocco che ricorda il pungere dei serpenti a sonagli; un’occhiata demoniaca rivolta all’avversario; uno show arrogante; un impulso suggerito da un gene maligno e spettacolare; uno slancio viscerale e luciferino che gli lievita dentro e che intanto gli ispira gesti leggiadri; insomma Sivori è un prim’attore alquanto introverso nato per ammaliare le folle anche di colore avverso. Per chi vive al suo fianco è e resta lo showman universale senza limiti di tempo e spazio. Cerco nella memoria accostamenti.
Impossibile, lui non è imitabile, appunto. Resta nella mia memoria il Giamburrasca del pallone che prova e regale gioia ai compagni di squadra, ai dirigenti e ai tifosi. Una creatura diabolica a cui piace respirare i battiti della vita nel modo più scanzonato, irriverente, talvolta dissacrante. Uno zingaro, un picaro attaccato alla famiglia ma pure cittadino di ogni dove e capace di una sensibilità che non vuole comunicare. È facile pensare a Omar e al suo zazzerone corvino, gli occhi scuri come i capelli e indiscreti come sonde che ti penetrano in fondo all’anima. Quando posa per i fotografi è quasi frenato da un imbarazzo misterioso tanto che tiene le mani appoggiate ai fianchi, il testone (cabezón per gli argentini) appena inclinato in basso, lo sguardo sfuggente e fisso verso un punto imprecisato del prato, i calzettoni ravvoltolati alle caviglie, le tibie con il marchio di tacchetti nemici nuovi e antichi. Poi il sorriso, un sorriso dolce che riserva alla famiglia, sorriso indocile e talvolta perfido da mostrare sul campo. Una specie di etichetta satanica.
Che cosa si può raccontare di ciò che Omar offre sull’erba del Comunale, del Marchi, del Combi e di ogni stadio italiano? Innanzitutto il vorticoso frullio dei piedi. Toccano il pallone con la rapidità del baleno, la lievità delle carezze e il garbo di mani guantate. Se volete mettere le ali alla fantasia immaginate un bisturi che incide con l’asettica e pitagorica perizia di un chirurgo. Il calcio di Omar è prima di tutto illusionismo. Un illusionismo mai fine a se stesso, che provoca guasti e umiliazioni all’avversario. Quando si presenta per la prima volta al Comunale è un pomeriggio assolato dell’estate 1957. Compie un paio di giri di campo senza che il pallone tocchi terra. Il sinistro si muove in verticale, rapido e leggiadro, con la meticolosa bravura di un prestidigitatore. Un dirigente delle minori bianconere lo scruta insoddisfatto, inclina la testa da un lato e mette una mano sotto il mento quasi per sorreggerlo. È perplesso, molto perplesso, strizza le labbra tra i denti e azzarda una storica profezia: «Questo qui va bene in un circo equestre, da noi non sfonderà».
Tutto intorno volteggia un silenzio sospetto. E imbarazzante. Mai profezia fu più incauta e fallace. Qualche giorno dopo, ci alleniamo al Comunale non ricordo per quale ragione, il nuovo allenatore Broćić raduna la rosa a metà campo. Sussurra in un italiano stentato una frase che suona più o meno così: «Se Boniperti lancia il pallone a Stivanello e Stivanello crossa per Charles segneremo un sacco di goal. Perché John ha due strade, indirizzare la palla in porta o servire Omar. E lui farà la festa ai portieri». Detto e fatto. Gli score di quegli anni sono la testimonianza più obiettiva.
Omar debutta in campionato e da quel giorno tira fuori dal repertorio numeri di puro divertimento e praticità. Quando si gioca in casa prima del match entra in campo prima degli altri, si fa servire il pallone e si sposta sotto la curva Filadelfia per battere a rete con semplicità didascalica. Il gesto è scaramanzia che diventa tradizione. Il segnale di una sorte benefica che gli dà ulteriori stimoli. La folla saluta con ovazione prolungata. Lui sente gli eventi. Gli capita ogni tanto di vomitare prima di una gara importante. Dotato di una padronanza assoluta del pallone, accoppia il pragmatismo al senso più genuino dell’estetica. Il tunnel sta in cima ai suoi pensieri come un’impensabile follia. E sta allo Zenith della filosofia, sempre ai limiti dell’azzardo, degli incantatori di platee. Lo realizza in due modi: con l’avversario di fronte e con il guardiano che lo marca correndogli di fianco. È impossibile chiudere per tempo il compasso delle gambe, quando ti accorgi che sta per toccare il pallone questo è già schizzato dall’altra parte, sempre di sua proprietà.
Un altro fiore all’occhiello, che vent’anni dopo verrà riproposto da Diego Maradona, è il continuo tocco breve, ripetuto e verticale come per seguire una linea retta. Sono pizzicate di stradivari eseguite con alta frequenza. Incredibili le conclusioni in area di rigore, dove gli attaccanti sono per solito preda di ansie e frenesie. Lui esercita e arricchisce il carisma attraverso intuizioni tecniche programmate con cinismo e messe in atto con la lievità insostenibile delle farfalle. È immenso soprattutto nell’area di rigore, dove per ogni calciatore l’erba scotta come il sole in agosto e dove, perdonatemi se mi ripeto, lui diventa algido come un robot. Nonostante questo, Omar è emotivo, capace di reazioni spropositate. Sente le partite come un predicatore percepisce i suggerimenti del Vangelo. Talvolta va ben di là dalle indicazioni del Nuovo Testamento. Se provocato non mostra l’altra guancia ma replica ai colpi che gli segnano le tibie. Un giorno Charles lo schiaffeggia davanti all’arbitro per placare un’isteria improvvisa che sta offuscando il versante razionale di Omar.
Parla il necessario e quando parla incide. L’ironia è per lui pane quotidiano, forse figlia di un’autostima autorizzata dalla grandezza calcistica. Talvolta l’ironia si trasforma in satira che colpisce e incide. Sivori ama la vita ma questo non gli impedisce di adorare la famiglia, che successivamente si arricchisce della moglie Maria Elena, la quale gli dà tre figli, Umberto, Nestor e Myriam.
Il dottor Umberto Agnelli preleva Omar dal River Plate nell’estate del 1957 su segnalazione di Carletto Levi che avverte la società bianconera: «Il River è in crisi economica e Sivori non è incedibile, costa solo troppo». Il Dottore fiuta l’affare e lo acquista per poco meno di 180 milioni, questa è la cifra di cui si parla all’epoca. Umberto Agnelli accompagna l’assegno con una dichiarazione confessione: «Sivori ha ventidue anni, con lui creeremo una squadra che diverte e può vincere per cinque o sei anni. Potremo tenere alto il livello di incassi e garantire bilanci in ordine». Operazione felicemente conclusa, è l’inizio di una storia fantastica che all’apice offrirà pagine leggendarie di duelli con il Real Madrid targato Di Stéfano, amico di lunga data, e Pachín, badilante che lo marca con maniere selvagge.
È l’epoca della Torino soft, piena di garbo e discrezione. Della Torino di Buscaglione e di Van Wood, del salone dell’automobile e di via Roma che di notte appare come una scintillante propaggine di Parigi. D’inverno i calciatori indossano giacca, camicia e cravatta; d’estate polo Fred Perry e Lacoste. La moda è confezionata dalle grandi case e non dagli sponsor. O tempi o costumi!
Omar nasce a San Nicolas, Argentina, il 2 ottobre del 1935. San Nicolas è a circa 200 chilometri da Baires. Lui gioca nel River Plate che lo vende alla Juve. Dopo 253 partite ufficiali in bianconero con 167 reti all’attivo e dopo aver vinto tre scudetti, tre Coppe Italia e un Pallone d’Oro nel 1961 (è il primo bianconero a fregiarsi del prestigioso titolo) si trasferisce al Napoli dove milita fino al 1969. In serie A disputa complessivamente 278 partite e realizza 146 reti. Come oriundo in maglia azzurra vanta nove presenze e otto goal. Torna in patria e diventa commissario tecnico della Nazionale argentina raccogliendo l’eredità di Cap che nei Mondiali di Germania 1974 non fa molto, anche se elimina l’Italia con un pareggio. Come commissario tecnico fa il duro, manicheo irreprensibile e rigoroso. I ritiri da lui programmati sono lunghi e fustiganti. Ecco l’insospettabile sdoppiamento di personalità. Forse le imposizioni di Heriberto Herrera che lo obbligano a divorziare dalla Juve nel 1966 sono una specie di tardiva redenzione caratteriale.
Al ritorno in Argentina acquista due fattorie a cui dà il nome di Juventus e Napoli. Non smetterà di seguire le imprese dei bianconeri. Ottimi sono i rapporti con Bettega, Giraudo e Moggi ai quali non fa mancare indicazioni su prodotti raffinati nell’area argentina. Lo rivedo in un paio di circostanze, la prima all’inaugurazione di “Juvecentus” nel 1987. Sorridente e ironico come sempre e con lo sguardo velato dalla nostalgia per il passato e una tristezza derivatagli dalla morte del figlio Umberto, si allontana a testa bassa dai saloni dove tutto ha respiro bianco e nero. Quasi a voler fiutare gioie pregresse e nostalgie. Bruno Garzena ed io lo osserviamo mentre svanisce al di là dell’ingresso. All’unisono osserviamo: «È impossibile non amare il calcio quando gli attori sono fenomeni come lui».
È quasi un’impresa estrapolare dalla sua favola italiana una diapositiva speciale che lo riguardi. Omar, dicevo all’inizio, è una successione di miracoli messi insieme. Personalmente mi piace citare un 19 marzo del 1961, quando la Juve batte il Torino 1-0 nel derby di ritorno. Il Comunale è sferzato da un vento fastidioso ed è ovviamente stracolmo. Mi capita di crossare un pallone abbastanza teso da sinistra verso il centro area granata. Omar anticipa Bearzot e segna uno dei rari goal con la testa. Vado ad abbracciarlo. Andiamo ad abbracciarlo. Gli dico che con un cross del genere è un facile fare goal. Mi sbircia e risponde: «Hai avuto solo culo». Lo dice con un ghigno affettuoso, dopodiché abbassa di nuovo gli occhi pungenti come spilli e pieni di sarcasmo. Con il trotterellare di un personaggio da favola si risistema a centrocampo per la ripresa del gioco. «Il derby dobbiamo ancora vincerlo», incita. Lo vinciamo e lo scudetto verrà dopo.
La domenica successiva Omar compie l’ennesimo miracolo. Charles ed Emoli sono out. Il sottoscritto, umile gregario, ha la tonsillite. Il medico mi blocca e Parola (Gren vola in Svezia per i funerali del suocero) affida a Leoncini il compito di marcare Vinicio e utilizza Mazzia, il Professore, a centrocampo. Sono in tribuna, pieno di sciarpe e antibiotici. Più che a una partita assisto a un fuoco d’artificio: Omar segna tre goal, uno più spettacolare dell’altro, Nicolè arrotonda il punteggio mentre Vinicio appaga le aspettative bolognesi con una doppietta.
Ho usato il presente storico per raccontare Sivori, quasi per riascoltare una storia incredibile, l’illusione di rivivere nel presente, congelandoli per un po’, fotogrammi remoti. È la mia intenzione. Solo che adesso Omar appartiene davvero al passato. Immenso Cabezón con la sindrome del “ganar” (di vincere), chi ama il calcio ti saluta con nostalgia e tristezza nel cuore. E tanta affettuosa riconoscenza.
Quando alcune persone mature discutono di Sivori, del suo talento, dei suoi anni alla Juventus,degli scudetti vinti accanto a Charles, mi viene subito da pensare a Maradona.
RispondiEliminaEmerge in me,molto forte, il rammarico che la Juventus non lo abbia ingaggiato quando il medesimo era ancora giovane.
Cosa sarebbe stata la Juventus con lui !
Mi chiedo, molto stupito, come mai un grande, competente ed illuminato presidente come Boniperti non abbia saputo riconoscere per tempo un talento così eccezionale, inarrivabile, dotato geneticamente, innatamente di un controllo e padronanza di palla mai visti, capace di giocate geniali, impensabili, inarrivabili mai viste prima e che forse non si vedranno mai più.
Come non riconoscere il sole splendente, abbagliante a mezzogiorno di ferragosto quando si è al buio?
Se una grande squadra come la Juventus capace di prescindere anche dal più grande talento calcistico di sempre, lo avesse ingaggiato per tempo e,quindi,orientato e formato, penso che Maradona non solo non avrebbe mai avuto problemi di droga, ma che oggi la Juventus sarebbe una squadra titolata a livello internazionale quasi quanto il Real Madrid.
Ed oggi Maradona,forte della sua eccezionale padronanza della palla e del suo talento inarrivabile, ancora giocherebbe in serie A limitandosi a lanciare genialmente gli attaccanti corricchiando lungo il centrocampo ,emulo di Sir Stanley Matthews che giocò fino a cinquanta anni.
Angelo Balzano.
la verità è che la Juventus aveva già acquistato Maradona, puntualmente segnalato proprio da Omar ... ma si intromise l'allora presidente argentino (mi sembra il generale Varela) che, di fatto, ne impedì il trasferimento ... sai, erano tempi difficili per gli argentini, fra povertà e "desaparecidos" ...
RispondiElimina“Sivori è un vizio” soleva dire l’Avvocato quasi rievocando un perfido semidio che ti prende con il piacere del peccato.
RispondiEliminaE quanti fiumi d’inchiostro versati per l’indio dal mancino diabolico.
E quanto era bello poter leggere “finta alla Garrincha” e “tunnel alla Sivori”: nessuno come lui fu capace di questa divina prodezza tecnica.
Omar Sivori militò nel River Plate, nella Juve e nel Napoli, esordì nelle giovanili del River grazie all’intervento caparbio del famigerato juventino Renato Cesarini, quello che segnava all’ultimo secondo. Il volo aereo lo ossessionava, giunse nel 1957 e nella squadra torinese compone un trio
straripante con il centravanti gallese John Charles e il trequartista rifinitore Giampiero Boniperti.
Ritrovi il suo nome e quello di Pelè nella speciale classifica della Fifa che indica i maggiori fuoriclasse di sempre. Con la nazionale argentina vince il titolo continentale sudamericano e nel
1961 il pallone d’oro. Per la condizione di oriundo fu impiegato in nazionale italiana al Mundial
cileno del 1962. Con Angelillo e Maschio compone il trio degli “angeli dalla faccia sporca” per
l’impertinenza in campo e fuori. E mentre Sivori approdò alla corte bianconera gli altri due all’Internazionale di Milano. Poiché vederlo giocare fu una delizia i giornali eludevano il vero
nome: o dicevano “el cabezon” per la capigliatura folta ornante quella faccia da indio oppure
“el gan zurdo” cioè il gran mancino. Sivori nella Juve segnò 258 reti nelle maniere più geniali
Per chi non sa ricordiamo che fu l’autore della prima sconfitta al Bernabeu del mitico Real: gli annali riportano quel gol al pari di una maledizione. Per il grande Real fu evento imperdonabile.
La Juve portava una divisa totalmente nera come a dire un marchio del destino contro quella totalmente “blanca”. Un dribbling irrisorio, un palleggio superlativo, tramortiva i difensori,
giocava a calzettoni abbassati, non adoprava parastinchi come gesto provocatorio e beffava con tunnel a ripetizione. E perciò un’altra coniazione giornalistica: i “calzettoni alla cacaiola”. Si
aggiunga l’abitudine di accorciare i calzoncini rivoltando la molla di sostegno oppure la maglia
lasciata fuori. Giammai si vide l’impressionante facilità con cui inoltrava il pallone tra le gambe
del marcatore sbigottito, i movimenti zizzaganti, le finte repentine, la grazia del tocco.
La superbia carognesca dell’indio lo portava al ritorno per dribblare di nuovo terzino e portiere.
Sivori bramava lasciarli seduti aspettando che rinvenissero prima del cinico pallone in rete.
Maradona fu più veloce ma Sivori più artistico. Solo chi lo vide può dire. Noi non parliamo di
superiorità ma di certo l’uno era tozzo nel fisico l’altro aggraziato per via del corpo esile nella
postura con il pallone quando corre in linea retta verticale. Poi lo spettacolo dei ripetuti tocchi
prima di cambiare in diagonale con quella carezza di esterno che inoltra il pallone tra le gambe
eludendo la rude falcata del terzino per via di uno strano ripiego del corpo.
Ecco il tunnel: il colpo di teatro. Quello non era solo tunnel perché Sivori lo anticipava e lo
concludeva con orpelli funambolici. I marcatori perdono la testa perché il tunnel è vergogna
ma per Sivori il tunnel è Sivori come lo è inclinare e sollevare fulmineo il piede sul pallone
tanto che per il terzino solo una cosa rimane: il calcio violento contro la pianta della scarpa.
La straorinaria tecnica dell’indio lo portava a subire continui falli di gioco ma replicava con
reazioni spropositate e pesanti squalificche. Il suo rapporto con arbitri, allenatori e cronisti
non fu per nulla facile. Sivori non è bello ma piace terribilmente alle donne.
Era la notte di San Lorenzo e durante una gala in una stupenda villa di Cuneo si parla di
calcio. Omar non c’è più: è rapito da una mano femminile dietro una siepe di rose.
L’angelo dalla faccia sporca morì il 17 febbraio 2005 nel suo ranch di San Nicolas dalle
cui mura compare lo stemma della sempre amata Juventus.
Ciao a tutti,
RispondiEliminaper prima cosa complimenti per questo articolo, come sempre completo!
Aggiungo sul grande Sivori un qualcosa che non è prettamente calcistico, o che, almeno, riguarda il pallone visto però dal cinema:
Omar Sivori ha interpretato se'stesso in un film; ve lo ricordate? http://www.footballa45giri.it/cinema-calcio-alberto-sordi-presidente-borgorosso-football-club/
Fece anche il film idoli in controluce, la cosa che mi dispiace che quando parlano di fuoriclasse nessuno ricorda Sivori che per me non è secondo a nessuno anzi, io lo visto giocare e nessuno mi ha entusiasmato cone lui.
RispondiEliminaMah, leggo che la Juve con Maradona avrebbe avuto più o meno gli stessi titoli internazionali (che brutto termine) del Real...
RispondiEliminaContinuo a ritenere che un solo giocatore, si chiami pure Maradona o Pelé, possano vincere sicuramente dei mondiali da soli, ma la Champions non credo proprio. Il Real ne ha vinte 14 perché è il Real: un'entità che va oltre alla grandezza dei propri singoli giocatori. E, soprattutto, perché ha un potere assoluto, dove conta, in Europa. Noi, in quanto Juventus, purtroppo, non valiamo nulla.
Lo stiamo vedendo di questi tempi.
E, per chiarire meglio, Sivori fu il Maradona dei suoi tempi.
In Europa, non vinse nulla.
Mi spiego?