Racconta il giorno del raduno: «Essere alla Juventus è come arrivare al top, al gradino più alto. Quando ero a Bergamo, nell’Atalanta, sapevo che la Juventus mi stava facendo seguire e si interessava a me. Ora vivo questa esperienza con umiltà e con una gioia incredibile. Non sono storie; quando mi hanno fatto sapere che sarei stato bianconero, mi è sembrato di essere di colpo entrato a far parte del grande calcio. Poi, mi sono detto, quello era soltanto un passaggio e non il traguardo finale. Alla Juventus si deve far sempre bene, crescere con il tempo».
Trapattoni gli dà spesso fiducia, non sempre però ripagato dal ragazzo, che offre buone prestazioni ma che, dopo essersi procurato non poche occasioni da goal, manca sistematicamente di lucidità al momento di concludere, fallendole clamorosamente. La svolta negativa di una stagione già poco entusiasmante arriva una sera di gran gala, in primavera; c’è il Barcellona nei quarti di finale di Coppa dei Campioni, e Trapattoni schiera Pacione nell’undici di partenza, al posto dell’infortunato Serena. Nel primo tempo la Juventus, che deve recuperare lo 0-1 subito al Camp Nou, attacca e Platini offre al centravanti pescarese almeno tre ghiotte palle goal, tutte mancate di un soffio. Poi, una rete dello scozzese Archibald, in forza agli azulgrana, ammutolisce lo stadio e rende ancora più evidente le opportunità non sfruttate da Pacione.
A fine stagione, Marco da Pescara è ceduto al Verona, dove, ironia della sorte, non solo riprenderà a fare goal, ma ne rifilerà addirittura due, in un colpo solo, proprio ai bianconeri, in un Verona-Juventus che lo consegnerà direttamente alla leggenda dei tifosi veronesi. Tre stagioni in Veneto, poi il ritorno a Torino, sponda granata, per disputare il campionato di Serie B; altri quattro tornei con Genoa e Reggiana, per poi concludere la carriera a Mantova, in Serie C, nella stagione 1994-95.
Nell’anno della Juventus, concluso con la conquista del ventiduesimo scudetto, Pacione, mette comunque insieme ventitré partite, di cui quattro in Coppa dei Campioni, pur senza andare mai a segno. Strano destino per un giocatore che in carriera ha realizzato più di settanta reti, molte delle quali, decisive ai fini del risultato.
ANGELO CAROTENUTO, DA REPUBBLICA.IT DEL 5 GIUGNO 2015
Aveva gli anni di Morata e l’esperienza europea di Sturaro. Veniva dalla provincia come Scirea e sognava di diventare un altro Paolo Rossi. Un bravo ragazzo. Cognome e nome Pacione Marco, riserva della riserva del centravanti titolare della Juve, 1986, quarti di finale di Coppa dei Campioni. Se fosse un libro di Colin Shindler, la storia di quella sera avrebbe un titolo facile e diretto: “Il Barcellona mi ha rovinato la vita”. Insomma, all’età di anni ventidue, al povero Pacione tocca di giocare al centro dell’attacco della Juve nella sera in cui mancano contemporaneamente Serena e Briaschi. Non solo. Gli capita di avere tre volte l’occasione di mettere la palla in porta e di sbagliare sempre. La Juve va fuori dalla coppa e siccome Ennio Flaiano aveva capito come gira il mondo, succede che gli italiani corrano in soccorso dei vincitori. Pacione? Si può distruggere.
È il mese di marzo. L’era di Giovanni Trapattoni alla Juve sta finendo. Gianni Brera su Repubblica riferisce che «il proto fotografo Silver Maggi ha sentito bestemmiare adirato Michel Platini e chiedere a Pacione se per caso si considerasse in vacanza». Non è più elegante il portiere dei catalani, Urruticoechea, che a fine partita regala la sua sintesi: «Pacione è stato un amico». Per uno di quei casi clamorosi in cui la realtà si trasforma in tempesta mediatica, il nome di Pacione entra nella tipologia linguistica. Il “Guerin Sportivo” titola “Mi manda Pacione”, giocando con un film di gran successo dell’epoca (“Mi manca Picone”). Se c’è un disastro, si evoca Pacione. Il nuovo mangiatore di goal per antonomasia. Scalza finanche lo sciagurato Egidio, il celebre Calloni milanista.
Invano il ragazzo prova a spiegare che in realtà s’è mangiato soltanto un goal, che la seconda occasione non era così facile da trasformare e sulla terza Urruticoechea ha avuto fortuna. Dice: «Ho lottato, ho combattuto, credo di avere fatto il mio dovere. Quello che mi è toccato è insieme un onore e un onere». Non sa ancora che resterà soltanto l’onere. Alla Juve intuiscono tutto subito. A parte le bestemmie di Platini, la reazione ufficiale è di solidarietà. Briaschi: «Anche Pelé ha sbagliato molto». Sivori, grande ex e all’epoca opinionista TV: «Era emozionato». Boniperti, il presidente: «Non facciamo di Pacione la rovina della Juventus. Palle goal più facili delle sue ne ho sbagliate tante anch’io. È stato ingaggiato per formarsi gradualmente». La realtà è più complessa. Il ragazzo viene mandato a dormire in casa di un compagno di squadra (Bonetti), perché non rimanga solo. Dichiarazione di Bonetti: «Secondo me ha giocato bene, anche se adesso maledice la partita». Adesso. Bonetti è un ottimista. Il giorno dopo al campo Pacione non c’è. I giornali scrivono che s’è assentato per legittima difesa. Non ha il telefono in casa, deve concentrarsi sugli studi per prendere il diploma di geometra, pure il brasiliano Junior del Torino si mette nei suoi panni: «Metterlo in croce è assurdo, impietoso». Trapattoni allora accorre e rasserena: «Ho piena fiducia in lui per il futuro». La Juve lo venderà al Verona. Il sabato che precede la partita successiva, Pacione ha la voce bassa: «Ho già detto tante cose, è meglio che adesso stia zitto».
Non ha aggiunto molto altro da allora. Riprese a far goal a Verona, con il Torino e con la Reggiana (due promozioni dalla Serie B alla Serie A). Ma quella notte deve essere ancora un tarlo, se finanche oggi che è felicemente il team manager del Chievo, a distanza di trent’anni, preferisce sorvolare. «È passato molto tempo, ho fatto la mia carriera, non ho voglia di ricordare». Maledetto Barcellona, come diceva Colin Shindler dello United. Se non altro, a Pacione non hai rovinato la vita.
Lo ricordo ancora come un incubo.
RispondiEliminamannaggia a lui in quel Juve Barcellona l'avrei ammazzato.
RispondiElimina