Per i più giovani, il nome di Fausto Landini può significare poco o nulla. Al contrario, i tifosi juventini di qualche anno più vecchi, ricorderanno sicuramente quello spilungone dinoccolato, quasi sgraziato, che approdò alla maglia bianconera nell’estate del 1970, proveniente dalla Roma, in compagnia di Fabio Capello e Luciano Spinosi.
«Un infortunio alla caviglia capitato quasi all’inizio del campionato scorso mi ha costretto a un lungo riposo – racconta a Bruno Bernardi de “La Stampa” appena approdato in riva al Po – quando l’arto non era ancora perfettamente guarito sono tornato in campo. In queste condizioni non potevo rendere al massimo ed ho avuto una ricaduta. Ho ripreso a giocare ma non ero sicuro come prima. Anzi mi è capitato un fenomeno curioso che ha tratto molti in inganno. Mancandomi lo scatto ero costretto a iniziare lo spunto offensivo a una certa distanza dall’area di rigore, cosicché si è pensato che io fossi diventato la classica mezza punta che parte da lontano. Io sono una punta. A me piace giocare con l’avversario addosso, liberarmene e andare a rete. Centravanti o ala e indifferente; ma il più avanzato possibile. Mi sento attaccante vero, la mia metamorfosi è stata momentanea. Sia chiaro però che giocherò come vorrà l’allenatore, ho solo bisogno di ritrovare lo scatto, il morale e la fiducia in me stesso per tornare quello di due anni fa. La Juventus è l’ambiente adatto allo scopo. Sono molto giovane, non ho fretta. Arriverà la mia occasione, il tempo non mi manca».
ALDO BISCARDI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1971
Due macchie rosse sulle gote, che accentuavano la tonalità quando gli facevi un apprezzamento o l’invitavi ad aprirsi in un’intervista; due gambe interminabili, coperte da pantaloni a larghi risvolti, che ricordavano vagamente quelle di James Stewart; lo sguardo sfuggente, chiaramente timido; i capelli rigati a sinistra. Così ricordo Fausto Landini, ai suoi primi esaltanti tempi giallorossi. Una struttura organica sottoposta a sforzi prematuri e sicuramente compressa. Una vitalità naturale prorompente ma contingentemente annullata nello stampo del calciatore professionista, in cui frettolosamente l’aveva calato Helenio Herrera, dopo la tragica scomparsa di Luciano Taccola e il suo brillante esordio contro il Bologna: tutto questo mi dava l’immagine del Landini II, ragazzo imberbe, adolescente in via di sviluppo, uomo fatto ancora no, di certo. Un tocco di palla eccezionale, una visione chiara di gioco, uno scatto lungo, come le sue leve da fenicottero gli imponevano, ma indigeste a qualunque avversario, una ancora scarsa potenza nel tiro e nel gol, una mezza punta non da rifinire nel gioco ma da irrobustire nella corteccia: ecco il Landini II calciatore, sempre rivedendolo ai tempi giallorossi.
La mano esperta di Boniperti-Allodi, una volta passato il ragazzo in maglia juventina, l’ha progressivamente «rifatto», completando la sua maturazione fisica e atletica. I due dirigenti bianconeri hanno compreso subito – forse l’hanno acquistato proprio con questa finalità – di avere tra le mani un campione in bozza, che andava corretto e aiutato nella dimensione fisiologica, dopo gli sforzi tremendi e prematuri cui era stato sottoposto. Per questa ragione non gli hanno dato subito la maglia di titolare, per questa ragione lo hanno affidato ai medici, perché i suoi diciannove anni potessero esplodere compiutamente, ritrovando il ragazzo l’equilibrio dinamico e strutturale.
Landini II, come Rivera, non ha una cassa toracica fortissima. Il suo sviluppo si era meglio localizzato nelle leve, difettando nella zona polmonare, per ragioni naturali e per sollecitazione agonistica improvvisa. C’era soltanto da irrobustirlo per farne un vero campione e un vero atleta. E le cure amorose hanno dato i frutti sperati.
Ho rivisto Fausto Landini in Lazio-Juventus all’Olimpico, in quello stadio che l’aveva glorificato alle soglie della grande carriera. Mi è parso finalmente un giovane fisicamente a posto e psicologicamente più maturo. Niente più rossori da educanda, niente più sguardo evasivo, niente più stupore per essere stato illuminato improvvisamente dai riflettori della popolarità. Un ragazzo sicuro di sé, coltivato a giusta e graduale temperatura, un calciatore professionista, nell’aspetto fisico e temperamentale, al livello del suo vecchio e attuale compagno Spinosi.
«Er lungo», lo chiamavano e lo chiamano ancora a Roma.
Nato a San Giovanni Valdarno, il 29 luglio 1951, venti anni ancora incompiuti, fratello di Spartaco, ottimo difensore dell’Inter euro-mondiale, figlio di lavoratori toscani umili, un metro e ottantaquattro di altezza, deve ancora darci l’esatta misura dei suoi mezzi di giocatore di foot-ball.
Gianni Brera, che gli ha dedicato una minuziosa attenzione da quando è passato sotto le insegne juventine, concorda nella mia tesi, sostenuta fin dai tempi giallorossi. È Faustino una grande mezza punta, un rifinitore eccezionale, un attaccante che prepara il tema offensivo, capace con i suoi dribblings lunghi e continuati di sbilanciare i difensori più esperti e validi, un forward che a fianco di uno sfondatore autentico, è capace di fare impazzire gli avversari e dare alla propria squadra il timbro di una pericolosità veramente travolgente.
Ha un carattere veramente buono, nel fondo, ancorché ovviamente infantile. Non è portato all’invidia, alla gelosia, al rancore, come capita spesso nella viziata e rumorosa famiglia del calcio. Si allena, sente e assimila i consigli di chi comanda in società e guida la squadra. Ha le passioni della sua generazione: i vestiti moderni, le giacche di pelle alla Marlon Brando del «Selvaggio», i maxi cappotti e i maxi impermeabili, i revers larghi, i motori, il film western. Non ha completamente trascurato gli studi, non si è montata la testa, è convinto dentro di sé che deve ancora sudare e lottare per arrivare alla fase di completa maturazione e alla conquista della popolarità definitiva e stabile.
Esteriormente è un ragazzo moderno, con le inquietudini e le contraddizioni della gioventù e del mondo calcistico d’oggi. Interiormente è solido e inattaccabile, portando sulle spalle il senso del lavoro e della responsabilità, peculiari del suo gruppo familiare e della sua razza toscana.
È un calciatore, che per le sue virtù e il suo temperamento, tutti vorrebbero possedere. È, secondo me, già un sicuro pilastro della Juventus da scudetto ed europea che Boniperti e Allodi stanno costruendo, sgretolando poco a poco il mito della «vecchia signora» per farne una società e una squadra con le insegne nuove della giovinezza e della forza che occorrono nel calcio contemporaneo.
Nonostante le grandi speranze del non ancora “Aldo nazionale”, Lando fallirà completamente la prova: un solo campionato sotto la Mole, 13 misere presenze (con una rete ai lussemburghesi del Rumelange in Coppa delle Fiere) e l’impressione di un’enorme fragilità psicologica che mai lo abbandonerà.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 27 MAGGIO-2 GIUGNO 2003
Un caffe d’orzo in tazza grande per Fausto Landini, detto Cicino, 52 anni a luglio, dinoccolato attaccante di Roma, Bologna e Ascoli con una spruzzata di bianconero juventino agli albori degli anni Settanta. Sorsata e si parte con il rewind. «La mia camera di fatto si è conclusa il 27 aprile del ‘75, a neanche ventiquattro anni. Era la mia ultima stagione al Bologna e a tre giornate dalla fine ci aspettava la sfida con la Sampdoria, che doveva fare punti per salvarsi. Era fine stagione ma io ci misi l’impegno di sempre, la solita voglia di vincere. Purtroppo nel tentativo di recuperare un pallone impossibile, mi saltò un ginocchio».
Il danno apparve subito molto serio. «In quegli anni non c’erano gli strumenti diagnostici di adesso. Subito dopo l’incidente mi operarono al menisco, ma non guarivo. Solo nel novembre del ‘76 i medici riuscirono a capire cosa era successo e mi ricostruirono i legamenti. Nel frattempo il Bologna mi aveva ceduto all’Ascoli, ma in quattro stagioni, fino al ‘79, giocai soltanto sette partite».
Dopo un ultimo tentativo con il Benevento in C1 nell’80, si concretizza la svolta che significa ritorno alle origini. «Sono tomato a casa, a San Giovanni Valdarno. Durante le stagioni da professionista avevo sempre cullato due desideri: tornare al paese e rimanere nell’ambiente del calcio. Invece ho dovuto patire, specie i primi tempi da ex sono stati molto duri».
Un attimo di sospensione. Serve a Fausto per scegliere le parole giuste, per spiegare qualcosa che sta dentro. «A poco più di trent’anni ho vissuto una vera crisi di identità. Intanto perché non mi riconoscevo più nel calcio, proprio io che ci avevo trascorso una vita. Pensa che nell’83 mi arrivò una buonissima offerta per allenare in C1. Feci la Coppa Italia, ma poi decisi di risolvere il contratto. Non faceva per me».
Ma non basta: «Negli stessi anni ci fu la dolorosa scoperta che le amicizie di un tempo erano cambiate e ho reagito alla delusione chiudendomi in me stesso».
Fino alla molla che finalmente scatta. «Era l’85, con mia moglie Maria si decise di aprire un negozio in paese, anche pensando alle figlie. In ballottaggio gli articoli sportivi e la cartoleria. Vinse la cartoleria».
Per la famiglia Landini inizia una nuova esperienza tra quaderni, penne e righelli. «Il gioco di squadra funzionava bene. Io mi sono subito occupato degli acquisti, mentre il contatto con il pubblico lo curava Maria. Le aperture e le chiusure toccavano a me. Non che avessi abbandonato del tutto il pallone, ho sempre fatto qualcosa, ma solo a livello di dilettanti e settore giovanile alternati a incarichi come osservatore. Il tutto, comunque, senza dimenticare il lavoro vero».
Fino a che non matura una seconda svolta. «Dopo quattordici anni di attività abbiamo preferito dare in gestione la cartoleria. Le figlie sono cresciute e hanno intrapreso altre strade. Il negozio non aveva grossi margini di crescita ed io cominciavo a battere i piedi. Il calcio mi aveva ripreso».
Stavolta senza crisi di rigetto, «anche perché avevo fatto chiarezza con me stesso. Ciò che volevo era lavorare con i ragazzi. Niente di più».
Da due anni Landini, dopo una bella esperienza alla guida della Rappresentativa Giovanissimi della Toscana nel ‘99, lavora per il Poggibonsi. «Oltre ad essere il vice di Tazzioli, che allena la prima squadra, guido la Berretti».
Passione e sentimento, le sue parole d’ordine. Quelle che lo hanno accompagnato in tutti i passi della sua carriera. Iniziata prestissimo. «Sono stato molto precoce. A sedici anni ci fu il passaggio alla Roma, il tutto dopo una partita tra rappresentative di Toscana e Lazio. Fu Crociani della Tevere Roma che compro il mio cartellino e mi girò ai giallorossi insieme a Luciano Spinosi che in quella stessa gara fu il mio marcatore. A Roma sono stato due anni, dal ‘68 al ‘70. Ero giovanissimo e sono passato da 30.000 lire al mese a 1.200.000, dal pensionato all’appartamento tutto per me, dall’attesa di mangiare la bistecca portata da mia cugina a offrire io la cena».
Più di una favola. «Due campionati stupendi, l’esordio con la Nazionale Giovanile, la Coppa Italia e la finale di Coppa delle Coppe sfuggita solo per la monetina che premio il Gornik».
Sul campo neutro di Strasburgo il 22 aprile 1970 si consumò la beffa. Con aneddoto gustoso: «Succede che quella volpe di Peirò, un attimo prima che l’arbitro tiri la monetina, ci chiama a raccolta e ci dice: “Non appena la moneta tocca terra, noi esultiamo!”. Eseguiamo l’ordine alla perfezione, ma invano perché l’arbitro, un francese (Machin, ndr) non abbocca. Peirò lo guarda male e, rivolto a noi fa: “Se eravamo all’Inter, si passava”».
Quella Roma, comunque, non era niente male, tanto che dalla Juventus arriva la chiamata per Capello, Spinosi e Landini. «Sinceramente non ero contento di andare. A Roma stavo benissimo e poi ero troppo giovane, non ancora ben formato fisicamente. Difatti per più di un mese mi mandarono in piscina. Per irrobustire le spalle, mi facevano nuotare con i piedi legati. Il fatto e che continuavo a non giocare e allora dissi basta alle fatiche in vasca. Fui subito convocato in sede da Boniperti per una multa».
Abbonata grazie ad Armando Picchi «Mi voleva bene: mi chiamava Cicino perché Cice era mio fratello Spartaco che aveva giocato con lui nell’Inter».
La fiammata juventina dura giusto un anno. «Avevo ottenuto la riconferma, ma io e Novellini dovevamo prestare servizio militare. Uno dei due doveva partire. Io ebbi richieste dal Bologna e ci andai».
La città del tortellino, l’ideale per la risaputa voracità di Landini. «Avevo sempre fame e raccattavo un po’ da tutti. Una volta eravamo in ballottaggio per la maglia numero 11 io e Bruno Pace che a tavola era seduto davanti a me. Nel mio piatto, nascosti sotto gli spinaci c’erano due filetti. Guardai prima l’allenatore Pugliese che mi strizzo l’occhio, facendomi cenno di stare zitto e poi Pace che bofonchiò: “Quest’anno mi sa che gioco poco”».
Con la maglia rossoblù Landini ha lasciato buoni ricordi, come la doppietta che rifilò al Torino in dieci minuti. «Il merito fu di... Radice che in vantaggio per 3-1 sostituì il mio marcatore con l’esordiente Pallavicini al quale disse di lasciarmi pure stare. Ma non aveva fatto i conti con il mio orgoglio».
Torino-Bologna 3-3. Era il 16 marzo 1975.
Bell'articolo; l'unica inesattezza, se vogliamo non colpa dell'autore ma della memoria di Landini stesso è nel finale, quando parla dei suoi 2 goals al Toro nel 3-3 della primavera 1975; l'allenatore dei granata non era Radice ma Fabbri !
RispondiEliminaGrazie Guido della precisazione.
RispondiEliminaBuone Feste.
Quando lo incontravo a Bologna al bar pizzeria Filippi era sempre disponibile a parlare e non è mai stato sgarbato, bella persona e buon calciatore che avrebbe meritato una carriera migliore...
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