Un’idea dell’ex juventino Cesare Prandelli – scrive Salvatore Lo Presti, su “Hurrà Juventus” del settembre 1994 – lo trasformò pochi anni addietro da anonimo cursore di fascia in promettentissimo play-maker (un ruolo in via di estinzione malgrado ce ne sia un’impellente richiesta). Un litigio fra gli attuali dirigenti dell’Atalanta e il nuovo corso juventino (erano già d’accordo per lasciarlo un’altra stagione a Bergamo a maturare con Mondonico, quando le richieste esorbitanti per definire le posizioni di Morfeo e Locatelli interruppero bruscamente il dialogo e incrinarono i rapporti fra i due club, tradizionalmente amici) dirottò Alessio Tacchinardi a Torino con un anno di anticipo rispetto ai tempi previsti.
Per una curiosa coincidenza, a Torino Tacchinardi ritrova Marcello Lippi, l’uomo che per primo, dopo Prandelli, ne aveva intravisto le grandi possibilità e che lo aveva fatto esordire in Serie A, poco più che diciassettenne, contro il Cesena. Nel cuore, però, Alessio ha sempre avuto la Juve e i suoi idoli. Nato a Crema il 23 luglio 1975, ha fatto rapidamente le sue scelte: la Juve e Platini. D’altra parte in quei tempi (fine anni Settanta, primi Ottanta) la scelta era obbligata: c’era una squadra che vinceva e dettava legge e c’era un campione che parlava con la «r» moscia, dava spettacolo e incantava, oltre a risultare spietatamente decisivo.
«Quando avevo dodici o tredici anni» ricorda Alessio, «mio padre mi portò a Torino per vedere per la prima volta dal vivo la mia squadra preferita. Era una Juve-Samp, ricordo ancora l’emozione per la cornice di folla del "Comunale” e per il fatto di poter vedere giocare dal vivo i miei idoli. Fu una bellissima partita, decisa da uno straordinario gol di Platini. Cosa potevo pretendere di più?».
La carriera di Alessio Tacchinardi prese la via di Bergamo, dopo che suo fratello Massimiliano, difensore di ruolo di qualche anno più grande di lui, aveva trovato fiducia nelle giovanili dell’Inter. Impostato fin da giovanissimo come centrocampista, Alessio Tacchinardi negli Allievi dell’Atalanta era stato utilizzato stabilmente come tornante. Vista la sua personalità, il senso della posizione, l’autorità e la perentorietà del lancio, Prandelli decise di proporlo come regista. L’esperimento riuscì perfettamente e il giovanissimo Alessio fu protagonista assoluto dell’irripetibile stagione che portò la squadra nerazzurra a dominare la scena giovanile vincendo il Torneo di Viareggio e il campionato nazionale «Primavera». Un’esplosione talmente prepotente, quella di Tacchinardi (insieme con l’altro promettentissimo gioiello Morfeo), da meritare le attenzioni di Marcello Lippi, allenatore della prima squadra, e quelle della Juventus. Lippi ne fu talmente convinto da farlo esordire in prima squadra, contro il Cesena. La Juve anticipò tutti e se lo assicuro definitivamente pur lasciandolo maturare a Bergamo.
«Non sono certo io che devo scoprire Tacchinardi» ha detto ripetutamente Lippi in questo scorcio di stagione, «visto che due anni addietro l’ho lanciato in Serie A. Qui a Torino, quest’anno l’ho trovato maturato, fisicamente e psicologicamente. Certo, deve ancora crescere. Ma il senso della posizione e la capacità di orchestrare il gioco e orientare la manovra le possiede già».
Alla Juve, Tacchinardi ha trovato davanti a sé due centrocampisti di consolidata fama internazionale come Paulo Sousa e Deschamps. Ma è il portoghese, indubbiamente, l’uomo cui somiglia di più.
«Avere davanti a me Paulo Sousa è molto importante» ci diceva Tacchinardi durante il ritiro di Buochs, «perché gioca come piace a me. Da lui potrò imparare molto e crescere ulteriormente».
Il portoghese, che non è certo un vecchio, è stato anch’egli molto accattivante nei suoi giudizi. «Tacchinardi» ha detto Paulo Sousa «ha già grandi qualità: il suo senso della posizione e la rapidità nell’impostare sono già buone. A mio avviso dovrebbe rischiare un tantino di più il lancio lungo: piedi e intelligenza non gli fanno certo difetto».
«Ha già una notevole maturità» ha fatto eco Didier Deschamps dopo le prime partitelle, «deve solo migliorare nel recupero della palla: una qualità che cresce insieme con la maturazione fisica».
Oggi Alessio Tacchinardi, che ha già alle spalle una consistente esperienza come «vice-Sauzée» nella sfortunata stagione scorsa dell’Atalanta, si propone già come una valida alternativa a Paulo Sousa, anche se Lippi qualche volta lo ha provato pure al fianco del portoghese. Lui si dice pronto a qualsiasi esperienza e si gode questa sua prima stagione di grande calcio: «La mia più grande emozione è stata quando ho festeggiato il diciannovesimo compleanno a Buochs, da giocatore della Juventus. Il fatto di essere insieme con tutti quei grandi campioni, mi ha fatto accapponare la pelle».
Tacchinardi ha un sogno. Abbastanza ambizioso ma suffragato da circostanze accattivanti, per gli amanti della cabala. «Tre anni fa ho vinto lo scudetto Allievi e ho giocato col triangolino sulla maglia nella stagione successiva. Due anni fa ho vinto quello Primavera, e nella scorsa stagione con l’Atalanta baby ce l’avevo ancora sulla maglia. Nella scorsa stagione l’hanno vinto Del Piero e compagni e quest’anno, quando giocherò in "Primavera", lo avrò ancora addosso, lo scudetto. Ecco, vorrei che l’anno prossimo la tradizione non si interrompesse. E siccome non dovrei più giocare con la Primavera, fra un anno...».
La Juventus gioca a zona e Lippi decide di schierarlo nel ruolo di difensore centrale: una soluzione azzeccata, poiché gli permette di compiere grandi passi. La convocazione nell’Under 18 gli spalanca cieli azzurri. Sergio Vatta, il tecnico che lo ha lanciato in Nazionale, dice: «Alessio è fra i migliori giocatori che ho avuto. Possiede una straordinaria visione di gioco e sa intuire con molto anticipo come si muoveranno i compagni».
Poi lo scudetto, la Coppa Italia e la Nazionale. Gioca la prima gara in azzurro come difensore, accanto a Ferrara e Costacurta, il 6 settembre ‘95 a Udine contro la Slovenia. «Ricordo fortemente l’esordio con la maglia azzurra a 21 anni e la settimana in cui mi sono preparato a vestirla, per un calciatore la nazionale è probabilmente il traguardo più emozionante. Quando però sei nel vortice non riesci a fermarti e a gustare queste emozioni, adesso quando ci ripenso è straordinario rivivere quei momenti».
CAMILLO FORTE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 1995
«E chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei indossato la maglia juventina? Una sensazione strana che ancora oggi mi porto dietro. Al mattino mi sveglio e dico: ma è proprio tutto vero?».
– Giochi nel ruolo che fu di Scirea, mica uno scherzo…
«State a sentire. Per strada i tifosi mi fermano e dopo avermi fatto i complimenti mi dicono: “Alessio, continua così. Diventerai come Gaetano”. Miglior augurio non mi potevano fare. Li ringrazio e spero di non deluderli perché Scirea è stato uno dei difensori più forti del mondo. Io, invece, ho vent’anni e mille cose da imparare».
– Rapida, bruciante, inarrestabile la tua scalata.
«Ti riferisce alla convocazione azzurra? La dedico alla soprattutto a mio padre che stato vicino nei momenti difficili. Quali? L’anno scorso, per esempio, quando mi sono infortunato al ginocchio».
– Come hai fatto a diventare libero... di sognare?
«Pensare che all’inizio ero un po’ scettico. Lippi decise di provarmi nel ruolo per una situazione d’emergenza, alla fine della scorsa stagione; quest’anno siamo partiti dall’inizio con questa strategia e adesso eccomi qui».
– Non ci sono alterazioni emotive nello sguardo e nella tua voce.
«Perché sono un entusiasta: l’entusiasmo è la migliore delle medicine, produce effetti eccezionali sul tessuto muscolare e sulla psiche».
– Tu e Del Piero, il futuro della Juventus.
«Speriamo, per ora spero di essere il presente assieme a tutti gli altri miei compagni. La stagione è lunga, gli obiettivi tanti».
– Iniziamo dallo scudetto che avete vinto da poco.
«Una sensazione che non dimenticherò mai. Ricordo tutto di quei momenti. L’inizio, lo scetticismo dell’opinione pubblica. Poi, strada facendo, ci siamo accorti che non eravamo tanto male, anzi. Milan, Parma e via di seguito: le abbiamo battute tutte».
– Quando hai capito che potevate conquistare il tricolore?
«L’otto gennaio dello scorso anno. AI Tardini, 3-1 per noi».
– Spendi due parole per Marcello Lippi.
«Sarebbe troppo facile parlare di lui, ma se siamo cresciuti così tanto il merito è soprattutto suo. Poi, naturalmente, lo staff tecnico che ha portato ii nostro allenatore. Gente preparata che non lascia niente di intentato e studia tutto anche nei più piccoli particolari».
– I tuoi compagni, racconta. Vialli è il leader. E perché?
«State a sentire. Ero da poco alla Juve e, in una partita, ho visto Luca inseguire un avversario qualsiasi per più di trenta metri. Al termine dell’azione mi sono detto: Vialli è proprio un grande. Da quel giorno ho capito che per diventare bravi non bisogna avere paura della fatica».
– Non solo Vialli, però.
«Sì, perché per vincere bisogna avere i campioni come lui e Ravanelli ma anche un gruppo di cui, con orgoglio, faccio parte».
– Quest’anno, alla luce dei primi risultati, sembra di nuovo una lotta tra voi e il Milan.
«Non dimentichiamo le altre, il Parma e le due romane. C’è ancora tempo per recuperare. La stagione è lunga».
– A 19 anni conquisti la Juve, a 20 la Nazionale. Nel frattempo hai vinto scudetto, Coppa Italia e partecipato a una finale Uefa. Non solo: da riserva sei diventato titolare e da centrocampista ti sei trasformato in libero. Quante cose in soli dodici mesi, tutte belle e avvincenti!
«Proprio così. Ma il difficile arriva adesso, devo cercare di migliorarmi».
– La svolta: di chi il merito?
»Scusate l’insistenza, ma la domanda ha una risposta scontata: Marcello Lippi. Se non fosse stato lui a indicarmi la svolta, a quest’ora sarei ancora alla ricerca di un qualcosa di concreto. Lui, infatti, mi ha lanciato in serie A. Lui, prima di tutti, ha capito che potevo giocare da libero».
– Giusto, e poi?
«I miei compagni, soprattutto quelli che vanno in panchina o addirittura in tribuna. I loro consigli sono stati fondamentali quelli di Fusi e Carrera, quelli di tanti altri».
– Siamo pignoli e, soprattutto, convinti che ti manca una cosa. Con il tiro che ti ritrovi segni poco. Perché?
«Cercherò di rimediare. Quando mi trovo in zona gol, o meglio in zona tiro, proverò a tirare. In passato qualche rete sono riuscito a farla».
– La Champions League, adesso.
«Bella, avvincente, unica. Possiamo vincerla, ci proveremo. I nostri tifosi vogliono il trofeo più ambito da festeggiare e noi faremo il possibile per regalarglielo. Regalarcelo. Sino a oggi sono riuscito a trasformare in realtà tutti i sogni, la Coppa dei Campioni è uno di questi. Chissà».
– Per concludere?
«Non mi sembra vero, essere qui alla Juventus con lo scudetto cucito dalla parte del cuore. Ovviamente bianconero...».
Dopo l’exploit, soffre una crisi di identità di ruolo: libero o centrocampista? Il dubbio viene sciolto dal campo nel 1997: da quel momento in poi, in Italia e in Europa, applaudiranno un grande centrocampista dotato anche di una gran fucilata da fuori area.
Carletto Ancelotti ne fa uno dei protagonisti dei suoi quasi due scudetti. Quando Umberto Agnelli scarica il tecnico emiliano per restituire la panchina a Lippi, Tacchinardi regala a Carletto un gol di rara bellezza contro l’Atalanta, ultima gara di un campionato sfortunato, il 2000-01.
Con tecnico viareggino sono altri anni di grandi trionfi: due scudetti, due Supercoppe Italiane e una finale di Coppa Campioni persa contro il Milan. È il turno di Capello: con Don Fabio, Tacchinardi conosce più la panchina che il campo, ma riesce a conquistare un nuovo tricolore, il sesto della sua eccezionale carriera. Nell’estate del 2005, Alessio abbandona la Juventus e si accasa in Spagna, nel Villareal; nonostante non sia una squadra formata da grandi campioni, Tacchinardi riesce a trasferirne tutta la sua esperienza fino a portarla alla semifinale di Coppa dei Campioni, eliminati dall’Arsenal, con grande rimpianto per un calcio di rigore fallito, nel finale della partita di ritorno, dall’argentino Riquelme.
«Dopo l’arrivo di Capello mi sono sentito ai margini della squadra. Così, quando è arrivata la proposta del Villareal, l’ho accettata. In Spagna ci sono meno tensioni e pressioni. Lì se provi la giocata e non ti riesce, non ti fischiano. Diciamo che in Spagna, come in altri paesi, c’è più cultura sportiva. Quando abbiamo eliminato l’Inter dalla Champions, ho provato una grandissima gioia!».
MAURIZIO SARRICA, DA “CALCIO GP” DEL MARZO 2011
È sempre stato juventino dentro, Alessio Tacchinardi, fin dalla nascita. Colori che scorrono più forti che mai, continuamente, nelle sue vene perché: «Mi sono sentito sempre uno della curva, ho gioito, sofferto e lo faccio ancora con loro, i miei tifosi».
Giocava accanto a gente del calibro di Zidane, Davids, Deschamps, ma non si faceva mai intimorire dal blasone altrui anzi era il primo a lottare, la sua grinta non aveva eguali, rubava palloni e subito impostava, da vero e proprio leader. Ha passato lunga vita alla corte della sua dama, donandole tutti gli ornamenti più belli, tutto quello che c’era da conquistare. L’unico suo rimpianto è stato quello: «Di non aver chiuso la carriera nella mia squadra del cuore, ci tenevo tanto, ma se poi mi dicono che dovevo fare la riserva a Tiago e Almirón...».
Parole di amore, di rabbia, tristezza. Frasi da juventino vero. Concetti e pensieri che emergono ancora oggi, tanto che Alessio parla di disastro, confusione ed errori imperdonabili per spiegare quello che sta succedendo alla Vecchia Signora e invita a trovare la possibile soluzione alla crisi coniando il seguente motto: «Dare la Juventus agli juventini, dal settore giovanile alla prima squadra».
– Non ti prendevi quasi mai le luci della ribalta, eppure sei sempre stato uno dei primi a essere acclamato dai tifosi. Perché?
«Avevo un grandissimo attaccamento alla maglia. Finita la partita, sia dopo una vittoria che una sconfitta, andavo sempre sotto la curva, a ringraziare la mia gente. Loro ti sostengono sempre se dai l’anima in campo, sanno che ci sta se qualche volta non vinci, ma devi sputare sangue per questi colori, la maglia bianconera pesa tantissimo, non tutti lo sanno».
– Ricordi una vittoria particolare, una di quelle capaci di lasciare il segno, fondamentali per dare il via al vostro ciclo vincente?
«Mi viene subito in mente la vittoria in rimonta, dallo 0-2 al 3-2, contro la Fiorentina. Quello è stato uno spartiacque importante per il nostro futuro vincente. Dieci giorni fa, poi, ho visto anche un’altra partita che ha fatto la storia, Milan-Juventus 1-6. Che nostalgia ragazzi, che squadra».
– Che nostalgia canaglia di Luciano Moggi si direbbe in questi casi.
«Beh, che dire. Stiamo parlando del migliore direttore sportivo di tutti i tempi. Normale che tutti lo rimpiangano. Ma non solo lui, anche uno come Giraudo manca a questa società. Il Direttore sapeva mantenere tutti sulla stessa lunghezza d’onda, andava d’accordo con tutti, Birindelli, Pessotto, Davids. Riusciva a comprendere e a capire i caratteri di tutti. Ricordo, ad esempio, che, quando all’età di 24-26 anni non trovavo molto spazio tra i titolari e manifestavo la voglia di andarmene, la sera mi portava a cena e riusciva sempre a calmarmi, da grande psicologo. Perché lui era anche quello, insomma un punto di riferimento. Non aveva soldi per fare il mercato, ma lo sapeva fare. Noi avevamo in panchina un certo Michele Padovano che quando entrava spaccava le partite, Birindelli, Pessotto, Zalayeta. Con questi giocatori abbiamo sbancato il Camp Nou».
– E poi dicono che ai tempi della Triade si vinceva perché si era aiutati dagli arbitri.
«Non scherziamo. Possono dire quello che vogliono, la Juve è sempre stata la più forte. Quando l’Inter veniva a Torino giocava da provinciale, pensava solo a difendersi. L’ho battuta anche quando ero al Villareal e da favorita si comportava sempre allo stesso modo. Voglio lanciare una provocazione. Se i dirigenti della Juve nel 2006 avessero detto che la squadra sarebbe ripartita dall’Interregionale, volevo vedere se poi non ci facevano rimanere in A con una penalizzazione ma con gli scudetti al suo posto. Lo sbaglio è stato fatto all’inizio, la rinuncia a ricorrere al TAR. È stato come ammettere le proprie colpe».
– Il tuo nome fa parte delle 50 stelle del firmamento, dei giocatori che hanno fatto la storia di questa gloriosa società, che dalla prossima stagione rimarranno scolpite per sempre nella nuova casa bianconera.
«Prima di tutto voglio ringraziare di cuore tutti i tifosi juventini per questo riconoscimento. Non vedo l’ora di riabbracciarli, sono unici. È il coronamento di tanti anni spesi dando tutto, anima e cuore per questa società. Il mio desiderio è quello di vedere ancora oggi tanti miei ex compagni al servizio della Juventus, a partire già dalle giovanili. Sarebbe il giusto riconoscimento per quello che abbiamo fatto».
ALESSANDRO BARETTI, DA TUTTOSPORT.COM DEL 12 APRILE 2014
Davanti ha solo Alessandro Del Piero. Alessio Tacchinardi è il secondo calciatore nella storia bianconera per presenza nelle competizioni internazionali (93 per il mediano, 130 per l’attaccante). Da sempre tifoso della squadra con cui ha giocato dal 1994 al 2005, il centrocampista con la Juve ha vinto anche la Champions League, nel 1995-96.
– Tacchinardi, definisca lo juventinismo?
«Una cosa che prende i tifosi, la squadra e la società e li rende un blocco unito contro tutto e tutti. E che si esprime nella voglia di vincere sempre, di essere i più forti sapendo di ricevere in cambio odio da ogni altro elemento esterno al mondo Juve. Un odio che nutre la fame di vittorie, e che rende i nostri successi ancora più belli. Conte ha perfettamente ragione: da una parte ci sono gli juventini, dall’altra tutto il resto. Prima di diventare un calciatore bianconero ero un semplice tifoso, all’interno dello spogliatoio ho capito meglio il senso della Juve. All’inizio non capivo le facce dei compagni quando si pareggiava, mi dicevo che in fondo avevamo fatto un punto. Poi ho capito che se giochi nella Juve, il pareggio equivale a una sconfitta. Conta unicamente il successo, esattamente come dice Boniperti».
– E l’anti-juventinismo cos’è?
«La critica costante. L’invidia verso il più forte. Quando le altre squadre cambieranno mentalità, potranno risolvere il senso di inferiorità rispetto alla Juventus. Smettendo di pensare che vinciamo grazie a presunti aiuti. Semmai i trionfi arrivano perché ogni componente è perfetta. Città compresa. A Torino, quando esci e vai al ristorante, la gente non viene a salutarti, ti lascia vivere. Questo, per un professionista, è molto importante. Decisivo, poi, è il fatto che la società sia tornata in mano a un Agnelli. Con la gestione Cobolli Gigli-Blanc l’identità bianconera si stava perdendo».
– Amato dal popolo bianconero, inviso agli altri: quale sentimento è prevalso?
«Il secondo. Anche perché giocavo in una Juve di calciatori che in campo non guardavano in faccia nessuno: Conte, il sottoscritto, Davids e Montero, per dirne alcuni. Tra gli avversari, ci facevamo pochi amici. Ma abbiamo vinto tanto».
– Un episodio di chiaro anti-juventinismo?
«L’anno scorso sono stato a un passo dall’allenare una squadra giovanile di una società importante. Sono stato bocciato perché bianconero. E ne vado fiero».
Un gran bel giocatore, però ricordandolo agli inizi di carriera pensavo che avrebbe fatto meglio. Comunque, mi è dispiaciuto molto quando è andato via.
RispondiEliminaPS: Mai capito quelli che contestavano Ancelotti. I suoi scudetti sono scudetti veri, quindi il totale vero è 31 scudetti (il 29 soliti più i due di Ancelotti, totale 31: si sa da sempre che se una squadra schiera un giocatore in posizione irregolare gli viene data partita persa)