Luis il galiziano nasce a La Coruña il 2 maggio del 1935 e la voglia di pallone gli esplode dentro molto presto: «Già a sette anni il calcio mi attirava più dello studio».
Luis è gracile, uno scricciolo e
papà Augustin, che di mestiere fa il macellaio e ne ha intuito le potenzialità
pedatorie, lo cresce ingozzandolo di bistecche al sangue. Il ragazzino ha già
addosso i cromosomi del campione di razza ed il primo ad accorgersene è
Alessandro Scopelli, vecchio idolo dei tifosi della Roma, che lo porta al
Deportivo La Coruña e gli insegna i fondamentali del calcio.
Il Deportivo lo parcheggia al
Fabril, praticamente una succursale del club, aspettando con ansia che il giovane
fenomeno compia i diciotto anni, condizione necessaria e sufficiente per
poterlo schierare in prima squadra. Attesa spasmodica quanto inutile.
Sulla stellina è già calata la
lunga mano del Barcellona, che di lì a pochi mesi lo strappa al Deportivo. Nel
Barça, il piccolo Luisito cresce nell’ombra del mitico Kubala. Poteva diventare
un grande solista, un virtuoso delle aree di rigore, un Paganini del pallone.
Incanta il mondo con la sua
classe purissima, i suoi meravigliosi lanci di quaranta metri, le sue aperture,
la sua visione. Ma i miti, si sa, sono presenze ingombranti. Soprattutto quando
c’è di mezzo uno scontro di personalità. Quella di Kubala sbatte di lì a poco
contro quella di Helenio Herrera, arrivato in Cataluña dopo i due scudetti vinti
con l’Atletico Madrid, la squalifica subita a Siviglia ed il “buen retiro”
portoghese. Dall’impatto, Kubala esce
malconcio. Silurato dal Mago che, per il suo calcio, ha bisogno di un leader
diverso, disposto a mettersi al servizio del collettivo per farlo decollare.
Per Herrera, l’uomo del destino è
Luisito Suarez. All’inizio l’opinione pubblica è scettica, poi i risultati
mettono tutti d’accordo. Suarez è un concentrato di fosforo puro ed altruismo,
si sistema nel ruolo di interno sinistro ed inventa capolavori. È il cervello
del Barça, la sua intesa con l’uruguagio Vìllaverde è perfetta, quando occorre
sa anche trovare il sentiero lucente del goal.
Otto stagioni azulgrana (dal 1953/54
al 1960/61) gli regalano due scudetti, due Coppe di Spagna e due Coppe delle
Fiere. Nel 1960 arriva il riconoscimento di France Football: Luisito stringe il
Pallone d’Oro, è il numero uno d’Europa.
Di lì a poco, Helenio Herrera
approda all’Inter di Angelo Moratti ed appronta un’altra epurazione. A Milano l’idolo
è Angelillo, che tra l’altro gode dell’infinito affetto del presidente. Come al
solito, il Mago mostra la sua idiosincrasia per le icone del calcio. Per
vincere, lascia intendere, bisogna sbarazzarsi di Angelillo.
Gli danno carta bianca e lui
propone a Moratti di reinvestire i soldi guadagnati dalla cessione dell’argentino.
Mettendo Suarez al primo posto nella lista degli acquisti. Luisito costa all’Inter
25 milioni di Peseta, più o meno 300 milioni di lire, un record per la storia
nerazzurra e per il calcio dell’epoca. Una spesa giustificata: Herrera mette il
suo pupillo in mezzo al campo, lui inizia subito ad ispirare Mazzola e Jair,
copre la difesa sostenuto dall’altro cervello arretrato della compagnia,
Armando Picchi.
È silenzioso, lavora nell’ombra,
tutto il contrario di Herrera che regolarmente esplode in proclami destinati a
caricare la truppa. È un costruttore di gioco, Luisito, ma anche di sogni visto
che la sua Inter diventerà la Grande Inter. Ed il Mago riconoscerà, anche a
distanza di anni, l’importanza del suo architetto: «Tra tante pedine
importanti, Suarez era quella importantissima».
L’epopea inizia con lo scudetto
del 1962/63, vinto con quattro lunghezze sulla Juve. E finisce quattro anni più
tardi, con la settimana maledetta: mercoledì 28 maggio l’Inter perde a Lisbona
la finale di Coppa dei Campioni con il Celtic Glasgow; domenica 1° giugno,
ultima di campionato, inciampa a Mantova e si fa superare dalla Juve.
Suarez ricordava: «A Lisbona io e
Jair non avevamo giocato per degli acciacchi muscolari e questo ebbe un peso
nella sconfitta, perché allora non c’erano le rose interminabili di adesso, un
campionato lo giocavi con sedici o diciassette giocatori più qualche ragazzo
della Primavera. Riuscimmo a recuperare per la trasferta di Mantova che sulla
carta sembrava una formalità. Perdemmo 1-0 e ci cascò il mondo addosso. Eppure
non credo che il ciclo si sarebbe chiuso lì, se Herrera non avesse deciso di
rivoluzionare la squadra. Insomma, eravamo arrivati in finale di Coppa, avevamo
fatto il campionato in testa, non è che fossimo divenuti dei brocchi. Invece
Herrera decise di andare in cerca di novità a tutti i costi. L’anno dopo
arrivammo quinti. La “Grande Inter” finì così».
Era un calcio diverso: «Era
diverso il rapporto con la città, con la gente, non avevi addosso l’attenzione
di oggi. Eravamo dei calciatori e basta, non una via di mezzo tra degli attori
e dei fotomodelli. Ed il calcio che giocavamo era senza dubbio meno dinamico,
ma dal punto di vista tecnico eravamo mille miglia avanti a quello di oggi».
I trionfi nerazzurri sono i suoi
trionfi: vince e fa vincere tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due
Intercontinentali.
L’esperienza nerazzurra dura fino
al 1970, poi il cambio societario (Fraizzoli subentra a Moratti) porta ad uno
svecchiamento della rosa e Luisito finisce a Genova, sponda Sampdoria. Le
ultime tre stagioni sono utili a Suarez per scrivere ancora qualche pagina
dignitosa, tanto che a trentasette anni viene ancora richiamato in Nazionale
(12 aprile 1972, Grecia-Spagna 0-0). Come a dire che l’età non conta quando la
classe e l’intelligenza si sono sposate da lungo tempo.
Da non dimenticare poi il titolo
europeo conquistato con le Furie Rosse, la più grande soddisfazione con una
Nazionale nella quale è stato indiscusso protagonista per tre mondiali
consecutivi.
Terminata la carriera agonistica,
divenne allenatore, senza però raggiungere lo stesso successo che ebbe come
calciatore. Dopo un anno sulla panchina delle giovanili del Genoa, nel 1974
accettò la guida della prima squadra dell’Inter. La squadra però aveva molti
giovani e Suarez non riuscì a soddisfare le attese dei tifosi, tanto che fu
licenziato dopo un anno: lui stesso ammise in seguito che non aveva saputo dire
di no, ma avrebbe dovuto iniziare la sua attività in un altro modo.
Dopo alcune stagioni in Italia,
passò ad allenare la nazionale Under 21 spagnola, portandola alla vittoria nel
campionato europeo del 1986; dal 1988 al 1991 guidò la prima squadra, senza
grandi risultati ai Mondiali del 1990.
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