FEDERICA FURINO, “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 2008
Lo guardi seduto sul divano bianco del Media Center di Vinovo, col campo di allenamento a fare da sfondo come in un quadro, vestito come un rapper americano, e non riesci a non pensare che se esiste una Babele del calcio da qualche parte nel mondo, è da lì che viene Mohamed Lamine Sissoko. Non da Mont Saint-Aignan (dove è nato) e neppure da Liverpool (dove ha giocato fino a gennaio).
L’ultimo acquisto della Juventus, arrivato a Torino il giorno del suo ventitreesimo compleanno, ha la pelle dell’Africa e la erre dolce della Francia, il cuore maliano e i piedi cresciuti un po’ qua e un po’ là in Europa, tra la Spagna e l’Inghilterra. Pezzi diversi messi insieme come in un puzzle. «Posso parlare in francese. Oppure in inglese o in spagnolo, è uguale. L’italiano no però, mi ci vuole ancora qualche mese per impararlo. Ma inizio a capire. Ah, eviterei anche la lingua del Mali: non mi sembra molto adatta a un’intervista...». Saggia idea.
Dopo qualche indecisione, il cittadino di Babele sceglie lo spagnolo. Probabilmente perché nella testa di uno che tra i professionisti ci è entrato passando per la Liga, quella resta la lingua madre del pianeta calcio. «Avevo diciotto anni quando mi acquistò il Valencia: venivo dal campionato francese e avevo fatto un anno con l’Auxerre senza mai esordire. Una tortura. Andare in Spagna è stata la mia fortuna perché ho potuto iniziare presto la carriera. Un vantaggio. Ora sono giovane ma di esperienza ne ho accumulata abbastanza. E qualche soddisfazione me la sono tolta».
Le soddisfazioni di Momo si chiamano: campionato spagnolo, Coppa d’Inghilterra, SuperCoppa Europea (due), Coppa Uefa. Roba che, salvo rare e fortunate eccezioni, difficilmente riempie la bacheca di un ventitreenne. La sua sì, però. E le vittorie sono un vizio al quale non si rinuncia volentieri, specie quando si comincia presto. «È vero, ho un palmares importante considerata la mia età. Ma non mi basta. Voglio di più, di più e ancora di più. Qualcuno mi ha chiesto se preferirei vincere lo scudetto o la Champions. La risposta? Entrambi. Io voglio tutto».
Per questo, dice, ha scelto di venire alla Juventus. «È stata una trattativa lunga: già la scorsa estate si parlava di un mio possibile trasferimento a Torino. Poi il Liverpool ha deciso di tenermi lì e il passaggio è stato rimandato. Però di contatti con la società bianconera ce ne sono stati tanti. Prima di firmare ho parlato a lungo con Vieira. Ci siamo incontrati a Parigi: lui mi ha consigliato di accettare e mi ha dato buoni suggerimenti. Patrick è un grande campione e un’ottima persona. Mi paragonano a lui? Beh, non può che essere un onore».
Il primo a notare la somiglianza fu Rafa Benitez, l’inventore di Sissoko, suo allenatore prima al Valencia e poi al Liverpool. Uno che nel calcio vede lontano. Disse che Sissoko era il nuovo Vieira, «ma con più qualità e dinamismo». Roba che a diciotto anni ti far girare la testa ma a ventitré si trasforma in tormentone. «Patrick è grandissimo, lo ripeto: essere considerato il suo “erede” fa piacere. Ma io sono un tipo ambizioso. Voglio diventare meglio di lui».
Auguri. «Perché no? Da bambino avevo un sogno: volevo diventare calciatore. Ora passo al sogno successivo: diventare il più forte nel mio ruolo. E ce la farò».
Il ruolo in questione è in mezzo al campo: midfielder, com’era scritto nel sito dei Reds sotto il suo nome. Tanto per dimostrare che al destino non si sfugge. Perché la prima vocazione di Momo, come raccontano le sue biografie ufficiali, era il gol. «Nelle giovanili giocavo come seconda punta. Era divertente, segnavo tantissimo».
Poi ci fu Benitez e la musica cambiò. «Mi spostò a centrocampo, pensando che in quella posizione avrei potuto sfruttare meglio le mie potenzialità fisiche e tecniche. Da allora il mio obiettivo è diventato recuperare e giocare il maggior numero possibile di palloni. Se poi arriva un gol, come contro la Fiorentina, tanto di guadagnato. È una soddisfazione in più».
In realtà, dal Valencia in poi, il pallottoliere di Momo si è mosso poco: con la rovesciata capolavoro contro i viola arriva a tre centri, uno per squadra. Coerente con l’idea che, se proprio bisognava arretrare, tanto valeva farlo davvero, diventando centrocampista difensivo. Da quel momento Sissoko ha segnato diversi gol in meno e rimediato qualche cartellino giallo in più, guadagnandosi (lui francese-maliano, spagnolo di adozione calcistica) la fama di giocatore “molto inglese”. «Nel calcio britannico c’è grande intensità: quando le squadre entrano in campo sono pronte ad affrontare una guerra. E in effetti, sì, io sono uno abbastanza deciso...».
Quello che cercava Ranieri. Meglio: quello che sapeva di trovare. Perché, per il tecnico romano, Mohamed è una vecchia conoscenza dei tempi di Valencia, stagione 2004/05. «Ranieri è un grande allenatore e l’ha dimostrato in tutte le squadre che ha guidato. Quello che mi piace di più di lui è come difende i suoi giocatori. A me ha dato la possibilità di giocare e di crescere, dimostrare quanto valevo. Umanamente è una persona speciale. Tu puoi avere i giocatori migliori del mondo ma se non sai mantenere l’ambiente sereno, la squadra non funziona».
E qui, le cose sembrano funzionare. «Ma questo non dipende soltanto dall’allenatore: quando hai gente come Del Piero, Nedved, Camoranesi, Trezeguet che danno il massimo, gli altri non possono che fare altrettanto».
Quando si arriva in una nuova squadra (Ibra docet) si scopre che, sotto sotto, qualche simpatia per i colori sociali la si è sempre nutrita. Anche a Momo è scappato qualcosa del genere, una quasi-papera corretta in corner. «Qualcuno ha scritto che da bambino ero tifoso bianconero. In realtà ha travisato le mie parole. Ho detto che il mio idolo era Zidane e che tifando per lui ho scoperto la Juventus. Ma non ho mai avuto una squadra del cuore: c’erano molti club che mi piacevano e naturalmente anche quello bianconero. Se proprio devo sceglierne uno dico il Paris Saint-Germain. Ma è una forzatura. A me piaceva seguire i campioni e Zidane è stato il più grande».
I tifosi bianconeri, di certo, Zizou li ha fatti divertire. «Sì, ma io non dico questo di Zidane soltanto per ragioni calcistiche. Lui aveva una bella immagine in campo ma anche fuori. E sei giovani vedono che il loro idolo si comporta bene, che fa qualcosa di buono, possono aver voglia di imitarlo facendo qualcosa di buono anche loro».
Lui, per esempio, ci ha provato. Momo è figlio dell’Africa e di genitori emigrati in Francia dal Mali in cerca di lavoro. La prima curiosità che si racconta di lui è il numero dei fratelli: quattordici, quindici con lui che è l’ottavo. Maschi e femmine che coprono praticamente una generazione. La seconda curiosità è che sono così tanti che, se proprio non fa attenzione, Momo finisce per dimenticare il nome di qualche fratello. La terza curiosità la racconta lui. «Come ho già detto, da bambino sognavo di diventare calciatore. Ma era un sogno, appunto. Non immaginavo di poterlo realizzare. Mi limitavo ad andarmene in giro con i miei fratelli, sempre con la palla dietro, per strada, nei giardini. E giocavo, giocavo, giocavo. Finché sono venuti a propormi di andare all’Auxerre. Mio padre non sapeva nemmeno che giocassi a calcio. Fargliela digerire non fu uno scherzo...».
Quando la scena si ripeté per altri due figli, Ibrahim e Abdul (diventati anche loro calciatori professionisti), papà Sissoko doveva essere già preparato. Ma questa è un’altra storia.
Della sua infanzia, della vita nella banlieu parigina, Momo parla poco. Giusto il tempo per dire che sì, forse qualche privazione l’ha patita. Ma che l’affetto e i valori sono stati un cuscino sufficientemente morbido da attutire i colpi. «La famiglia è la cosa più importante della vita. Quando ti sostiene, nei momenti difficili come in quelli buoni, e ti appoggia e ti aiuta, quando i tuoi genitori ti parlano e ti danno consigli, allora puoi ritenerti una persona fortunata».
Come dire: i problemi veri sono altri. «Certo l’idea di dare ai miei genitori e ai miei fratelli un benessere economico è stata una spinta in più. Sono nato in Normandia, vicino a Rouen. Poi i miei si sono dovuti trasferire a Parigi per lavorare. Certo la capitale non è una città semplice quando sei figlio di immigrati. Ma è comunque un posto migliore di altri. Crescere in Francia è stata una fortuna: la vita in Africa è un’altra cosa».
Che cosa fosse davvero l’Africa, Momo l’ha scoperto a diciassette anni, quando per la prima volta ha scelto di vedere di persona la terra dei genitori. «Prima dovevo giocare a calcio, costruire il mio futuro. E così rimandavo e rimandavo. Poi un giorno decisi che era arrivato il momento di andare in Mali. Ricordo che quando arrivai, all’aeroporto c’era la gente che mi aspettava. La cosa mi colpì. Vidi le loro facce, sentii il loro affetto. Fino ad allora quel paese viveva solo nei racconti di mia madre e mio padre. Era la cultura che mi avevano trasmesso, il dio che pregavo, i piatti che trovavo sulla tavola. Vedere, però, è un’altra cosa: ti apre gli occhi. Ho capito che, in qualche modo, anch’io appartenevo a quella terra. Fu allora che rinunciai alla nazionale francese».
Il suo aiuto al Mali, però, non si limita alla Nazionale. Perché il calcio darà speranza, ma quando hai fame non basta. Meglio far qualcosa di concreto. «Sono una persona fortunata. Il destino mi ha concesso il privilegio di guadagnare bene, di non avere problemi economici. E una piccola parte di questa fortuna ho voluto condividerla con la gente del Mali. Lì la povertà è cruda. La gente ha molti figli e tanti rimangono senza genitori. Ho visto un’infinità di bambini senza madre, senza padre e senza futuro. E la cosa mi ha toccato il cuore. Così ho deciso di costruire una casa per ospitarli, dove trovino cibo e istruzione: ormai è quasi finita. Se un giorno qualcuno di loro diventerà un avvocato, un medico o un calciatore, per me sarà la gioia più grande. Ma non lo faccio per pubblicità, perché la gente parli di me. È una vocazione personale, se non avessi fatto il calciatore avrei lavorato nel sociale, con i bambini».
Lui, per il momento, ne ha una sola di bimba: Aicha. Nata da pochi mesi. «Ora che sono diventato padre ho più responsabilità. Mia moglie Sokona è stata il mio primo amore. Ci siamo conosciuti da ragazzini, a Parigi, e non ci siamo più lasciati. È una ragazza tranquilla e una brava mamma. Per il momento fa la spola tra Torino e la Francia, in attesa di trovare una sistemazione adatta. Sto ancora cercando casa. Torino mi piace, è una città tranquilla anche se non manca un po’ di movida. Se mi piace la movida? Certo, ho ventitré anni, ho ancora voglia di divertirmi. Però mi piace anche dormire, sono un atleta».
Dormire e pregare. Pregare e giocare. «La fede per me è tutto. Mi ha aiutato e continua ad aiutarmi nella salute e in tutto il resto. Io sono musulmano, penso che alla fine tutte le religioni si somiglino. Le persone invece sono diverse ed è giusto che ognuno scelga la fede che sente più vicina al proprio modo di essere. L’importante è trovare pace».
Momo, per il momento, sembra esserci riuscito.
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Con indosso la maglia bianconera numero 22, Momo termina il campionato in modo positivo, nonostante l’espulsione rimediata contro la Sampdoria, con 15 presenze e la convinzione di avere superato in pieno il difficile esame del campionato italiano. Per la sua grande voglia di non mollare mai, diventa ben presto l’idolo dei supporter bianconeri.
Il secondo anno è ancora migliore: il maliano diventa il perno insostituibile del centrocampo bianconero e la sua assenza, dovuta a una frattura del piede nel derby del 7 marzo 2009, costerà parecchi punti ai bianconeri, nonché l’eliminazione dalla Coppa Campioni. Purtroppo, l’infortunio al piede si rivela più grave del previsto e Momo non riesce a rientrare fino a metà ottobre, dopo più di sette mesi di assenza dal terreno di gioco.
«È stato molto difficile superare l’infortunio. Più difficile di quanto avessi immaginato, forse perché uno stop così lungo non mi era mai capitato. Non ho paura di dire che è stato un momento di depressione. Non sono andato da uno psicologo, ma devo dire grazie a mia mamma e mia moglie, alle loro piccole parole quotidiane. Grazie anche ai miei compagni, alle loro telefonate che non mi hanno mai fatto sentire solo. Mi chiamavano pure quando ero in Francia, per curarmi. Mi chiamavano tutti, soprattutto Zebina e Tiago».
La sfortuna non abbandona Momo: un altro infortunio, infatti, lo tiene lontano dai campi di gioco fino al 22 novembre quando rientra nell’incontro casalingo contro l’Udinese, vinto per 1-0. Alla fine della stagione riesce a collezionare solamente 24 presenze.
Nella stagione 2010-11, decide di vestire la casacca numero 5, lasciata vacante da Fabio Cannavaro. Trova meno spazio rispetto agli anni precedenti, essendo spesso utilizzato da Delneri solo a partita in corso. Il tecnico friulano, infatti, gli preferisce il brasiliano Felipe Melo. Il primo marzo 2011 è sottoposto a un intervento artroscopico di regolarizzazione della cartilagine del ginocchio sinistro, rimanendo lontano dai campi di gioco per altri tre mesi, terminando in anticipo la stagione con un totale di 29 presenze.
Il 28 luglio 2011 passa al Paris Saint-Germain firmando un contratto triennale. «Ringrazio con tutto il mio cuore tutti i tifosi della Juventus. Dal mio primo al mio ultimo giorno da giocatore della Juve, mi hanno sempre sostenuto e mi hanno tifato nei periodi felici e quelli infelici. Non dimenticherò mai tutto ciò che mi hanno dato sul piano umano durante la mia permanenza in seno alla squadra. Durante tre stagioni, ho vissuto momenti indimenticabili, anche grazie a loro. Se ho passato cosi tanti belli anni alla Juve, lo devo anche alla società. Tutti i dirigenti e tutti i miei compagni che tengo a ringraziare e a salutare per tutti questi eccellenti momenti che abbiamo vissuto assieme. Avrò sempre nel mio cuore questa parte della mia carriera. Oggi, sono un giocatore del Paris Saint Germain, ma ciò che ho vissuto durante due anni e mezzo con la maglia della Juventus, non lo dimenticherò mai. Auguro lunga vita a questa squadra che mi è ormai molto cara. Spero che la squadra ritroverà la via del successo come lo vuole la sua storia e che continuerà a fare vibrare tutti i suoi tifosi che meritano tanto».
Che devo dire,mi ha esaltato in un periodo in cUi non c era da ridere molto..sfortunato e gestito malissimo da ranieri in primis che lo schiero'infortunato e fu l inizio del dramma..bonne chance momo'
RispondiEliminaÈ un giocatore eccezionale, è molto veloce e può dare alla squadra più scelte alla fine offensiva.
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