C’era una volta il maiale che “non può allenare” – scrive Andrea De Benedetti sul “Guerin Sportivo” del 22 luglio 2008 –. Adesso è la volta del “bidone che non può giocare”. I tifosi juventini hanno un modo tutto loro per dare il benvenuto ai nuovi arrivati a Torino, e quello riservato a Christian Poulsen non è certo il più antipatico della serie. Bidone, in fondo, è una parola che sa d’antico, che evoca il suono cavo di una grossa latta vuota, ma che in qualche modo non intende offendere il destinatario, semmai chi è riuscito a scambiarlo per un barile pieno di petrolio e lo ha pagato in proporzione.
Ci vuole una bella faccia di tolla – hanno protestato i tifosi bianconeri – per pagare un pezzo di tolla 9 milioni e 750 mila euro, che è un modo inutilmente goffo per non ammettere di averne spesi 10 (ovvero l’esatto ammontare della clausola rescissoria). E non vale nemmeno la scusa che lo cercava anche il Barça, visto che per Laporta, come si suol dire, basta che respirino. Il fatto è che per una cifra appena superiore, secondo loro, si poteva comprare meglio. Per esempio Flamini: più giovane, più forte e a costo zero. Invece è finito al Milan, ed è proprio questo che ai fan juventini appare più di ogni cosa intollerabile, cioè il fatto che prima, temporibus Moggis, al poker del mercato la Juve bluffava tutta l’estate ma alla fine riusciva regolarmente a calare il full, mentre adesso, giocando sempre a carte scoperte, lascia sul piatto cifre enormi e il poker alla fine lo fanno gli altri.
Ma non è questa la sede per piangere sul denaro versato, semmai per spiegare se e in che misura quello per Poulsen possa considerarsi ben speso. La risposta alla prima questione è sostanzialmente un sì. Il 28enne danese non è metallo pesante ma neanche lamiera sottile; i piedi non parlano il lignaggio delle muse ma neanche quello che si ascolta frequentando certe bettolacce, come il suo carattere spigoloso potrebbe dare a intendere. Sta nel purgatorio, dove abitano quelli che non sono ammessi all’empireo dei fuoriclasse ma che non sono nemmeno condannati al girone infernale dei brocchi, con il non lieve vantaggio, rispetto ad altri suoi simili, di esserne perfettamente consapevole. Sa fare tante cose, quasi tutte con diligenza e buon profitto: il pilone nel 4-4-2, il centrocampista esterno nel 4-3-3, e all’occorrenza persino il difensore (allo Schalke 04 gli capitava spesso). Se passate il paragone sacrilego, si potrebbe dire che somiglia un po’ a Marco Tardelli come grinta, dinamismo, carattere e duttilità.
Oltre a quanto detto sopra, il biondo sa inoltre correre, tirare (un paio di reti a stagione le garantisce) e soprattutto come far innervosire anche i giocatori più pii e inoffensivi del pianeta con un prodigioso e inimitabile repertorio di provocazioni. Molti, in questi giorni, hanno rievocato l’episodio dello sputo di Totti e quello di quando Ancelotti, durante uno Schalke-Milan, sostituì Kaká temendo che all’angelico Ricardo venisse il raptus di sfilarsi le alucce e prendere a testate il demonio biondo. Pochi invece ricordano la volta in cui un altro giocatore sostanzialmente pacifico come Johan Micoud gli strizzò gli zebedei esasperato dalle sue morbose manifestazioni d’affetto in campo.
Ma la Juve non lo ha comprato per assicurarsi il Materazzi danese e nemmeno per fare le veci di Xabi Alonso, che obbiettivamente, dal punto di vista tattico, le sarebbe servito assai di più. La Juve lo ha preso soprattutto perché lo considera un vincente, essendo il suo curriculum, almeno da questo punto di vista, del tutto inattaccabile.
Campione danese nel 2001 con la maglia del FC Copenaghen, allo Schalke è rimasto all’asciutto, ma solo perché la Bundesliga funziona come le Olimpiadi, dove si può conquistare qualcosa solo ogni quattro anni (gli altri tre tocca sempre al Bayern), A Siviglia, in compenso, ha vinto quattro titoli nei primi dodici mesi (Coppa Uefa, Coppa del Re, Supercoppa europea e spagnola) diventando uno dei pilastri di una squadra che, è bene ricordarlo, è stata in vetta al ranking mondiale per oltre due anni.
A livello personale, inoltre, è stato eletto calciatore dell’anno in patria nel 2005 e nel 2006, ed è ben vero che in Danimarca i Laudrup nascono di rado, ma è sempre preferibile essere il migliore tra i danesi che il quindicesimo trai croati o tra i portoghesi (ogni riferimento a fatti o giocatori realmente esistenti è assolutamente voluto).
Ora resta da capire se alla Juve servisse di più un vincente in un ruolo già abbondantemente coperto o piuttosto un “pareggiante” (sul carattere di Xabi Alonso aleggiava qualche dubbio, senza contare l’atavica difficoltà degli spagnoli ad adattarsi al nostro calcio) in una posizione sguarnita. Probabilmente nessuno dei due. Probabilmente la “biade” Blanc-Secco avrebbe potuto pensarci ancora un po’ e stare a vedere come si muoveva il mercato. Probabilmente avrebbe potuto non scoprire le carte tutte in una volta, aspettando che qualcuno muovesse la prima tessera nel domino del mercato per andare a raccogliere una di quelle che rimanevano in piedi. Però, insomma, fossimo tifosi della Juventus non saremmo così apocalittici. Anzi, conoscendo il carattere di Poulsen, sappiamo sin d’ora che quel “bidone” con cui l’hanno accolto sarà il miglior propulsore per la sua stagione. Perché il metallo è quello che è, ma la benzina è tanta. Tantissima.
Gioca la prima partita ufficiale con la maglia bianconera il 13 agosto, nella gara di andata del preliminare di Coppa Campioni, disputata a Torino contro l’Artmedia Bratislava e vinta 4-0. Il 31 dello stesso mese debutta in Serie A nel pareggio esterno per 1-1 con la Fiorentina. Le prime gare sono confortanti, nella partita contro l’Udinese fornisce, infatti, un assist perfetto per il gol di Amauri e centra in pieno un palo con un potente e preciso tiro dalla distanza. Il 18 ottobre, durante la gara col Napoli, dopo un altro assist ad Amauri, subisce uno stiramento che lo costringe a uno stop di circa due mesi. Torna in campo l’11 gennaio 2009, negli ultimi minuti della partita di campionato contro il Siena. L’8 febbraio realizza una bella rete in Catania-Juve, permettendo alla sua squadra bianconera di battere i siculi. 29 presenze e una rete sono il suo bottino stagionale.
Nell’estate 2009, la Juventus acquista il brasiliano Felipe Melo dalla Fiorentina e Poulsen inizia la stagione come riserva. Tuttavia, a causa dei molteplici infortuni di Sissoko e Marchisio, e anche dell’altalenante rendimento del brasiliano, è spesso chiamato in causa, sia come interno di centrocampo nel rombo, sia come mediano nel 4-2-3-1.
GIULIO SALA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GENNAIO 2010
C’è un’immagine di Christian Poulsen che merita di essere ricordata, quasi di essere portata ad esempio. È quella che lo ritrae sul campo di Pinzolo, mentre affronta la preparazione atletica di quest’estate. La Juventus ha cambiato registro. È tornato Massimo Neri e con lui le famigerate “ripetute”: quelle corse sfiancanti, mai troppo amate dai giocatori, tanto utili a “fare fiato”.
I bianconeri le affrontano in gruppetti, divisi per ruolo. Christian no, corre da solo. Il perché è presto detto: già dopo i primi test, si è visto che nessuno è in grado di stargli dietro e i distacchi che rifila ai compagni sono quasi imbarazzanti. Non è però tanto sulle sue doti podistiche, per quanto eccezionali, su cui vogliamo soffermarci, quanto su quella corsa solitaria. Christian in effetti, in quei momenti, solo doveva sentirsi davvero. Era sul mercato, ormai è risaputo. I cori dei tifosi, mai troppo teneri con lui, erano indirizzati ad altri. L’attenzione della stampa anche. Quando spuntava il suo nome sui giornali era solo per accostarlo a qualche destinazione estera, neanche troppo allettante: Turchia, per intenderci, o Inghilterra, ma in squadre di seconda fascia. Christian, cortesemente, declinava gli inviti, e continuava a correre, da solo. L’unica compagnia, quella dei mille pensieri che gli affollavano la mente: «Sentivo che era il momento giusto per lavorare sodo, specie dopo un anno difficile, nel quale non avevo reso, anche a causa di un infortunio. Il fatto poi che ci fosse un nuovo allenatore era uno stimolo in più. Volevo mostrare che avevo ancora molto da dare alla Juventus, anche durante i test atletici. Certo, la situazione per me non era facile, perché c’erano molti giocatori nel mio ruolo, ma ero contento di poter affrontare la preparazione estiva senza problemi. L’anno precedente, di fatto, l’avevo saltata, perché si stava ancora completando il mio passaggio dal Siviglia e quest’estate avvertivo il bisogno di lavorare duro».
– Non doveva essere facile, sapendo di essere sul mercato... «In quei giorni si facevano molte speculazioni sul mio futuro. I giornali scrivevano che sarei stato ceduto, si facevano i nomi di diverse squadre. Io non sapevo cosa sarebbe accaduto, ma volevo dimostrare di essere un professionista. Se la Juventus avesse deciso di tenermi, avrebbe dovuto sapere di poter contare su di me».
– Quando è stato acquistato Felipe Melo, cos’hai pensato? «Che dovevo lavorare ancora più duramente… Non avevo reso bene e la società ha cercato un altro giocatore. Per me ovviamente non è stato facile, ma credo proprio che quei giorni a Pinzolo mi abbiano aiutato, sia a dimostrare la mia ferma volontà di rimanere, sia ad affrontare l’inizio della stagione con una buona base atletica».
– Nonostante il tuo impegno a Pinzolo, quando la squadra parte per la Peace Cup in Spagna, tu non vieni convocato. Forse è stato il momento più difficile. «Sicuramente. Oltretutto la Peace Cup si è giocata a Siviglia, dove ho vissuto due splendidi anni, contro la mia ex squadra… È stata un’ulteriore prova per la mia forza di volontà: ho tenuto duro e alla fine ho avuto ragione».
– Hai voluto fortemente rimanere a Torino. Per orgoglio, ma anche per la tua famiglia. «La famiglia è tutto. Io e mia moglie stiamo insieme da nove anni, abbiamo due bambini meravigliosi e per me è fondamentale che loro stiano bene e siano felici. È anche per loro che volevo fortemente rimanere qui. Dopo un solo anno, cambiare nuovamente città, addirittura nazione, sarebbe stato molto difficile per loro. Oltretutto a Torino si trovano magnificamente. E poi io volevo dimostrare di meritare la fiducia che la Juventus mi aveva concesso, acquistando il mio cartellino».
– Già, il tuo acquisto... Non fu accompagnato con grande entusiasmo. I tifosi si aspettavano Xabi Alonso e l’accoglienza è stata freddina. «Io conosco le mie caratteristiche, i miei punti di forza e le mie debolezze. Sapevo che sarebbe stato difficile giocare in Italia e che avrei dovuto faticare per dimostrare ai tifosi di meritare la Juventus, ma ero felice di entrare a farne parte. Avevo giocato per quattro stagioni in Germania e per due in Spagna e arrivare qui era una grande occasione per la mia carriera».
– Fu Ranieri a volerti alla Juventus. Come ti sei trovato con lui? «Bene. Lo scorso anno, nei primi tre mesi avevo giocato parecchio e avevo fatto abbastanza bene, nonostante le inevitabili difficoltà che ambientarsi in una nuova squadra comporta. Poi mi sono infortunato e, mentre ero fermo, la squadra ha vinto praticamente tutte le partite. A quel punto era ovviamente più dura rientrare e riprendersi il posto. Con Ranieri però non ho mai avuto problemi».
– Che differenze cogli tra lui e Ferrara? «Ranieri è molto attento alla fase difensiva e predilige il 4-4-2. Ferrara, al contrario, ama un calcio più offensivo e spregiudicato. È estremamente piacevole giocare per lui e, in effetti, con i nuovi moduli mi trovo meglio, sia con il rombo che con il 4-2-3-1. Quest’ultimo sistema, tra l’altro, è lo stesso della Nazionale danese e dunque i meccanismi per me sono più semplici».
– Sembri anche più a tuo agio con i compagni, nello spogliatoio... «Sì, mi sento più “accettato”. D’altra parte è normale trovare qualche difficoltà, quando si arriva in una nuova squadra e in un nuovo paese. Ambientarsi non è mai immediato: serve un po’ di tempo, anche solo per imparare la lingua ed entrare in confidenza con tutti. Ora mi trovo benissimo».
– E i risultati si vedono. Sei tornato a giocare su ottimi livelli e ti sei ritagliato uno spazio importante. Non male per uno che doveva fare le valigie. La tua storia in fondo, ricorda un po’ quella di Nicola Legrottaglie... «È vero. Anche lui era sul mercato qualche anno fa e poi, una volta rimasto, è diventato un giocatore importante per questa squadra. Il calcio è così: si vivono momenti bellissimi e altri nei quali tutto sembra andare storto. Per superare questi ultimi non si può fare altro che rimanere concentrati su se stessi, avere fiducia nei propri mezzi e continuare a faticare. Ora anche per me le cose si sono messe bene. È stato fondamentale non aver patito infortuni; questo mi ha permesso di lavorare bene in estate e di trovare la miglior condizione e continuità di rendimento».
– Continuità che è mancata alla Juventus. Un difetto che ci è costato l’uscita dalla Champions League. «Il nostro problema finora è stata la mancanza di costanza, nei risultati e nelle prestazioni. Abbiamo vissuto momenti difficili quest’anno, primo fra tutti il match contro il Bayern Monaco. Non credo ci siano ricette particolari per invertire la rotta. Come nel mio caso personale, anche per la squadra servono lavoro duro, che comunque non è mai mancato, e tempo. Soprattutto il tempo è un fattore fondamentale: abbiamo tanta qualità, ma se guardiamo altre grandi, come il Manchester o il Chelsea, vediamo che possono contare su gruppi consolidati, che giocano insieme da tanti anni e, in diversi casi, hanno anche lo stesso allenatore da molto tempo. Solo in questo modo si può crescere, anno dopo anno, un gradino alla volta».
– Alla Juventus di tempo però se ne concede sempre poco. Per tradizione qui si può solo vincere... «Lo so bene ed è giusto che sia così, vista la grande storia di questa società. Questo spirito lo si coglie non appena si entra a farne parte, lo si vive ogni giorno e lo si percepisce anche quando si va in trasferta, visti i tanti tifosi che ci seguono. Il problema è che ormai anche altre squadre lo hanno sviluppato. Io credo comunque che siamo sulla strada giusta per costruire qualcosa di molto, molto importante».
Purtroppo il danese non avrà la fortuna auspicata. Infatti, nell’ultima partita del girone di andata, il 10 gennaio, a causa di uno scontro con Gattuso, si frattura il perone. Rientra il 6 marzo, contro la Fiorentina, dopo quasi due mesi. Riconquista il posto da titolare e, alla fine della stagione, totalizza 32 presenze.
Il 12 agosto 2010 è ceduto al Liverpool, terminando così la sua avventura in bianconero.
Poulsen è un buon giocatore, e mi sembra anche un'ottima persona; ma un commentino su quei geni della finanza che gli hanno dato un ingaggio di quelle proporzioni bisognerà pur lasciarlo.
RispondiEliminaMamma mia!
Auguro a tutti quelli che passano di qua di trovare un Secco e un Blanc sulla vostra strada (meglio ancora, un Moratti: ma non si può avere proprio tutto dalla vita)
ha ragione Giuliano..un altro giocatore mediocre preso dalla Juve e pagato a peso d'oro...con un carattere pessimo tra l'altro (ricordiamo lo sputo ricevuto da Totti dopo una serie interminabile di spinte e calci al nostro giocatore, e la rissa continua in campo con Gattuso, altro combattente ma non antisportivo).
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