Il brutto quando arrivi a novantadue anni con i ricordi illibati – scrive Andrea De Benedetti sul “Guerin Sportivo” del 18-24 novembre 2008 –, è che non hai più con chi condividerli. Il bello è che le cose che hai da raccontare non le potrebbe raccontare nessun altro. Sei rimasto solo tu a conservare le chiavi del passato, a fare da tramite fra il presente e la storia, che nel caso del calcio è quasi la «preistoria»›. Giacomo Neri è l’ultimo testimone di un’epoca (nonché il più anziano azzurro vivente) in cui per giocare a pallone si guadagnavano duemila lire al mese e ci si sentiva già dei privilegiati, in cui partire, anche solo per spostarsi da Faenza a Livorno, era davvero «un po’ morire», in cui nessuno ti riconosceva per strada ma il tuo lavoro era davvero riconosciuto, nel senso di «rispettato», da tutti.
Di lui, oggi, si ricordano in pochi, fuori dall’ambito locale. Non lo ricordano i giornalisti, con l’unica luminosa eccezione di Angelo Emiliani, che qualche tempo fa gli ha dedicato un bellissimo pezzo sul settimanale faentino «Sette sere». Non lo ricordano i libri di storia del calcio, che quasi mai si soffermano sui personaggi «minori» (ammesso che Neri possa essere considerato tale) dimenticando la lezione di Marc Bloch e l’importanza della microstoria. Non lo ricordava neppure Massimo Moratti, che nei festeggiamenti per i cent’anni del club ha premiato il novantunenne Antonio Caracciolo come più anziano interista vivente, quando, anagrafe alla mano, il riconoscimento sarebbe spettato a lui, che ha un anno in più. Il presidente dell’Inter ha poi rimediato alla gaffe facendogli recapitare una targa d`argento, ma l’oblio resta un crimine anche quando è involontario.
«Persino a Faenza», racconta l’interessato «quando parlano del “Neri calciatore” non intendono me, ma l’altro: Bruno Neri, quello del Torino, che morì partigiano e che oggi dà il nome allo stadio». L’unico club a ricordarsi regolarmente di lui è dunque il Genoa, squadra cui ha regalato gli anni migliori della sua carriera. Una carriera che sarebbe forse potuta essere più luminosa se non fosse stato per una certa giovanile irrequietezza che gli fece scivolare dalle mani le occasioni migliori: «A vent’anni passai alla Juve per una specie di anno di prova. Andò tutto bene finché, durante una trasferta a Lione con una selezione piemontese, scappai dall’hotel e trascorsi un’intera notte al tabarin: ero arrabbiato perché mi avevano fatto capire che il giorno dopo non avrei giocato, ma fu una sciocchezza enorme».
Oggi fa sorridere, nell’enorme luna park del peccato che è diventata la vita dei calciatori fuori dal campo, sentire parlare di un’innocente notte al tabarin come di «una sciocchezza enorme». Eppure, a Giacomino quella notte brava costò il posto nella squadra più famosa d’Italia, che aveva appena concluso il famoso «quinquennio» vincente. «Sono stato uno dei più giovani debuttanti in Serie A», scherza ancora Neri, «e sono stato anche uno dei giocatori più longevi dell’epoca. Peccato che fossi un po’ troppo scapestrato e che la guerra mi abbia fatto perdere gli ami migliori della carriera».
Una carriera in cui, comunque, Neri ha fatto in tempo a giocare al fianco di Piola, Meazza e Cesarini, a raccogliere tre presenze in Nazionale (con un gol segnato a Berlino contro la Germania poche settimane dopo l’invasione della Polonia), a realizzare una cinquina in dodici minuti («ma non ricordo in quale partita») e a segnare il gol numero 6.000 nella storia della Juventus, anche se il dato, peraltro riportato in tutte le sue biografie, sembra avere uno zero di troppo.
Gli è mancato solo lo scudetto, ma con Piola era in ottima compagnia. In compenso può raccontare di aver disputato, nel 1933, la prima partita nel neo-costruito stadio di Livorno dedicato a Edda Ciano (l’attuale «Armando Picchi») e disputata alla presenza della figlia del Duce. Un episodio che avrebbe rievocato sessantacinque anni dopo con uno degli spettatori più illustri di quella partita: il futuro Presidente della Repubblica Ciampi. «Ero a Ortisei in vacanza. Stavo guardando la tv e a un certo punto sento il Presidente che in un’intervista racconta la storia dell’inaugurazione dello stadio. Ohibò, penso. Quel giorno c`ero anch’io, ed ero in campo. Siccome Ciampi era anche lui in vacanza da quelle parti, chiedo a un mio amico di portarmi da lui. Mi presento davanti al suo albergo, spiego la situazione alle sue guardie, lascio i miei documenti e dopo un po’ lo vedo venirmi incontro. “Chi sei?” Mi chiede. “Giacomo Neri”, gli rispondo. “Chi? L’ala destra?” Ho sentito le gambe venirmi meno. Si ricordava di tutto, e si ricordava meglio di me. Alla fine ci siamo abbracciati. È stato un momento meraviglioso».
Oggi, sulla soglia dei novantatré ami, Giacomo Neri vive a Faenza con la moglie. Guarda poco calcio in tivvù, fa lunghe passeggiate e tiene in forma la memoria. Quello che dovremmo fare un po’ più spesso anche noi.
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