giovedì 30 maggio 2024

Thomas HASSLER


Talvolta gli uomini piccoli, diceva Napoleone, lasciano una lunga ombra – sostiene Maurizio Crosetti su “Hurrà Juventus” del gennaio 1991 –. E lui di questa materia se ne intendeva... È certo il caso di Thomas Hässler, uomo-copertina del primo Hurrà 1991, un metro e 65 centimetri di bravura mostruosa: un tedesco in miniatura che vuole proiettare la sua ombra bianconera sul campionato. Insieme a Baggio è la mente creativa della nuova Juve-champagne. Ma Thomas le bollicine preferisce farle solo in campo: non ama la vita troppo «frizzante», nonostante l’abbia frequentata negli anni di una tumultuosa adolescenza.
Ora è un marito tranquillo, quasi casalingo, un uomo che ha raggiunto precisi equilibri e non vi rinuncia. Non è stato facile convincerlo a dire tutto, passato presente e futuro: Hässler per svelarsi ha ancora bisogno dell’interprete. Ma la ritrosia dura pochi minuti. Come con tutte le persone autentiche, il difficile è solo cominciare. 
«Niente di particolare. Sono nato il 30 maggio 1966 in un quartiere popolare di Berlino Ovest, Wedding. Non avevamo troppi soldi ma si tirava avanti dignitosamente. Il gioco, la scuola, gli amici, il pallone: tutte cose normali».
– Ti piaceva studiare? «No, per nulla. Non sono riuscito ad andare avanti, non legavo con gli insegnanti, insomma non era una faccenda per me».
– Per fortuna c’era il calcio... «Davvero. È stato un amore a prima vista, avevo appena cinque anni quando mio padre Klaus mi portò al primo provino della mia vita. Ricordo bene quel giorno anche se è trascorso tanto tempo. Non toccai neppure un pallone, ero emozionatissimo».
– È vero che da ragazzo giocasti spesso accanto al Muro? «Sì, il quartiere di Wedding è a ridosso di quella zona. Si facevano partite interminabili e qualche volta la palla finiva dall’altra parte, nella DDR. Forse poi ci giocavano i Vopos...».
– Cos’hai provato il 9 novembre ‘89, quando il Muro è... crollato? «Me ne stavo in ritiro con la Nazionale, avrei voluto essere anch’io là per vivere quella giornata storica. È stata una data importante, nessuno ci credeva e invece il mondo è cambiato in poche ore».
– Dunque è giusto che la Germania sia una sola? «Certo, non potrebbe essere altrimenti».
– La tua infanzia è stata toccata anche dal dramma: un fratello morì di leucemia a sedici anni. «La vita non è stata tenera con noi. Ma sono cose mie, vorrei non parlarne».
– Il primo provino a cinque anni andò male: ma dopo... «A dieci mi ingaggio il Reinickendorfer Fuchse. Ci restai tre stagioni e imparai le cose essenziali del calcio».
– Dicevano che eri piccolo, troppo piccolo... «Una storia che mi ha accompagnato nel tempo. Gli allenatori guardavano il mio fisico e scuotevano il capo, poi mi mandavano in campo e il giudizio cambiava».
– Cos’è accaduto dopo quei tre anni? «Su consiglio di mio padre passai a un’altra società, il BFC Meteor 06. Lì riuscii a mettermi in evidenza, tanto che gli osservatori del Colonia cominciarono a seguirmi. Dopo cinque anni mi giunse la proposta definitiva dal club renano. Accettai con qualche preoccupazione: temevo che lasciare Berlino mi potesse creare non pochi problemi e in un certo senso avevo ragione».
– Furono tanto difficili i primi tempi a Colonia? «Il periodo più buio della mia vita. Conobbi qualche amico non proprio raccomandabile, trascorsi molte sere in birreria o in discoteca: mi dividevo tra il biliardo e il flipper. Pensavo solo a svagarmi perché mi sentivo fuori posto. Chiaro che il mio rendimento in campo era quel che era».
– Ricordi un giorno particolarmente triste di quegli anni? «Direi di sì. Stavo giocando la finale del campionato juniores tedesco, col risultato in parità a pochi minuti dal termine. C’è un rigore per noi: lo tiro io e lo sbaglio, una cosa terribile. Pensate che allora giurai di non calciare mai più da dischetto».
– Promessa mantenuta? «Certo».
– Quale fu la svolta della tua carriera? «Un giorno Udo Lattek, l’allenatore del Colonia, un mito in Germania, mi prese da parte e mi disse che se non mi fossi dato da fare mi avrebbe rispedito a Berlino a fare il tassista. A quel tempo avevo bisogno di discorsi duri, severi, e infatti mi diedi una mossa».
– E poi conoscesti quella che sarebbe diventata tua moglie... «Ecco la data davvero importante. Capodanno 1986, a una festa incontro Angela e in seguito ci fidanziamo. Poi il matrimonio. E lei che mi ha fatto maturare».
– Dicono che abbia troppa influenza su di te. «Cattiverie Angela è una persona di carattere, ma le scelte le facciamo insieme. Non è il mio manager, è la mia donna: qualcosa in più, direi...».
– Dopo la crisi, la notorietà in Europa e la Juventus. Ma non ti aveva seguito prima la Roma? «Sì, però scelsi i bianconeri perché pensavo mi potessero offrire più opportunità di successo. Ora so di non essermi sbagliato».
– Prima di ingaggiarti, la Juve ti diede una grande delusione... «Sì, fu duro essere battuti in semifinale di Coppa Uefa. Una batosta, ma di breve durata: la rivincita nei confronti delle coppe me la prenderò quest’anno. Possiamo e dobbiamo provare a vincere tutto».
– Italia, cioè Torino ma anche Mondiali: Olimpico, trionfo... «È elettrizzante sentirsi campione del mondo, però del mese trascorso all’inseguimento di quella Coppa ricordo anche i momenti difficili. Il mio rapporto con la Nazionale ha sempre vissuto fasi alterne».
– È vero che non andavi d’accordo con Beckenbauer? «Abbiamo avuto qualche scambio di opinioni non proprio convergenti, ma alla fine s’è chiarito tutto».
– Col nuovo citi Vogts dovrebbe andare meglio... «Credo di sì. E lui che mi ha lanciato ai tempi della Under 21».
– Eppure se la Germania è campione del mondo deve ringraziare soprattutto te per quel gol al Galles. «È vero, fui io a realizzare la rete decisiva nelle qualificazioni a Italia ‘90. Accadde proprio a Colonia, la mia città d’adozione».
– La Juve: che impressione ti ha fatto? «Per prima cosa mi ha colpito la grande professionalità collettiva. In Germania il calcio è importante, per carità, ma questo è un altro pianeta. Nel bene e nel male, perché esistono esasperazioni superiori rispetto alle nostre. Da voi è tutto “più”: pubblico, soldi, giornali, squadre, problemi. Ma se hai alle spalle una società come la Juventus, questi ultimi li superi di slancio».
– Hai impiegato qualche mese per dimostrare che i dirigenti bianconeri e Maifredi non si erano sbagliati sul tuo conto. Perché? «In Italia l’impatto è sempre difficile. Mi ha messo in crisi la vostra lingua, l’impossibilità iniziale di capire e di essere capito. Acqua passata».
– Chi devi ringraziare? «Tutti. Dirigenti, allenatore e compagni. Specialmente Giancarlo Marocchi e sua moglie Barbara: lui parla inglese, lei sa un po’ di tedesco. Mi hanno fatto sentire meno solo».
– A Torino come vivi? «In maniera molto riservata. Io e Angela non ci siamo ancora del tutto ambientati e la scelta degli amici va effettuata con cura. Sono un timido, non amo la vita mondana. Mia moglie è più estroversa».
– Come trascorri il tempo libero? «Esco poco. Mi piace ascoltare la musica: specialmente i generi pop e melodico. Uso parecchio il videotape e mi appassionano i videogiochi. Leggo raramente e mai i libri, amo il cinema e gli attori che preferisco sono Sylvester Stallone e Julia Roberts».
– È vero che spendi pochissimo? «Diciamo che non getto i soldi dalla finestra. Averne tanti non vuol dire sprecarli e neppure stravolgere esigenze e abitudini. Il calcio deve permettere a me e alla mia famiglia di vivere serenamente, e siccome si tratta di una carriera breve è meglio essere oculati».
– Ti ritieni appassionato di sport in senso pieno? «Certo, non seguo solo il calcio. Ho praticato pallavolo, nuoto e tennis, mi piace molto l’hockey su ghiaccio e gioco a golf».
– Dicono che il professionismo ti ha cambiato: non sei più una testa matta, d’accordo, ma saresti diventato triste. È vero? «Non esageriamo. Qualche anno fa scherzavo di più. Col tempo si cambia: comunque ridere mi piace sempre».
– La Juve è da scudetto? «Io dico di sì. Nessuno ha il nostro attacco: io, Baggio e Schillaci formiamo un terzetto che può mettere in crisi chiunque. E anche centrocampo e difesa sono molto forti. Con un po’ di fortuna possiamo dimostrarci i migliori in Italia e in Europa».
– Che tipo è Maifredi? «Un grande studioso di calcio, un tecnico nel senso pieno del termine ma con un’arma in più: il dialogo».
– Ti ha definito il Baggio di Germania: che ne pensi? «Credo abbia fatto un complimento a entrambi. Perché Roberto è un talento eccezionale ed io, beh, sono pur sempre un campione del mondo».
– Cosa pensi dell’avvocato Agnelli? «È uno degli italiani più conosciuti in Germania: ha una classe incredibile. Finora l’ho incontrato poco, tre o quattro volte, e abbiamo chiacchierato nella sua lingua. Anzi, più che altro parlava lui ed io ascoltavo, cercando di capire».
– Ti piace la nostra cucina? «Prima di venire a Torino credevo esistessero solo le polpette di mia madre. Tra Germania e Italia, a tavola non c’è confronto. Chiaro che un atleta deve controllarsi, tuttavia ho già avuto modo di apprezzare qualche specialità piemontese».
– È vero che nelle prime settimane bianconere soffrivi di solitudine e pensavi di tornare a Colonia? «No, sono state scritte e dette troppe cose sbagliate. Non mi sono pentito delle mie scelte neppure per un attimo».
– Ma della Germania non ti manca proprio nulla? «Là ho lasciato tanti amici, tante persone che mi vogliono bene e che non mi dimenticano. Ci sentiamo spesso, va bene così».
– Il calcio consente l’amicizia vera? «Certo. È in questo modo che ho trovato l’aiuto maggiore per superare le difficoltà. Ad esempio, con Pierre Littbarski siamo quasi fratelli».
– Cosa apprezzi di più nel prossimo? «La sincerità e la capacità di ascoltare e comprendere».
– Ti senti felice? «Mi succede spesso, anche se nessuna persona al mondo lo è sempre. Io comunque ho molto più di quanto sognassi».

Hässler prende il posto di un portoghese ancor più piccolo di lui, Rui Barros, che aveva fatto in tempo a diventare un beniamino dei tifosi e a segnare gol rapinosi e inimmaginabili contro i corazzieri dell’Italia e dell’Europa.
Il tedesco è completamente diverso dal lusitano, ha più tecnica, ma riesce a trovare solo a sprazzi i guizzi che lo rendevano unico nel calcio tedesco. Non è tutta colpa sua, beninteso: al Colonia faceva la mezzala, con libertà di accentrarsi e dettare l’assist o andare in porta con dribbling ubriacanti. Qui ci sono Baggio e Schillaci, per non parlare di Di Canio, ognuno abituato a portare palla più che smarcarsi per l’assist del compagno. Tommasino è relegato sulla fascia destra, da dove si schioda poche volte, stremato da rincorse avanti e indietro a cui non è abituato e che non fanno parte del suo bagaglio di calciatore. A conti fatti, 45 partite, appena 3e goal e l’impressione di non essere riuscito a esprimere tutto il suo indubbio talento.
Farà la valigia, destinazione Roma.

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