sabato 13 maggio 2023

Stefano TACCONI


Poteva diventare cuoco e preparare spaghetti all’amatriciana – scrive Angelo Caroli su “Hurrà Juventus” del gennaio 1984 – e polenta con spezzatino; invece è finito fra due pali, a vivere in solitudine l’arte acrobatica del portiere. La storia di Stefano Tacconi è singolare, quasi una fiaba, dove tutto diventa incantesimo ed è appeso al sottile filo dei sogni e dove un bambino fragile si trasforma in principe.
Figlio di operai (Arsenio e Giannina) di un lanificio di Ponte Felcino (piccolo paese umbro dove Stefano è nato), Tacconi viene dalla gavetta; e nasce portiere per caso, quando i fratelli maggiori Giuseppe e Piero, che credono di saperla lunga soltanto perché fanno il mestiere del centrocampista, lo obbligano a stare in mezzo a una porta, un ruolo che ogni bambino rifiuta categoricamente. Ma Stefano è docile e si adatta. Il tempo lo ripagherà con grossi interessi.
Le prime esperienze calcistiche le affronta a 16 anni, nella squadretta del suo paese; poi si trasferisce a Spoleto, lusingato da un osservatore che gli aveva riconosciuto buone doti atletiche: magro come un grissino, ma la voglia di imparare non gli manca. E sogna, proprio come nelle favole. Il giovane Tacconi deve però dedicarsi anche agli studi. Perciò, dopo aver superato l’esame di terza media, s’iscrive presso l’Istituto alberghiero fra polli allo spiedo e anatre all’arancia.
Ma siccome lui pensa che è meglio un portiere oggi che un cuoco domani, mette la vita dentro a un pallone, che continua ad afferrare con mani diventate sempre più forti e sicure. Gioca nello Spoleto con buoni risultati; poi un giorno compaiono Brighenti e Manni (osservatore e generai manager dell’Inter del 1975-76) per vedere all’opera un giovanotto di nome Roselli. Però piace anche Stefano e il doppio affare è concluso.
L’Inter lo affida a Venturi e a Giancarlo Cella: l’angelo di Ponte Felcino sta per spiccare il volo. Quattrini pochi, ma gloria abbastanza (tornei Primavera e Berretti e Coppa Italia). È rispedito successivamente a Spoleto, poi è mandato a Busto Arsizio (Pro Patria) per via del servizio militare, dal povero Barison. Tacconi si rompe, infatti, il braccio destro (l’ulna) in uno scontro con Vendrame. Sette mesi d’inattività, poi la ripresa, lenta ma sicura.
Soltanto a Livorno, in C1 e alle dipendenze di Burgnich, conosce il calcio a livello semiprofessionistico. Fa parte anche della Nazionale di Serie C che sconfigge, a Londra, l’omologa scozzese. Ma a San Benedetto, altro ambiente caloroso e tranquillo, spicca il volo deciso. Fino ad arrivare all’Avellino dove gioca, per 3 anni, a livelli ottimi. La favola subisce bellissime trasformazioni. La realtà è accarezzata e non sembra più una montagna grande e difficile da scalare.
La Juventus lo mette sotto il proprio obiettivo, ne fiuta le grosse capacità e lo porta nella metropoli torinese. Prendere il posto di Zoff è un compito che avrebbe distrutto chiunque, ma non il portiere perugino il quale non manifesta il minimo turbamento, ostentando sempre tanta sicurezza. Si allena con la stessa spregiudicatezza con cui si muoveva nell’Avellino e non dimostra alcun condizionamento nei confronti di un ambiente che rappresenta il sogno di ogni calciatore italiano. «Ad Avellino dovevo fare anche da libero, figuriamoci se mi spavento per il fatto di giocare in una squadra come la Juventus che al portiere è in grado di assicurare adeguata protezione. Non mi spaventa nemmeno il paragone con Dino. Io sono Tacconi e a Zoff guardo come al maestro».
Ma il ragazzo, oltre che bravo, è indubbiamente fortunato. Il suo arrivo sotto la Mole coincide con la messa in pista di una delle più solide versioni della Juve trapattoniana: confermato lo squadrone sfortunato l’anno prima, sono arrivati ritocchi di sostanza, uno dei quali, la mezzala Vignola, dallo stesso Avellino da cui proviene il portiere. La difesa destinata a proteggere Tacconi è quanto di meglio al mondo sia stato assemblato negli ultimi anni, da Gentile a Cabrini, da Brio a Scirea.
Si può temere qualcosa, con tanti pezzi da novanta a dare una mano? In effetti, non trema Tacconi e soprattutto non tremano i campioni bianconeri che di Tacconi cominciano presto a fidarsi. La Juve parte con il botto, in 3 giorni segna 14 reti e non subendone alcuna, è record mondiale o giù di lì. Avanti in campionato, avanti in Coppa delle Coppe, Tacconi che pure ha nell’esperto Bodini un rivale accreditatissimo è il titolare indiscusso e dà alla retroguardia una sicurezza insperata. Non solo, con un carattere da simpatico guascone è tra quelli che più si danno da fare per incitare i compagni nei momenti difficili.
Così facendo, nell’anno dell’esordio, mette insieme 23 presenze in campionato e una decina in Coppa delle Coppe e, quel che più conta, dà un contributo decisivo alla conquista di entrambi i trofei. Bravo e fortunato, si diceva. Un inizio così alla Juve l’hanno avuto in pochi.
L’anno dopo, con l’arrivo dell’amico ed ex compagno di Avellino Luciano Favero, ci sono le condizioni per ripetersi. Ma stavolta la sorte è meno benigna e cominciano i problemi: dopo un clamoroso 0-4 rimediato a San Siro contro l’Inter e il derby perduto la domenica successiva, complice un suo errore in uscita, Tacconi è sostituito da Bodini e l’imprevedibile portiere perugino non accetta la panchina, con furiose polemiche che non possono sicuramente essere tollerate dall’ambiente juventino.
Fioccano le multe e trascorre parecchio tempo prima che Tacconi si rassegni alla panchina che sarebbe durata per lunghi mesi. «Tacconi sfida la Juventus!», «Tacconi ha aperto il fuoco!», «Clamorosa polemica alla Juventus!». I giornali vanno a nozze, approfittando curiosi di queste polemiche poco abituali per l’ambiente juventino.
«Una volta i giocatori parlavano poco, forse avevano anche paura, ma con la Legge 91 hanno acquisito la possibilità di andare dove vogliono e le società hanno inevitabilmente minor potere su di loro. Quell’esperienza che ho vissuto mi ha fatto capire che avevo commesso alcuni errori. Il tempo tuttavia ha dimostrato che non avevo parlato completamente a vanvera».
Bodini si dimostra un ottimo portiere e Tacconi soffre parecchio: rientra in squadra sul finire della stagione È pronto per la finale di Bruxelles, ma se la sentirà il Trap di rischiare? Tacconi lo rassicura: «Mister sono pronto, è la mia grande occasione». Il Trap a questo punto si fida. E fa bene. Tacconi è grande nella notte di tregenda, la Juve issa in spalla la prima Coppa Campioni anche grazie alle sue strepitose parate.
Il grande slam del portiere perugino si chiude di lì a qualche mese. Tokyo, 8 dicembre 1985, finale di Coppa Intercontinentale. L’apoteosi per la Juve trapattoniana, il trionfo personale per il portiere erede di Zoff. Cosa c’è di più esaltante per un portiere che ergersi a baluardo, essere l’artefice unico di un successo, insomma parare un rigore, anzi 2, anzi 3? La coppa lottata e sofferta è aggiudicata ai penalty e qui Tacconi si esalta. La sua espressione dopo l’ultima decisiva parata è nella storia televisiva e fotografica del calcio. Pugni al cielo, ghigno di chi è arrivato dove nessuno avrebbe mai detto, insomma gioia incontenibile. Che è poi la gioia di milioni di juventini che hanno messo la sveglia nel cuore della notte per non perdersi l’evento in TV.
Tacconi, di qui in avanti, è un mito dei fans, un uomo simbolo. La Juve dei ciclo trapattoniano non è più la stessa, lasciano campionissimi e arrivano giocatori normali, non si può sempre vincere. Tacconi è la continuità tra quella Juve trionfante e questa che la sfanga senza infamia e con poche lodi.
Passa il biennio di Marchesi, la nota lieta per Tacconi è il suo ingresso, in punta di piedi, nel giro della Nazionale. Da riserva di Zenga, si capisce, ma è sempre meglio di nulla. Poi, alla Juve, arriva Zoff ed è di nuovo tempo di vittorie. Tacconi non salta più una partita che è una, è sempre più il simbolo di una Juve che prova a vincere qualcosa e, nella stagione 1989-90, da un contributo decisivo a un’altra doppia conquista, Coppa Italia e Coppa Uefa. Nella finale europea con la Fiorentina, sul neutro della sua Avellino, gioca un’altra partita da incorniciare, degna premessa al posto in Nazionale al Mundial italiano di un mese dopo.
Poi, nel 1992, l’arrivo di Peruzzi è il segnale che la lunga avventura è agli sgoccioli. Lascia un ricordo indelebile e un curriculum da grande, uno dei più grandi nella storia del ruolo in maglia juventina: 402 partite, di cui 56 nelle coppe europee, con 2 scudetti, il tris delle coppe europee (una Uefa, una Campioni ed una Coppe) e quella Intercontinentale del 1985, che è più sua che di chiunque altro.

VLADIMIRO CAMINITI
Stefano Tacconi appartiene, per il carattere e la natura di forte idealista, alla schiatta dei frati giocondi che peroravano, nell’Umbria del 1200 sempre aprica e risparmiosa, il verbo della pudicizia. Dotati di favella gloriosa, costoro, scalzi, coperti da un saio, viaggiavano il mondo a dorso di faceti asinelli, e peroravano. Acclarata che è questa la natura di Tacconi, veniamo al portiere, e qui appare tutto evidente: più potente che agile, è però un autentico drago per la capacità di vivere il match nel suo cuore nobile; quasi imbattibile tra i pali quando è in forma, recupera doti di estemporanea efficacia nelle uscite frontali, mentre sui palloni che provengono dall’out rinunzia a priori, fidandosi, spesso a torto, dei colleghi difensori che subito rampogna aspramente. Tacconi è un grande, acrobatico portiere nel senso lato dell’espressione, soprattutto quando la sfida s’infiamma; nei confronti europei è risultato spesso decisivo dall’alto di una forza e furia atletica prestigiosa, con quel suo stile un tantino gradasso o spaccone pure nel baffo, i crudeli occhi cerulei ironici, che me lo hanno fatto soprannominare Capitan Fracassa. Tacconi fa della porta il suo regno: essa è l’espressione del suo talento spettacolare e spericolato, uomo vero nella sfida pericolosa del calcio ama il più difficile, il sempre più difficile. E dopo la tragedia dello stadio Heysel, ha maturato un gusto amaro e sarcastico dell’ambiente in cui vive.

NICOLA CALZARETTA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELLOTTOBRE 2011
Stefano Tacconi. Fisico esplosivo, i centimetri giusti per un portiere che deve dominare la sua area. Porta i baffi, sotto una cesta di riccioli biondastri. Lingua tagliente e ben affilata, ma questo si saprà poi. Ha già alle spalle una buona gavetta quando arriva alla Juventus, estate 1983. Eppure quando arriva la chiamata della Juve per sostituire il mito Zoff, qualcuno storce il naso: «È normale», spiega. «Fino ad allora avevo giocato in provincia».
Invece dal cilindro di Boniperti spunta, a sorpresa, il tuo nome: «Ricordo che, però, già verso dicembre-gennaio cominciò a trapelare la notizia dell’interessamento della Juve nei miei confronti, quando Zoff ancora non aveva annunciato il ritiro».
Tu a questa notizia come reagisti? «A modo mio».
Cioè? «Dissi: “O io o lui”. Io la riserva non l’avrei fatta a nessuno».
Non hai avuto paura con quella sparata di esserti giocato la possibilità di andare alla Juve? «L’incoscienza ha sempre fatto parte del mio carattere. Sentivo di dover dire quelle cose e le ho dette. E sono convinto che i motivi per cui mi hanno scelto, c’è anche questo, la mia spavalderia».
Quando hai saputo che i giochi erano fatti? «Ad aprile. Me ne accorsi perché tutti temevano che mi facessi male! Comunque finché non ho firmato, non sono stato tranquillo. Mi volevano anche il Napoli e la Roma con la quale l’Avellino aveva già fatto un pre-contratto senza che io sapessi nulla».
Arrivavi a Torino, dove però c’era un Bodini che scalpitava: «Lui aveva chiuso benissimo la stagione precedente, aveva vinto la Coppa Italia. Ma io ero sicuro di me. Avevo ventisei anni, l’età giusta. Mi ero fatto una bella esperienza. E poi se mi avevano comprato, voleva dire che puntavano su di me. O no?»
E difatti l’11 settembre 1983 debutti in campionato con la maglia di Zoff: «Avevo già fatto la Coppa Italia, ma l’esordio al Comunale in campionato ha avuto tutto un altro sapore».
Sensazioni? «Un po’ di emozione c’era. Lo stadio era pieno, c’erano molte aspettative. Nell’aria sentivo ancora un po’ di scetticismo verso di me. In fondo dovevo dimostrare che quella maglia potevo meritarmela. È andata bene».
Direi benissimo, hai anche parato un rigore: «Onestamente l’Ascoli non fu un grande avversario: quel giorno vincemmo 7-0. E poi, con quella gente che stava davanti a me, mi sentivo molto tranquillo. Il rigore è stato la ciliegina sulla torta, fra l’altro De Vecchi non lo conoscevo proprio come rigorista».
Superata la prova del fuoco? «Mancava solo la Coppa delle Coppe che giocammo il mercoledì successivo. Anche lì vincemmo 7-0. Se non altro portavo fortuna! Alla fine dell’anno vincemmo scudetto e Coppa, mica male!»
Nel tuo primo anno alla Juventus hai avuto Dino Zoff come preparatore dei portieri. Quanto ti è servito? «Mi dava molta sicurezza».
Gli hai chiesto dei consigli? «Nessun consiglio. Anche lui aveva fatto così durante tutta la sua carriera. Ognuno deve fare di testa sua. Io poi sono sempre stato un tipo un po’ naif. Ero un orso, prima della partita non sono mai uscito a fare riscaldamento. Me ne stavo da solo nello spogliatoio. E poi non seguivo tabelle. Non c’era scienza nel mio gioco. Solo istinto e cuore».
Ed anche una particolare attenzione al look: con te le magliette si sono colorate vistosamente: «Era anche un modo per distinguersi dagli altri. E poi mi sono sempre piaciuti i colori sgargianti. Tutti tranne il giallo che portava sfiga».
È vero che disegnavi tu stesso i modelli? «Sì, me li cucivo addosso. Anche se nella mia prima finale europea la maglia me la dette Zoff».
Perché?  «Contro il Porto dovevamo giocare con le divise pulite, senza scritte commerciali. Io invece avevo tutte le maglie con lo sponsor. Allora Dino mi prestò la sua e così feci un ritorno al grigio. Che portò benissimo».
Ricordi un intervento in particolare della notte di Basilea? «La doppia parata su due tiri ravvicinati nel giro di cinque secondi. Modestamente ho dato anch’io il mio contribuito alla conquista della Coppa delle Coppe».
Quello fu il tuo primo trofeo internazionale al quale sono seguiti tutti gli altri, nessuno escluso: «Sono l’unico portiere ad aver vinto tutto. Voglio vedere che aspettano a mettere il mio nome nella Walk of Fame di Montecarlo!»
La lingua è ancora tagliente! «Guai se non fosse così. Anche se le mie uscite in carriera mi son o costate un sacco di soldi».
Quanti? «Più di 200 milioni. Anche se quella volta degli elicotteri di Berlusconi l’Avvocato Agnelli ne pagò la metà. Un grande!»
Quali sono stati i momenti più belli vissuti alla Juve? «Tutte le finali internazionali, con Tokyo un gradino su tutte: parai due rigori, quel giorno avevo una maglia verde».
E quelli più difficili? «Uno su tutti: quando rimasi fuori da novembre ad aprile, durante il campionato 1984-85. Ho sofferto molto, ho masticato amaro, ma alla fine ho vinto io. Feci anche la finale di Coppa Campioni, anche se ancora oggi non so perché il Trap mi fece giocare».
Che voto dai ai tuoi dieci anni alla Juve? «Dieci e lode».

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL GENNAIO 2012
In mano ha una busta della spesa con un peperone rosso appena acquistato dal verduraio di fiducia: «Oggi preparo un bel sugo ai peperoni, tanto se non cucino io, in casa mia non ci pensa nessuno».
È in perfetta forma, Stefano Tacconi, gli occhi azzurri scintillanti e la solita lingua tagliente. Siamo a Cusago, periferia sud di Milano. Mattinata brumosa, ma non fredda. L’appuntamento è in un bar del centro. Tuta nera, capelli biondo cenere spettinati come tendenza comanda e solito pizzetto ben curato. Un Campari, qualche patatina e via libera ai ricordi. Che sono tanti, perché lunga e ricca di eventi è stata la carriera di Tacconi, nato a Perugia il 13 maggio 1957. L’Inter, che lo aveva adocchiato da bimbetto, lo mette alla prova tra Spoleto, Busto Arsizio, Livorno e San Benedetto del Tronto. Poi, però, lo lascia libero. Ogni anno, uno scatto in avanti, fino alla Serie A con l’Avellino nel 1980. Ha  una montagna di riccioli, il baffo precoce e una voglia matta di arrivare. Nel 1983 ecco la Juventus per il dopo Zoff, hai detto nulla. Spaccone e irriverente, si prende la maglia da titolare e scrive pagine storiche in bianconero. Conquista scudetti, ma soprattutto tutte le coppe possibili e immaginabili.
Quella di più alto grado, la Coppa Intercontinentale, giusto ventisei anni fa, l’8 dicembre 1985 a Tokyo contro l’Argentinos Juniors: «L’ho vinta da protagonista, come avevo sempre sognato. Per un portiere è il massimo arrivare a giocarsi un trofeo ai calci di rigore. Quando l’arbitro ha fischiato la fine dei supplementari, ho detto: “E ora vado a prendermi la coppa”. Ero convinto, sicuro che quello sarebbe stato il mio momento. E difatti ho parato due rigori su quattro e siamo diventati Campioni del Mondo».
Detta così, più facile che bere un bicchiere d’acqua: «La partita è stata dura. Non quanto la preparazione, però».
In che senso? «Siamo arrivati a Tokyo praticamente una settimana prima della gara, dopo un viaggio in aereo che non finiva più. Boniperti, tirato come sempre, ci faceva viaggiare in economica, mai in business. Io, Brio e Serena sembravamo dei ricci, raggomitolati tra una fila di seggiolini e l’altra. Facemmo scalo in Alaska, atterrando su una montagna di neve. Il fuso orario ci ammazzò. E questo è stato il viaggio».
E a Tokyo? «Un casino. La città stava aspettando da mesi l’evento. Eravamo sempre imbottigliati nel traffico. Trapattoni, poi, era una belva perché avevano messo sia noi che gli argentini nello stesso albergo. La tensione saliva a vista d’occhio. Non c’era altro che allenamento, mangiare e dormire. Io ho resistito fino al quinto giorno».
Dopodiché? «Sono scappato e sono andato a cercarmi una geisha».
Trovata? «Sì e posso dire che dopo sono stato parecchio meglio».
Nessuno si è accorto di nulla? «No, o per lo meno nessuno mi ha detto niente. Mancavano due giorni alla partita. Erano tutti stressati. Io no».
Avevate qualche timore? «Era la finale di una coppa, gara secca. Non puoi mai stare tranquillo. Noi, comunque, eravamo abituati agli scontri diretti. Non come adesso che è tutto a gironi. Certo, qui ci giocavamo il mondo. Per la società poi c’era l’ulteriore traguardo di diventare l’unica squadra ad avere vinto tutte le coppe internazionali».
Ci furono particolari accorgimenti tattici? «Si doveva vincere. E basta. Noi eravamo la Juve».
Il tuo pre-gara com’è stato? «Quello di sempre. Da solo, nello spogliatoio, alla ricerca della concentrazione. Non sono mai uscito a fare riscaldamento. Non concepisco i portieri di oggi che stanno fuori un’ora prima della partita. E poi i saluti, i sorrisi nel sottopassaggio, ma che storia è? Io ero un orso. Dovevo stare da solo. Con la mia Marlboro e il caffè».
E la testa in quei momenti dove è andata? «È andata a mio fratello che, insieme a tanti tifosi della Juventus di tutta Italia, è partito con il pullman da Lucca per raggiungere Milano».
Per seguire in diretta TV la partita? «Sì. I diritti li acquistò Canale 5, ma la diretta avrebbe coperto solo la Lombardia. Noi giocammo a mezzogiorno, le quattro di notte in Italia. La differita l’avrebbero trasmessa nel pomeriggio dell’8 dicembre (tra l’altro l’ho vista anch’io). Prima della partita pensai a lui e a tutti quelli che stavano facendo chilometri per vederci in televisione».
Tokyo, ore dodici. Ci siamo: «Lo stadio era tutto bianconero, sembrava di stare a Torino. In panchina, accanto al Trap, c’erano tutti i dirigenti, perfino Edoardo Agnelli che, però, non aveva l’autorizzazione per stare in campo. Alla fine del primo tempo fu cacciato, ma lui trovò il modo di tornare dentro lo stesso».
Che rapporto avevi con lui? «Ottimo. Un bravo ragazzo, malinconico ma genuino. Ricordo che prima della partita dell’Heysel, quando ancora fuori non era successo niente, prese una sedia, ci salì sopra e fece un discorso a tutta la squadra. Ci fece piacere. Si sentiva accolto da noi. Qualche volta è venuto persino in ritiro a Villar Perosa, come suo cugino Giovanni Alberto. Ma il calcio non era nelle loro corde: avevano i piedi pieni di vesciche».
Intanto le squadre sono schierate e il tedesco Roth fischia l’inizio: «La partita fu bella, tirata, sempre in bilico, con continui cambi di fronte. Di là c’era gente come Olguín, Batista e Borghi, che era fortissimo».
Due goal per parte, più qualche altro annullato: «Ci siamo trovati a rincorrere, ma quella squadra poteva ancora contare su uno zoccolo duro di qualità, da Cabrini a Brio, da Scirea a Platini. Erano andati via Tardelli, Rossi e Boniek, ma era arrivata gente giovane come Mauro, Laudrup e Serena, oltre a Manfredonia, un leone. A un certo punto si fece male Scirea ed entrò Pioli, che aveva vent’anni. Fu bravissimo, dimostrò una personalità incredibile. Questa era la Juventus».
Tutto bello, ma a dieci minuti dalla fine siete sotto di un goal: «E lì c’è stato il capolavoro di Laudrup. Un pazzo scatenato. Anch’io ho urlato dalla mia porta di buttarsi per terra quando il portiere lo ha ostacolato. Il danese era un puledro purosangue. Quel goal lì, dalla linea di fondo, solo lui poteva farlo».
Fine dei novanta minuti, ecco i supplementari: «A quel punto non me ne importava più niente. Volevo i rigori. Dovevo entrare in scena io, da protagonista vincente. Fremevo dalla voglia».
Come ti sei preparato alla lotteria finale? «Io non avrei fatto nulla, com’era mio solito. Non ho mai visto cassette sugli avversari, non avevo dossier sugli attaccanti. Mi bastava l’istinto, la forza e la convinzione. In quel caso, invece, Romolo Bizzotto, il vice di Trapattoni, mi fece vedere per decine di volte la cassetta della finale della Libertadores tra Argentinos e America di Cali, finita anche quella ai rigori. Non ne potevo più, quella cassetta diventò un incubo».
Ma ti è servita o no? «Servita, servita. Imparai a memoria tutto, chi erano i rigoristi, come calciavano, da che parte avrebbero tirato. Anche se poi, a Tokyo, non mancarono le sorprese».
Tipo? «Intanto Olguín, il primo rigorista, cambiò l’angolo. Io andai deciso sulla mia sinistra e lui la buttò dall’altra parte. Mi alzai e mandai a quel paese Bizzotto e la sua maledetta cassetta».
Con Batista invece tutto filò liscio: «Fu un coglione! Non cambiò nulla nell’esecuzione, piattone sulla mia sinistra. Io, in verità, anticipai un po’ il tuffo, tanto che presi il pallone con la mano sotto il corpo. Esultai come un centravanti, iniziai a non capire più nulla. Ero carichissimo, dovevo sfogare tutto, gioia compresa. Anche perché con la mia parata eravamo in vantaggio di un goal, visto che Brio e Cabrini avevano segnato».
E così arriviamo al terzo rigorista, tale Juan Josè Lopez: «E chi lo conosceva? Era entrato a tre minuti dalla fine dei tempi supplementari, solo per tirare il rigore. Iniziai a guardare la panchina, ma il Trap fece finta di non vedere, nemmeno lui sapeva chi fosse. Ma porca miseria, possibile che nessuno lo conosca? Oltretutto, mentre si avvicinava al dischetto, mi guardava con aria incazzata perché avevo preso il tiro di Batista. Ma che cavolo vuoi? Fece goal, ma con il piede per poco non gliela prendevo».
La situazione si fa incandescente. Laudrup sbaglia. Per te c’è Pavoni. Se segna, l’Argentinos pareggia: «Lui c’era nella cassetta. Era un tipo massiccio, dal tiro forte e centrale. Devo dire che sono stato bravo, riuscendo a muovermi solo un istante prima del calcio. Feci un piccolo spostamento sulla destra, riuscendo però a ritrovare la posizione eretta e a respingere con il corpo. E lì ho esultato come un matto. Sapevo che era l’ultimo».
Non è vero, c’era ancora Platini: «Appunto».
Non avevi dubbi su Michel? «Nessuno. Platini disputò la sua più bella finale con la Juve. Anzi, direi l’unica finale giocata da star. Ad Atene non era lui, ma neanche a Basilea brillò. Sull’Heysel meglio non dire nulla. A Tokyo era in vena, oltretutto gli annullarono un goal magnifico».
Per colpa di chi? «Di Brio, che era in fuorigioco, ma che non c’entrava niente con l’azione. Michel ancora oggi lo maledice. Ma in realtà l’arbitraggio non fu all’altezza, così come il campo: buche, zolle, ciuffi d’erba qua e là, una pena».
E le trombette? «Non le sentivo. La testa era per quella coppa. Sull’aereo, nel viaggio di ritorno, ci ho dormito insieme. Una gioia immensa».
Anche per le tasche? «A testa ci toccarono 125 milioni, non male».
In quei casi Boniperti pagava volentieri? «Boniperti non pagava mai volentieri, ma era molto bravo a riscuotere, specie con me».
Perché ti multava così spesso? «Perché io ero diverso dagli altri. Se avevo qualcosa da dire, la dicevo, non guardavo in faccia nessuno. Se volevo fumare, fumavo. Fumavo e vincevo, però. Fuori dal campo volevo fare come mi pareva: dal lunedì al sabato non volevo rotture di scatole».
Torniamo al trionfo di Tokyo: con la conquista dell’Intercontinentale la Juventus continua a dettare legge: «Ancora per poco, a dire il vero. La partenza in campionato fu da urlo, otto vittorie consecutive, un record. Per essere pronti per la finale, infatti, avevamo cambiato la preparazione, accelerando i ritmi e i tempi. L’idea, o meglio la speranza, era che si potesse prolungare il grande ciclo bianconero che durava dal 1977. In realtà quella squadra fu pensata quasi esclusivamente per vincere l’Intercontinentale».
Ma a maggio del 1986 quella squadra conquistò lo scudetto: «Sì, ed è stato l’ultimo prima di Lippi! Quel campionato l’abbiamo ripreso per i capelli grazie al Lecce alla penultima giornata. La verità è che si chiudeva una storia, il decennio di Trapattoni».
A proposito del Trap, con lui hai fatto fatica? «È stato il mio primo allenatore alla Juve. C’era rispetto, forse un po’ di distanza. Era un martello pneumatico, non ti mollava mai. Nella mia seconda stagione mi ha tenuto fuori per sei mesi ma ancora oggi non so il perché».
Non avete mai chiarito questa cosa? «Quando mi vede, mi dice sempre: “Tu lo sai il perché”. Ma io non so un cavolo. L’unica cosa che posso dire è che sono uscito di squadra che eravamo quarti e sono rientrato con la Juventus quinta. Solo colpa mia?»
Come si sta in panchina? «Fa freddo».
Come hai reagito alla decisione di metterti fuori squadra? «All’inizio l’ho messa in vacca. Ho mollato. Ero incazzato nero. Parlavo male di tutti. Poi è scoccata la scintilla e ho tirato fuori l’orgoglio. Fino al rientro in squadra».
Hai mai pensato di lasciare la Juve? «Dissi di no al Napoli che mi offrì 1.200 milioni quando ne prendevo 700. Volevo dimostrare che ero da Juve. Dicevo: gioco e rivinco. Ho tirato fuori il meglio di me, come feci nel 1980 alla mia prima stagione con l’Avellino».
Perché, in quel caso cosa successe? «Semplice: l’allenatore, Luis Vinicio, voleva farmi fuori. Eravamo nel pre-campionato ed io, francamente, pensavo a tutto tranne che al pallone. Poi feci un partitone a Palermo, il 24 agosto, e da lì tutto è filato liscio come l’olio. È sempre il campo che fa la differenza».
Ma intanto la domenica giocava Bodini: «Ma io ero convinto che prima o poi sarei tornato. In una squadra c’è il numero uno e il dodici. E il dodici di quella Juve era Bodini. Lo so che c’è rimasto male, ma io dovevo tornare a giocare. Rientrai a tre giornate dalla fine e poi feci la finale di Coppa Campioni all’Heysel. Senza nessuna spiegazione da parte di Trapattoni».
Dai “non detti” del Trap passiamo alle coccole di Zoff: «Dino mi voleva bene, ricambiato da me. L’ho avuto il primo anno come preparatore dei portieri alla Juve, poi due anni con la Nazionale olimpica e altre due stagioni come allenatore alla Juve. Ha sempre puntato su di me, mi ha messo dentro anche quando non stavo bene».
Quando è successo? «Quella volta che mi fratturai due costole, prima di una gara di Coppa Uefa. Lui andò dal dottore che confermò la diagnosi. Sai che rispose? “Io ho giocato con tre costole rotte”. E allora gioco anch’io, risposi».
Cosa ti ha insegnato Zoff? «Mi ha dato tranquillità, psicologicamente mi ha rafforzato molto. Dal lato tecnico, niente. Non gli ho mai chiesto consigli, né lui mai li ha dati a me. Mi diceva sempre: che ti devo insegnare? Quello che hai accumulato ce l’hai, io ti devo allenare. Che errore cacciarlo».
Che gusto hanno avuto le due coppe vinte con lui? «Per me ancora più saporito di tutte le altre. Perché erano quelle che mi mancavano per entrare nella storia e perché le ho tirate su io per primo come capitano».
Curiosità: com’è che la fascia era finita sul tuo braccio? «All’inizio della stagione 1988-89 Zoff la dette a Tricella, facendo fuori Brio. Ma Tricella cosa c’entrava? Era alla Juve da pochissimo. L’anno dopo mi sono imposto, ne ho parlato con Zoff e tutto è tomato nell’ordine. Ero io il più anziano della rosa».
Invece Maifredi? «Alla prima intervista da allenatore della Juventus dichiara: “Tacconi con me non sarà capitano”. Carino, eh?».
E tu? «Quando ci siamo incontrati per la prima volta, gli dissi che tra uomini si parla guardandosi negli occhi. Poi gli dimostrai che avevo tutti i requisiti per portare la fascia».
Cosa facesti? «Chiamai l’Avvocato Agnelli e poi passai la telefonata a Maifredi: “Mister, c’è qui qualcuno che vorrebbe parlarle”. Diventò rosso, s’infuriò, ma capì che l’aveva fatta fuori dal vaso. Maifredi partì malissimo. Dopo la figuraccia in Supercoppa con il Napoli, chiesi alla società di cacciarlo, ma Montezemolo mi rispose: “L’ho portato io”. I risultati alla fine si sono visti».
Tatticamente l’idea era buona: «Quando Maifredi parlava di tattica e schemi andavo a giocare a tennis con Sorrentino, il preparatore dei portieri».
Cos’è che non funzionò davvero? «Maifredi aveva sfasciato lo spogliatoio. Per lui c’era solo Baggino. Sai quante volte gli ho detto: “E gli altri?”. L’aria era elettrica. C’erano continue litigate. Qualche giorno prima della partita di Coppa contro il Barcellona, con Dario Bonetti arrivarono alle mani. Era inevitabile che accadesse».
Chiusa la parentesi Maifredi, tornano il Trap e Boniperti e tu, però, chiudi il tuo ciclo bianconero: «Puntarono su Peruzzi ed io non avevo nessuna voglia di stare in panchina. Non avrei mai fatto il dodicesimo, non l’avrei fatto neanche a Zoff a suo tempo. E lo dichiarai pure».
Già, quella volta lì l’hai sparata veramente grossa! «La Juve mi aveva di fatto preso nell’aprile 1983, il sentore era che Zoff avrebbe smesso. Poi lui, in un’intervista dopo Atene, fece capire che forse avrebbe continuato. Allora io dissi: “O me o lui”. La sparai grossa, può darsi. Ma questo è il mio carattere. Spregiudicato, spaccone, un po’ presuntuoso. Ma se non sei così, muori».
Diciamo che il carattere ti è servito per resistere ai massimi livelli per molti anni: «Ho iniziato nel 1976 a Spoleto in Serie D ed ho chiuso al Genoa a trentotto anni, vincendo tutto. Ho giocato con fuoriclasse assoluti alla Juventus. Ho affrontato tutto il meglio del calcio mondiale di quegli anni: Zico, Maradona, Vialli, tanto per metterli un podio. Se penso ai portieri di oggi della Serie A, mi chiedo che cosa racconteranno».
Chi ti ha insegnato i segreti del ruolo? «Gino Merlo, al Livorno. Lo chiamavano il portiere ballerino. Un giorno mi prende e mi fa: Conosci il valzer? No, perché? Il valzer ti dà i tempi. Un, due, tre... e fai il movimento. Che lezione».
Quale è stata la più bella parata che hai fatto? «Ce ne sono tante. Dal mucchio prendo quella al novantesimo contro il Colonia nel ritorno della semifinale di Coppa Uefa 1990. Se entrava quel pallone, eravamo fuori. Tiro da dentro l’area, Brio che mi copre la visuale, io schizzo sulla sinistra e devio in angolo. Lì ho esultato come a Tokyo».
E tra le tante maglie indossate in bianconero, a quale sei più legato? «A tutte quelle con cui ho giocato le finali. A Basilea quella grigia me la prestò Zoff perché le mie avevano lo sponsor, mentre l’Uefa imponeva la divisa pulita. Mi è sempre piaciuto curare il look, molti dei modelli che ho portato li disegnavo io stesso».
È tua anche l’idea delle mezze maniche? «Io le mezze maniche me le mangio oggi a pranzo. Con un bel sugo ai peperoni».

1 commento:

graziasonaso1978 ha detto...

..i racconti sulla finale di tokio sono..strepitosi...cosi' come i racconti di tutto quello che avveniva all'interno dello spogliatoio..li adoro...