venerdì 24 maggio 2024

Massimo MAURO


«Settembre del 1984, mi telefona il presidente Viola e mi dice che vuole conoscermi. Pranzo a casa sua, il pomeriggio firmo un contratto di tre anni. Ma l’Udinese non sa niente e scoppia un casino inaudito. Nella trattativa si inserisce la Juve. Mazza mi chiama: “Qui c’è il contratto firmato con la Juve, se rifiuti vai dove vuoi”. E come si rifiuta la Juve? Incontro Boniperti e si informa sulla mia vita privata: capelli lunghi, fidanzata. Lo rassicuro e firmo. L’impatto con la Juventus è bellissimo. Trovo Cabrini, mio avversario diretto per cinque anni. Boniperti ci diceva: “Non mi interessa che siate amici, ma voglio che in campo vi rispettiate”. E se devo citare un esempio di serietà, di attaccamento alla maglia, di correttezza dico Brio e ovviamente Scirea».
Massimo Mauro alla prima stagione nella Juventus vince subito scudetto e Coppa Intercontinentale. È uno dei protagonisti del rinnovamento, della squadra che doveva essere sperimentale e che con il suo lungo sprint e qualche affanno mette in cassaforte il ventiduesimo titolo italiano. Trapattoni a Talamone, il suo feudo vacanza, nel luglio 1985, dice: «Mauro sarà importante. Lo aspetto come uomo cross, ma anche come prezioso elemento di raccordo. Le sue doti di palleggio sono note ormai, con lui e gli altri faremo un buon lavoro».
Mauro non arriva molto sul fondo a crossare, va detto, ma il lavoro di raccordo in questa Juventus che si è scoperta da sola, partita per partita, è via via più importante. Sulla destra della squadra, punto di riferimento costante, puntuale, importante, c’è sempre Mauro. Pronto a ricevere la palla, a difenderla, ad aspettare l’arrivo del compagno, a prendere tempo, a partire. Il fisico robusto lo rende non troppo veloce, ma alla carenza di sprint il bianconero supplisce con la padronanza del palleggio. I primi due anni sono molto positivi per Massimo, soprattutto il primo quando contribuisce con ottime prestazioni alla conquista dello scudetto e della Coppa Intercontinentale. Non segna tanto (solamente 7 reti nelle 150 partite disputate in bianconero), ma quasi tutti gol decisivi: come quello che spiana la strada al successo sulla Roma del 10 novembre ‘85 o la rete di apertura nella vittoria scudetto a Lecce dello stesso anno. Ancora il pareggio ad Avellino nella stagione successiva. «Preferivo l’assist al gol, anche perché quando mi avvicinavo alla porta questa si rimpiccioliva. Per questo mi veniva più facile mettere in condizione il mio compagno di tirare a rete. Quando sono arrivato a Torino mi hanno subito paragonato a Causio, ma io non avevo la velocità per essere un grandissimo in quel ruolo, avevo l’intelligenza per essere un buon giocatore».
La sua intelligenza tattica e le sue doti tecniche lo rendono un elemento quasi indispensabile. Poi, il rendimento cala, anche a causa di qualche problema fisico di troppo. Viene impiegato spesso come centrocampista centrale, avendo perso quasi del tutto lo spunto per saltare l’uomo.

LICIA GRANELLO, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 25 FEBBRAIO 1987
Massimo Mauro, o dell’equilibrio conquistato. Venticinque anni a maggio, calabrese, un padre perso quando ancora l’età adolescente richiede un modello sicuro, un traguardo ambitissimo – giocare nella Juventus – quando ancora la maggior parte dei suoi coetanei deve decidere del proprio futuro, Calciatore della nouvelle vague fra i più apprezzati per quel suo caracollare aggraziato sul campo, la palla trattata come un peluche delicato, i cross tesi ora tagliati, comunque assist godibili per i compagni dell’attacco. Eppure, come spesso succede per certi amori destinati a durare a lungo, l’inizio è meno travolgente di quanto sperato: così che l’avventura continua fra dubbi ed esaltazioni, fra riserve e certezze. Gianni Agnelli che sussurra all’orecchio di un illustre vicino di tribuna: «Non ho ancora capito di chi è questo Mauro». Trapattoni, neanche lui troppo incline alla bonarietà gratuita, che invece nei suoi confronti ha tutt’altra considerazione: «Quando è arrivato gli ho chiesto di sacrificarsi il più possibile, anche a costo di apparire meno bello di quanto sia in realtà. Avevo bisogno di un giocatore in grado di coprirmi una certa zona del campo, di portarmi avanti più palloni possibili, anche in condizioni tecniche e ambientali non ideali. Mi sembra che abbia risposto nel migliore dei modi a questo tipo di esigenza, e so che può ancora migliorare». Con Marchesi, l’esplosione.
Mauro non si è mai preoccupato troppo degli ondeggiamenti di giudizio. Schivo ma non timido, Sa raccontarsi con straordinaria tranquillità, senza mai essere banale, senza mai nascondersi. Avvolto in una tuta morbida e coloratissima parla di sé e del pianeta calcio, senza falsi pudori. «La Juventus per me è stato il realizzarsi di un sogno, forse anche qualcosa di più. Intendiamoci: io non ero uno di quelli che l’amava particolarmente, era la squadra che vinceva sempre, tutto lì. Lo so, al sud molta gente tifa per la squadra locale e poi per la Juventus, credo dipenda dalla voglia che uno ha di contare rispetto al calcio. Sicuramente in una discussione fra amici essere della Juventus conta più che tifare Palermo. È un atteggiamento che non condivido molto, io penso che si debba tifare per la squadra di dove si è nati... Per parte mia mi piaceva il Catanzaro e un po’ simpatizzavo per l’Inter, quella delle grandi vittorie. Ma tifoso accanito no, se il Catanzaro vinceva ero contento ma niente di più. Mio padre invece era un tifoso juventino. È mancato nove anni fa. Quando c’era lui si stava bene, lavorava come magazziniere alla Renault. Piccola borghesia? No so, dipende da cosa uno pretende di avere nella vita per essere contento. Dopo la sua morte qualche periodo di difficoltà l’abbiamo avuto. Mio fratello giocava in C2, mia sorella lavorava in banca, insomma ce la siamo cavata. A Catanzaro non torno spesso, giusto per vedere mia sorella, che si è sposata ed è rimasta là. E neanche a Udine, dove mio fratello lavora come ingegnere chimico. Non sono uno che si affeziona molto ai posti».
Il calciatore si piace. «Penso di aver fatto qualcosa in più di quello che dovevo. Dicono che non ho il dono della continuità. Io credo che giocare nei campionati, partita dopo partita, non sia possibile se l’allenatore pensa che tu sia uno da venti minuti a gara. Divertirmi col calcio? Il divertimento non è una cosa assoluta, può succederti in un certo periodo, con certi compagni, in una certa partita. Sicuramente ti diverti quando giochi da ragazzino. Ormai ci sono tali tensioni... Sono convinto che prima o poi il giocattolino scoppierà. Perché? Perché ci sono troppi giornali sportivi, perché il calcio non è più uno sport, non è più considerato un gioco da nessuno. L’Inghilterra, forse, è l’unico Paese che ci supera in quanto a violenza. Ma lì esistono dei presupposti diversi, sono le condizioni sociali a determinare il malcontento che si scarica nel calcio: anche la violenza è più facile da spiegare. Ma qui... Non capisco, non riesco a capire. Penso ai giornali sportivi: i quotidiani dovrebbero educare. Allora la colpa non è degli italiani, ma di chi li guida. Io nel calcio non ci sto stretto, ci sto e basta. Faccio il possibile per non aver rimorsi di coscienza. Io certe dichiarazioni non le faccio, ma se fossi un direttore, preferirei comunque non pubblicare certe cose, anche se mi costasse cinquantamila copie di vendita. Un buon direttore agirebbe così, a costo di censurare. Io alla stampa sportiva metterei il veto. Ognuno dice le cose che fanno più male, poi si fa il processo. Se non fosse per tutto il male che fa, sarebbe meglio di un film comico... Io una soluzione ce l’avrei. Potessi, darei un posto di lavoro a tutti e farei diventare il calcio uno sport dilettantistico. Lo so, lo so, è un sogno nel cassetto. Ma non ho solo quello: vorrei non farmi mai male e vincere ancora qualcosa con la Juventus’. Qualche giornalista direbbe che non voglio farmi male perché ho paura del dolore. Magari è anche vero, ma non c’entra niente con quello che uno fa in partita, mica lo stabilisci prima se ti fai male o no. Il mio modello – ghigno amaro – uffa, mi tocca inventarmene uno, come ho sempre fatto. Perché se dici che non hai neanche un modello ti guardano storto. Posso dire chi mi piaceva quando ero piccolo: Picchi e Burgnich, mi sembrava che ci mettessero qualcosa in più. Come nella Juventus Brio. Non so come fa: non ha una gran classe, eppure con lui non passa nessuno, ha una voglia, una grinta, per me è fortissimo. La Nazionale? Non ho un’idea ben precisa. Sono stato incluso nei probabili olimpici da Zoff. Io sono un ottimista, uno che sta bene, che è contento, non ho invidie e negli altri patisco solo le non verità. E non penso al domani: se ci penso mi vedo arbitro, bravo come Lanese. Oppure giornalista, ma a modo mio, senza un direttore, bravo come Gianni Mura o come Tony Capuozzo».

Il secondo anno di Marchesi è un vero calvario, sia per Mauro che per la Juve: «Ho vissuto un anno davvero bruttissimo. Lo dico come giocatore della Juventus prima che come Massimo Mauro. Una stagione infelice, dove abbiamo fallito tutti i traguardi che ci eravamo prefissi all’inizio. E dove l’unico obbiettivo raggiunto (il posto in Coppa Uefa dopo lo spareggio col Torino ndr) è arrivato con una “coda” che non ci eravamo certo augurati. Poi c’è l’infelicità mia, personale. L’anno scorso andava tutto bene, l’allenatore mi stimava. Ero addirittura stato considerato il più bravo. Che cosa sia successo, proprio non lo so. Qualsiasi altro allenatore, con quella stagione alle spalle, non avrebbe creato problemi. E invece è successo qualcosa ed è cambiato tutto. Che cosa? Ah, chi lo sa... Non posso mica diventare scemo per cercare di interpretare il comportamento degli altri. Certo è che non ho passato dei mesi tranquilli. Sapevo di non essere diventato un brocco di colpo. Con l’Olimpica continuavo a giocare bene, anche molto bene. E a giocare male, molto male con la Juventus. Da fuori è facile dire: se sei bravo, fregatene di quello che pensa il mondo. Ma questa è retorica bella e buona. Sapere di non essere stimato dal tuo allenatore, e non capire il perché, beh, quando vai in campo non te lo dimentichi, ce l’hai sempre dentro. Comunque non ho fatto cose pazze. Ho avuto una sola reazione negativa, nella partita col Milan. E non sono certo andato a lamentarmi dal presidente Boniperti. Ma si sbaglia chi pensa che fosse una questione personale fra me e il tecnico. Direi che la situazione di malessere era generale. Perché abbiamo giocato spesso tanto male? È una domanda che mi sono fatto mille volte e, con me, i miei compagni di squadra. Non voglio certo dare tutte le colpe all’allenatore. Però il responsabile tecnico della squadra era lui... Diciamo intanto che non siamo mai riusciti a giocare con la stessa formazione per un periodo sufficiente. Ci sono state le squalifiche, gli infortuni. E decisioni varie sull’assetto della Juventus. Io ho sempre pensato che la vera forza stesse nel blocco. Undici-dodici giocatori, sempre gli stessi a reggere il peso della stagione. E invece, tutto è diventato troppo complicato, troppo faticoso. Quando esiste una situazione di disagio diffuso, ogni giustificazione è buona per spiegare o per tentare di farlo: gli allenamenti poco rigorosi, l’errata disposizione tattica. Tanto, hai l’impressione che comunque faccia, sei destinato a sbagliare. La mia opinione? La Juventus quest’anno non è stata guidata da grande squadra, ma come una formazione anonima. È vero, in qualche modo l’abbiamo rimediata. A fine stagione i giocatori importanti della squadra si sono messi a giocar bene. Ma è stato un caso, non puoi decidere prima quando e come farlo, naturalmente. Quando ho saputo che il nostro nuovo tecnico sarebbe stato Zoff sono stato contentissimo. La prima cosa che ho pensato è stata: mi allena uno che crede in me, nelle mie capacità. E la seconda è stata: finalmente si tornerà a vedere la Juve di sempre, quella che ho imparato a conoscere e stimare quand’ero ancora un ragazzino e poi quando sono arrivato a Torino. Quest’anno non era la vera Juve, era una squadra molle, una squadra che poteva perdere su tutti i campi, neanche faceva notizia quando succedeva. Incredibile. Io conoscevo una squadra che per giocarci contro e sperare di vincere dovevi fare il triplo e ancora non bastava... Perché tutti dicono: lo stile Juventus è la camicia con cravatta. Non hanno capito niente: stile Juventus vuol dire: duri a morire. E invece nell’ultimo campionato abbiamo perso delle partite in modo indecoroso, neppure noi capivamo come si potesse giocare così male, senza avere niente dentro. Da questo punto di vista, l’arrivo di Zoff rappresenta una garanzia. Sono sicuro che con lui certe giornate di vuoto assoluto non capiteranno più».

VLADIMIRO CAMINITI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL FEBBRAIO 1989
L’esterofilia che sembrerebbe privarci perfino del ragionamento, aveva, or non è molto, destinato Massimo Mauro, ovvero il Massimo dei pedatori quanto ad originalità, alla panchina. I tre fuoriclasse stranieri della squadra lo chiudevano, impedendogli non dico di respirare (infatti, continuava a essere molto dialettico nei dialoghi con i cronisti) ma di credere nel futuro. Nonostante il conforto del contratto, Mauro sembrava definitivamente fuori, escluso, depennato e via continuando. I fatti hanno dimostrato il contrario. Mauro ha riconquistato la maglia di titolare ed ha assunto in campo la posizione che oggi gli è più congeniale, di center half offensivo, di punto di riferimento.
Chi vorrebbe paragonare Mauro, come tornante, a quel grandioso ineguagliato tornante che fu Causio, si troverebbe in minoranza; no, Mauro come tornante non ha eguagliato il maestro. È stato sicuramente eccezionale ma nella discontinuità, ha avuto momenti creativi propri del suo repertorio ma cadenza di scatto e potenza di cross fanno preferire Causio, che modellava la sua partita all’insegna di uno scoppiettante talento estroso. Il tornante Mauro riesce per parte sua a chiudere l’azione col cross da gol, ma più sporadicamente; e anela di conquistare zone centrali dalle quali sbrigliare il suo talento costruttivo.
Ben conoscendolo, Dinosauro Zoff ha aspettato che il suo pupillo si scaldasse abbastanza in panchina, prima di rilanciarlo. E la Juve ha trovato un giocatore d’ordine dalle caratteristiche native che lo portano a meditare l’assist per riassumere in esso il massimo dell’intelligenza tattica. Intelligenza tattica e squisitezza tecnica di piede fanno di Mauro il quarto effettivo grande straniero dell’attacco, se così ci vogliamo esprimere; e sempre che la nostra esterofilia non ci chiuda gli occhi definitivamente, anche per l’anagrafe Mauro è destinato a rendere ancora grossissimi, luminosi servizi alla sua Juventus. Anche se arriveranno altri mostri stranieri in una Juve sempre più competitiva, come ha sottolineato anche l’Avvocato, andando verso il Novanta? Il problema è credere in giocatori come Mauro, imprescindibili da società come la Juventus. Con il destino di avere il massimo in tutto.

Massimo lascia la Juventus nell’estate del 1989. Destinazione Napoli, dove incontrerà il terzo genio della sua carriera: dopo Zico («umiltà, ragionamento e classe, un modello di bravura e di dedizione, un giocatore universale»), Michel Platini («furbo e intelligente, un uomo squadra che creava il gruppo e lo rendeva unito») ecco Diego Armando Maradona («è stato il calcio e lo trasformava in poesia, nel teatro di ogni meraviglia possibile»).
Persona molto intelligente, quello che ha dentro lo racconta a cuore aperto: «Non è un mondo facile, quello del calcio: ti stressa, ti violenta, ti impone gente che non conosci, cerca di importi giochi che non vorresti giocare, e devi stare attento, è facile sbagliare. Se gratti via la superficie è un mondo non più dorato ma difficile, ti devi difendere se ti piace giocare, fare carriera, divertirti in campo. Che poi, a pensarci bene, io mi divertirei solo con undici amici in piazza; alla domenica non sono spensierato, voglio vincere. Sono così, anche da bambino, giocavo alle biglie, spesso vincevo, quando non capitava diventavo una belva, non scherzo. Nel calcio italiano ti diverti se vinci, hai mille responsabilità addosso, se quando giochi pensi a troppe cose meglio starsene in spogliatoio: il segreto del calciatore è riuscire a isolarsi, per poi entrare dentro, e vincere, e basta. Mondo strano, dicevo, che ha molti lati negativi e molti positivi. La cosa più stupida sono le pagelle con i voti, ma le guardiamo tutti, io per primo, e magari ci rimaniamo male. C’è altro, sì c’è anche altro, a volte compagni che non capisco, a volte un po’ di malinconia. Ma fa parte del gioco, come fa parte del gioco questo giro di trattative, di voci. Io non mi sento carne da macello, se parlano di soldi e di quanto valgo: bene, se mi pagano tanto vorrà dire che guadagnerò di più, io sono entrato nel meccanismo, ho deciso di fare questo mestiere, chi si lamenta e non ama la parola mercato, perché non lo dice chiaro e non fa un’altra cosa?».
Nel 1993, a soli trentuno anni, l’improvviso ritiro: «Avevo un problema serio alla schiena, me lo portavo dietro da quando ero bambino. Per fortuna sono sempre riuscito a nasconderlo, ma che mi impediva di giocare come volevo e potevo. Inoltre, mi ero accorto di essermi stancato dei ritiri e degli allenamenti. Se ho rimpianti? Quello di decidere di andare via dalla Juve. Ma un conto era giocarsi il posto con Platini e Vignola, un altro con Rui Barros, Zavarov e Magrin».

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