venerdì 12 maggio 2023

Massimo BRIASCHI



Ha detto seccamente ma anche educatamente «No grazie!» alla Lazio – scrive Massimo Burzio su “Hurrà Juventus” del settembre 1984 sperava nella Fiorentina e come «in un sogno» ecco la Juventus. Massimo Briaschi era persino disposto a restare un anno in serie B, al Genoa, pur di fare ciò che voleva. Per preveggenza, per un caso o grazie a qualche buon consiglio? Chissà? Fatto sta che il vicentino ha resistito agli «assalti» di Giorgio Chinaglia e contemporaneamente, complici le folli pretese economiche di Bruno Giordano, si è ritrovato di colpo a vestire la maglia bianconera.
Ancora oggi, mentre l’estate e i «botti» del calcio-mercato paiono ormai lontanissimi, Briaschi continua a ripetere con aria soddisfatta: «È come uno di quei sogni che sai non si potranno mai realizzare e di colpo, invece, diventano realtà. Ammette d’avere avuto una fortuna sfacciata e d’aver rischiato. Ho rifiutato la Lazio perché volevo una sistemazione migliore ma potevo anche rimanere in serie B e magari perdere l’autobus del grande calcio. Ho, forse, aiutato il destino perché puntavo in alto. Sono bianconero cioè ho raggiunto quella che è la migliore società d’Italia e forse di tutto il mondo».
Briaschi è stato «baciato dalla sorte» per molte ragioni ma non si sente un ripiego: «So che la Juventus mi aveva già cercato nello scorso anno e quindi aveva dovuto scegliere Penzo. Poi c’è stato “l’affare” Giordano e tutti i problemi che sono nati in quel momento. Però non posso e non voglio farmi condizionare dal “fantasma” di chi non è venuto alla Juventus. Sono qui per fare il mio dovere, per far bene. Sono un professionista e so come dovrò comportarmi sia in campo che fuori».
Briaschi è certo di poter sfondare e non ha neppure dubbi sulla possibilità di formare con Rossi un buon tandem d’attacco: «Io e Paolo abbiamo già giocato assieme, dal 76-77 al 78-79. In totale, allora ero una riserva, scendemmo in campo per 26 volte e non vi furono problemi. Oltretutto siamo anche molto legati. Le nostre mogli, Arianna e Simonetta, erano addirittura compagne di classe. A Vicenza ci frequentammo spesso e con il passare degli anni abbiamo sempre cercato di passare le vacanze assieme. Lo scorso luglio, ad esempio, eravamo in Sicilia... È stato bello festeggiare il mio arrivo alla Juventus e darsi l’arrivederci a Torino. Ma al di là della nostra amicizia – prosegue Briaschi – sono certo che in campo potremo integrarci senza difficoltà. Siamo tutti e due rapidi, amiamo gli scambi di prima e alla poca potenza possiamo supplire con la rapidità. Paolo è un fuoriclasse con cui non puoi che giocar bene... E che dire di Platini e Boniek? Insomma non ho dubbi!».
Torino non è Genova e il Comunale non è Marassi. I tifosi hanno il «palato» fine, sono estremamente esigenti: «Ed io – afferma Massimo – farò di tutto per accontentarli. Questa è la mia grande occasione, non posso sprecarla. Mi metterò al servizio della squadra ma non dimenticherò certo che far gol è il mio mestiere... E poi ci penserà il Mister Trapattoni a dirmi quale posizione dovrò assumere».
Ma chi è Massimo Briaschi lontano dai campi di gioco? «Un ragazzo normalissimo. Sono nato il 12 maggio del 1958 a Lugo di Vicenza. Mi sono sposato nel 1981 ma per ora non abbiamo figli. Arianna ed io abbiamo molti hobby in comune. Ci affascinano le automobili anche se siamo dei piloti molto prudenti e quando è possibile ci mettiamo a scattar fotografie, soprattutto a paesaggi e bambini. Per quanto riguarda gli studi – dice Briaschi – ho smesso dopo il diploma di geometra. Avevo fatto un pensierino sulla facoltà di architettura ma ho troppo poco tempo per fare le cose seriamente. Mi piace stare in casa, ascoltare un po’ di musica leggera, preferibilmente quella italiana e guardare la televisione. Ogni tanto esco a cena ma anche a tavola non ho gusti “strani”: carne, pesce e verdura e basta».
Briaschi, come si vede, non è un divo, ma un professionista all’antica... un giocatore di quelli che la Juve sa esaltare e se ancora è possibile addirittura migliorare... E il campo lo sta dimostrando.  

MASSIMO BURZIO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’AGOSTO 1988
In tre anni (dal 1984 al 1987) ha vinto quello che altri calciatori neppure riescono a sfiorare in tutta una carriera. Un palmarès esaltante, quasi unico nella storia del calcio tanto è concentrato e meritato, non fosse altro per il prezzo pagato da Briaschi. A ogni vittoria, infatti, si è accompagnato un infortunio e a ogni faticosa convalescenza un ulteriore incidente e il relativo, faticoso, recupero.
Se, quindi, Briaschi ha avuto molto dal calcio, altrettanto ha dato in termini di sfortuna e soprattutto ogni vittoria è stata duramente ridimensionata da incidenti assortiti.
Così Briaschi non ha potuto lasciare nella storia juventina una traccia maggiore di quella abitualmente concessa a coloro che da comprimari contribuiscono al successo finale.
Poteva, però, essere un leader, il bravo Massimo. Poteva e voleva dare di più e non lasciare la Juventus in silenzio, quasi in punta di piedi e con la certezza di essere assai poco rimpianto dai tifosi.
E neppure al Genoa, dove Briaschi si è trasferito dalla scorsa estate, c’è stato quell’atteso quanto oramai sempre più desiderato, ritorno ai livelli di rendimento accettabili.
Oggi c’è soprattutto da augurare a Briaschi un futuro migliore del recente passato; e cioè un futuro che permetta al buon Massimo di ritrovare quella forza e quella grinta che il fisico ritrovato nella sua efficienza gli permetterebbe nuovamente di mettere in mostra, ma che probabilmente sono frenate e coperte da strane remore psicologiche.
Briaschi, forse, è quindi da recuperare nel morale più che atleticamente. L’augurio è quello di farcela a tornare quello di un tempo. Un tempo, oltretutto, neppure troppo lontano.
Nato il 12 maggio del 1958 a Lugo di Vicenza, Massimo Briaschi inizia a giocare a calcio nelle giovanili del Vicenza. In maglia biancorossa si conquista presto il nome di nuovo Rossi e molti pronosticano una carriera anche migliore (squalifica a parte, ovviamente) di quella del Pablito nazionale che a Vicenza aveva ed ha ancora oggi più di un amico ed estimatore.
Dal 1975 al 1981 Briaschi entra nei ranghi della prima squadra del Vicenza. Punta abile sia sulle fasce sia al centro dell’attacco, buon rapinatore d’area dal tiro secco e bruciante, Briaschi si fa valere anche nel gioco aereo nonostante non sia dei più alti. Il fisico è ottimamente costruito, armonico, con leve proporzionate e adatte sia allo scatto breve sia alla corsa lunga.
Il periodo vicentino di Briaschi termina nel 1981 quando è trasferito a Genova. Briaschi ritrova il rossoblu, lo stesso colore che aveva vestito con il Cagliari, in una breve parentesi nel 1979-80.
Nel Genoa, Briaschi mostra ancora molte qualità, ma soprattutto diviene ciclicamente l’uomo del mercato estivo. Sono molte, infatti, le società che cercano di assicurarsi il bravo Massimo.
Alla fine ci riesce la Juventus che nel 1984 chiama Max alla sua corte. Intanto Briaschi è diventato titolare della Nazionale Olimpica che a Los Angeles conquista un 4° posto di assoluto prestigio (e, certamente, il piazzamento avrebbe potuto essere migliore se l’avventura olimpica fosse stata intesa da tutta la squadra azzurra con uno spirito meno turistico). Così Briaschi a causa degli impegni azzurri arriva alla Juve a preparazione già iniziata.
Ricordo di essere stato tra i primi a intervistarlo e ancora mi viene in mente quella sua concreta umiltà, che subito lo fece apprezzare da Trapattoni e dai compagni.
Diceva, infatti, Massimo: «Vada come vada. Alla Juve sono per imparare e soprattutto sono convinto di essere arrivato al top della mia professione».
Molti, come detto, gli infortuni: addirittura a Bruxelles, contro il Liverpool, gioca con un ginocchio che in altri momenti sarebbe immediatamente da operare. Ma Briaschi stringe i denti e scende in campo. Così avviene in tante altre occasioni.
Il rendimento, inizialmente scintillante, cala sempre di più. Briaschi conosce la panchina, la accetta in silenzio e con disciplina. Quando scende in campo, ormai, il pubblico accompagna ogni sua giocata con un boato di disapprovazione.
Il giocattolo si è rotto. È tempo di andare via, anche perché la Juve cerca ed ha cercato altre strade in attacco. Per Briaschi di nuovo illusioni e molta, cruda e spietata, realtà. 

NICOLA CALZARETTA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL LUGLIO-AGOSTO 2011
Massimo Briaschi oggi ha 53 anni e di mestiere fa l’agente di calciatori. Il nazionale del Napoli Christian Maggio e la giovanissima promessa Amidu Salifu della Fiorentina sono i suoi fiori all’occhiello.
Vicentino di nascita e di formazione calcistica, Briaschi nel 1984 fu acquistato dalla Juventus in cerca di una seconda punta da affiancare a Paolo Rossi. Piccolo, guizzante e rapidissimo nel breve, Massimo ha scritto pagine importanti in maglia bianconera. Non solo gol per Briaschi, ma anche sponde vincenti e assist decisivi.
Tre stagioni a Torino, uno scudetto, la Supercoppa Europea, la Coppa Campioni e la prima Intercontinentale a Tokyo. 84 le presenze complessive e 29 i gol, tre dei quali alla sua prima partita ufficiale con la Juventus, il 22 agosto 1984, contro il Palermo in Coppa Italia. Una partenza boom.
– Che ricordo conservi di quell’eccezionale debutto? «Una grande tensione fino a un minuto prima dell’inizio. Sai, era la mia prima volta al Comunale. Giocavo nella squadra più importante al mondo. Non ero abituato a certe emozioni, in fondo venivo dalla provincia. E non ero un grandissimo».
– Insomma sentivi di dover dimostrare qualcosa al pubblico. «In un certo senso sì, anche se venivo da due stagioni molto positive con il Genoa e il mio nome era conosciuto. Ma sai, alla Juve era un altro mondo».
 A proposito, com’è nato il tuo passaggio in bianconero? «La storia è stata un po’ rocambolesca. Mi volevano diverse squadre. Il Genoa aveva chiuso con la Lazio, ma dissi di no, rinunciando a molti soldi. A un certo punto arrivò anche una proposta del Torino, che rifiutai. Nel frattempo, per mia fortuna, saltò l’affare tra la Juventus e Giordano».
 Come hai saputo del trasferimento a Torino? «Ero in vacanza a Ischia con la famiglia. Mi chiama il presidente del Genoa. “È fatta, stai tranquillo”. Ma ormai io non ci credevo più. Ero convinto che sarei rimasto a Genova. E mi rodeva. Poi all’improvviso, ecco la telefonata di Boniperti. All’inizio pensai a uno scherzo. Ricordo che gli dissi: “Sono a mille chilometri di distanza, ma se vuole parto anche adesso a piedi!”. A 26 anni coronavo il mio sogno di indossare la maglia della squadra per cui tifavo».
 Il primo impatto con Boniperti? «È avvenuto due giorni dopo la telefonata. Prima di andare da lui, su consiglio del direttore sportivo Francesco Morini, ero passato dal parrucchiere per dare una spuntatina ai capelli. Ma non bastò: la prima cosa che mi disse fu di tornare dal barbiere».
 E la seconda? «Aggiunse: “Ricordati che qui alla Juve se arrivi secondo hai perso”. Poi, tempo quattro minuti, ho firmato il contratto. Ero al settimo cielo, anche se c’era una cosa che mi tormentava. Ero tra i convocati della Nazionale Olimpica per i giochi di Los Angeles, ma sinceramente io non ci sarei voluto andare. Fu Trapattoni a togliermi ogni dubbio. Mi parlò della sua esperienza nel 1960 e, soprattutto, mi tranquillizzò dicendomi che per lui ero uno dei titolari e che non avrei dovuto temere nulla».
 Un attestato di fiducia fondamentale per un nuovo acquisto. «Devo dire che alla Juve mi sono sentito subito uno di casa. I compagni sono stati fantastici, specialmente i big».
 Bene, possiamo tornare a quel 22 agosto 1984: tre gol in meno di un’ora e l’esame pubblico è superato a pieni voti. «È andata benissimo. Ricordo che per ben due volte sono finito anch’io dentro la rete insieme al pallone. Una serata fantastica, anche se giocare in quella squadra lì per un attaccante era facile. Con gente come Platini, Boniek, Tardelli, Scirea, bastava sapersi smarcare che, prima o poi, la palla giusta ti arrivava».
 Hai qualche ricordo personale di Platini? «La cosa più bella successe quella volta che mi prestò la sua Ferrari. Era una domenica ed io ero squalificato. Ho sempre avuto la passione per le automobili e chiesi a Michel di prestarmi la Rossa per andare a Milano a vedere una partita. Mi disse, vai a casa mia, suona e dì a mia moglie di darti le chiavi. A parte il fatto che non aveva detto niente a sua moglie, la cosa triste fu che venne giù un acquazzone terribile. Feci Torino-Milano a 45 chilometri all’ora. Con la Ferrari di Michel».
 Tre anni di Juve: molte vittorie, ma anche momenti dolorosi, come l’infortunio al ginocchio contro il Bordeaux. «L’entrata di Girard fu cattiva. E pensare che pochi minuti prima il Trap mi aveva chiesto di uscire. Il ginocchio non si gonfiò subito, giocai anche la domenica successiva. Poi più niente fino alla finale dell’Heysel».
 Già l’Heysel: una serata maledetta. «E pensa che io pur di giocare feci 7-8 infiltrazioni. Comunque vorrei chiarire due cose: la prima è che noi abbiamo saputo in albergo la vera entità di quello che era accaduto. La seconda è che siamo usciti con la coppa e siamo andati verso i tifosi, per motivi di sicurezza ci era stato detto di andare sotto la curva».
 Nel 1987 dici addio alla Juve e pochi anni dopo chiudi la carriera, hai qualche rimpianto? «L’infortunio che mi ha tagliato le gambe, fino a quel momento ero uno dei titolari della Juve. Altro rimpianto è non aver indossato la maglia della Nazionale maggiore. Davanti a me in quegli anni c’era Galderisi. Ci sarei potuto stare anch’io».

1 commento:

  1. Finalmente qualcuno che riparla di Briaschi. Io di lui ricordo anche uno dei più bei goal mai visti in vita mia, peccato non fosse in una partita ufficiale. Era la partita di addio di qualcuno, non so se proprio di Michel Platini o forse quella di Tardelli. UNa mezza giravolta dall'incrocio delle righe dell'area di rigore e palla dritta nel set, uno spettacolo. Fosse stato fatto in una partita di campionato o coppa lo rivedrremmo ancora oggi. Io però lo ricordo ancora. Luca da Torino (uno che di Juve ne sa abbastanza, dal '76 in poi)

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