Parco Stromovka è il suo campo preferito, i compagni di quartiere gli avversari più indomiti. Čestmír è un ragazzotto biondo e paffutello che trascorre interminabili ore nel cortile di casa a incantare compagni e avversari; palleggia col piede destro e col mancino fino all’esasperazione. Papà Premsyl, tifoso del grandissimo Slavia Praga lo costringe a seguirlo ogni domenica allo stadio Spartan e Čestmír comincia ad accarezzare sogni di grandezza calcistica.
La strada non è facile: papà Premsyl vede in Cesto un futuro campione, mentre mamma Jarmila, invece, pretende la massima dedizione allo studio: «Ti dedicherai al pallone – gli impone – solo dopo aver superato l’Accademia Commerciale». Čestmír supera ogni anno a pieni voti le classi del ginnasio e quelle dell’Accademia Commerciale e, a diciassette anni, si ritrova con il diploma e il lasciapassare dei dirigenti dello Slavia per giocare in prima squadra.
Ma, dietro l’angolo, c’è la guerra con i suoi orrori; Cesto è internato nel lager nazista di Dachau: «Nell’ottobre del 1944 ero uno scheletro vivente con una casacca a righe, che stringeva il filo spinato di un orrendo campo di concentramento nazista, quello di Dachau. Solo chi c’è entrato può sapere quanto sia stato difficile, quasi miracoloso uscirne. In quel campo, Hitler rinchiudeva i nemici della sua follia: ebrei, antinazisti, cittadini degli stati invasi dalla croce uncinata. Ed io sono cecoslovacco di Praga, dunque un nemico. Vi passai otto mesi di sofferenze inaudite, di privazioni enormi; una buccia di patata, ogni due giorni, mi pareva un tesoro inestimabile. Solo chi è passato attraverso queste esperienze, ripeto, può capire che valore ha la vita e non impressionarsi più di nulla».
Čestmír ritorna a fare meraviglie nello Slavia e i tecnici lo vogliono nella rappresentativa boema. Assomiglia molto, come tipo di gioco, al grande Giovanni Ferrari: ha una tecnica di primo ordine, gli occhi sempre sul campo e mai sulla palla, un ottimo controllo della stessa, una notevole visione di gioco e la capacità di valutare tutte le situazioni tattiche per comportarsi di conseguenza. Quando si avvicina all’area di rigore, può diventare pericolosissimo per il portiere avversario, perché Cesto sa tirare molto bene, con traiettorie precise e potenti. Allo Spartan è ospite la fortissima Jugoslavia; la partita si rivela un’epica battaglia fra autentici giganti. Finisce 1-1 per merito di Čestmír che, di testa, realizza uno splendido goal.
La via della Nazionale è spianata; Vycpálek vi resterà per sette anni: «C’era l’entusiasmo e l’ardore dei vent’anni; era il periodo in cui ci si doveva battere per vincere, anche nello sport. E non era facile. La sconfitta più dolorosa la patii a Parigi; perdemmo 3-0 e per giorni, noi della Nazionale non avemmo pace. Fortunatamente, lo Slavia ripagava gli sportivi con partite e vittorie memorabili. Sono stato sei volte campione, dal 1939 al 1945. Allora mi sentivo un leone, ma erano altri tempi; il calcio era solo sport, diletto, passione».
L’allora segretario della Juventus, Artino, e un certo signor Foresto, grande esportatore di vini piemontesi a Praga, che gestisce anche un avviatissimo night, mette gli occhi sulla coppia dello Slavia: Vycpálek e Korostelev. L’offerta è allettante; stipendio da sgranare gli occhi, un annetto in Italia in riva al Po, quindi ritorno a Praga. Breve consultazione con la dolce Hana, che intanto Cesto ha condotto all’altare, e partenza per l’Italia.
Cesto esordisce in bianconero contro il Milan, il 6 ottobre 1946. Il presidente juventino è Piero Dusio, l’allenatore Cesarini. Nella formazione rossonera militano campioni come Tognon, Gimona, Annovazzi, Puricelli e Carapellese. Il Milan parte all’attacco e passa in vantaggio di due goal, marcatori Annovazzi e Tosolini. Ma, prima del riposo, un perfetto passaggio di Cesto a Candiani consente alla Juventus di accorciare le distanze. All’inizio della ripresa, però, Gimona realizza il terzo goal per il Milan. Juventus decisissima a rimontare con un Vycpálek in grande evidenza, sempre assecondato dal compagno Korostelev, velocissimo sulla fascia sinistra. Alla mezzora Korostelev effettua un cross, Piola opera un perfetto assist di testa per Cesto che mette in rete. Cinque minuti dopo, sullo slancio, Magni sigla il goal del 3-3.
Vycpálek ricorda con grande nostalgia quel suo campionato: «Eravamo una grossa squadra, una pattuglia di amici ed anche di grandi calciatori. Il tasso tecnico di tutti era elevato. Prova ne sia che la Juventus tenne testa, per quasi tutto il campionato, a una formazione eccezionale come quella del Grande Torino: i granata vinsero lo scudetto, ma noi finimmo al secondo posto, precedendo uno strepitoso Modena, il Milan e il Bologna».
Vycpálek resta bianconero solamente quella stagione, dove totalizzerà ventisette presenze con cinque goal. Il trasferimento a Palermo vede la definitiva consacrazione di Vycpálek come giocatore, e diventa l’idolo della Favorita. In Sicilia nasce anche il figlio, Cestino, che perirà tragicamente nell’incidente aereo di Punta Raisi: «Il presidente Agnelli mi cedette al Palermo per devozione: lui e il principe Lanza, presidente del club rosanero, erano grandi amici ed io ci andai di mezzo. Considerai quel trasferimento l’ennesimo scherzo del destino, non potevo certo immaginare che, a Palermo, cominciava la mia vera carriera di giocatore».
Armando Correnti, ex portiere, nonché osservatore della Juventus, lo conosceva bene: «Conobbi Cesto alla Favorita in un pomeriggio di sole; era rimasto in campo, per perfezionare ancora di più la sua tecnica. Io giocavo nel Siracusa, in Serie B, ed ero nel pieno di una più che onesta carriera, ma lui era un’altra cosa: lui era un vero fuoriclasse. Cesto fece grande il Palermo da giocatore, ma gli regalò anche una travolgente promozione da allenatore».
Ventiquattro anni nella cornice incantevole della Conca d’Oro, le tiepide, profumate sere trascorse sulla spiaggia di Mondello, il dialetto dolce ed esotico del siculo boemo, sono i ricordi più belli del suo lungo soggiorno siciliano. Nell’estate del 1952 torna al Nord portando Mondello e la Sicilia nel cuore. A Parma, sua città di destinazione, chiude la carriera giocando addirittura più stagioni, più partite e più goal: sei contro cinque, 151 presenze contro 143, ventotto gol contro ventitré. Il Parma di allora era una squadra che faticava a sopravvivere, sia in Serie C sia in B. Cesto contribuì a una storica promozione in B nel 1954 che ancora oggi, a Parma, ricordano come la prima grande impresa del dopoguerra. Quel Parma era guidato da un presidente, Agnetti, detto lacrima facile per i suoi accorati appelli. «Vissi a Parma un periodo bello e sereno. Abitavo in Via Villa, in fondo a Viale Solferino, frequentavo il bar Garden in centro. Quattrini? Pochi. Un giorno, nella mega festa di Villa Bocchialini, il presidente mi regalò un prosciutto. Me lo misi sottobraccio incurante di rovinare la giacca».
Vycpálek inizia la carriera di allenatore nel 1958 a Palermo, città in cui si fece in seguito raggiungere dalla sua famiglia dopo l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dell’Armata Rossa, durante la Primavera di Praga. Il Palermo ottiene il secondo posto nel campionato di Serie B e viene promosso nella massima serie. La stagione successiva non è molto felice e viene esonerato il 15 maggio 1960, poco ore prima dell’inizio di Inter-Palermo, per decisione del segretario Totò Vilardo. Dopo il Palermo, guida altre squadre minori, tra cui Siracusa, Valdagno e Juve Bagheria. Nell’estate del 1970 si trasferisce a Mazara del Vallo, cittadina siciliana nella quale gioca l’omonima squadra di Serie D. Nel dicembre del 1970, il Mazara è sconfitto in casa dalla Nuova Igea e Cesto viene mandato via quasi a furor di popolo.
Da Torino squilla il telefono: la Juve, primo amore, non si può scordare. Cesto ritrova gli amici di un tempo, ricomincia da capo, ma questa volta da allenatore del settore giovanile, per insegnare l’arte della pedata agli allievi che hanno i suoi stessi sogni di un tempo. Nella stagione 1970-71 la Juventus assume come allenatore Armando Picchi: ma l’ex libero dell’Inter, dopo pochi mesi di lavoro, è costretto ad abbandonare a causa di un male incurabile. Boniperti si guarda intorno e non dimentica il vecchio amico con il quale aveva giocato nella stagione 1946-47 e che si stava occupando del settore giovanile bianconero.
Cesto prende le redini della prima squadra e ottiene risultati grandiosi. Dopo il quarto posto di quella stagione, il 1971-72 è l’anno di Cesto il boemo. Una stagione che vale una vita, un romanzo a puntate con dentro un po’ di tutto. Con il giovane Bettega nei panni dello stoccatore e il vecchio Salvadore a fare il guardiano del forte, Cesto allestisce una squadra spettacolare quando serve e molto, molto concreta quando conta solo il risultato. Quando poi Bettega si ferma per un serio malanno, l’allenatore boemo convince Haller a fare la seconda punta al fianco di Anastasi e questo è il suo capolavoro tattico.
Juventus campione, un punto in più del Torino risorto, del Milan e del Cagliari. L’anno dopo, il bis ancora più eclatante, con Zoff in porta e Altafini uomo della provvidenza. Sensazionale, perché abbinato alla prima, seria cavalcata europea dei bianconeri, che giungono ad un passo dalla Coppa dei Campioni. Vycpálek, primo allenatore dei tempi moderni eppure antico nel suo modo molto romantico di intendere il calcio, dopo aver sfiorato il tris, beffato dalla Lazio di un altro tipo saggio come lui, Maestrelli, cede il posto a Carlo Parola e si rende ancora utile come osservatore.
VLADIMIRO CAMINITI
In pochi mesi di Palermo, Čestmír di Praga diventò Cesto, si fece largo da stretto e giocava con paciosa serenità, esprimendo grazia tecnica e rotondità di anca. Prima di lui al Palermo le mezzeali arronzavano, non avevano dimestichezza con la classe, non avevano garbo, non avevano cultura. Facevano tutto presto e male. Cesto sapeva fare bene e con comodo, per il godimento della plebe, tutti dovendosi beare del suo gioco danzato, stile Slavia di Praga. Da Praga, appunto, arrivava, anzi da Torino, dopo un campionato alla Juventus in compagnia dell’ala sinistra di Bratislava Korostelev detto costoletta, uno sempre affamato, anche di goal; da Praga via Dachau, otto mesi di campo di concentramento ansimando in attesa della fine, negli occhi la fame trista di quando si è persa la dignità per le malvagità del prossimo.
Appena finita la guerra, la Juventus cercava una mezzala e un’ala, le frontiere erano state aperte all’assemblea straordinaria delle società di Firenze nel maggio quarantasei, così (contrattati dal segretario bianconero Secondo Ardilo) sbarcarono a Torino questi due torni, Vycpálek con le guance essiccate sotto un cappellone, Korostelev meglio in arnese e deciso a fare grandissimi goal pur di mangiare e divertirsi. E cominciarono, infatti, a mangiare; pranzi che cominciavano e non finivano; cambiando ristorante due volte al dì; poi riprendendo a mangiare in pensione; e in campo ringraziando a suon di goal, Vycpálek, quel campionato alla Juve, segnò cinque volte, Korostelev quindici, a ogni goal Čestmír produceva lo scatto più interessante della partita e andava a congratularsi, abbracciando lo spilungone con molta effusione, dandogli appuntamento al ristorante per un’altra colossale sbafata.
Dopo pochi mesi di Palermo oltre a diventare Cesto diventò anche uno dei padroni effettivi della città, pesce carne e ogni vettovaglia gli venivano spediti in albergo con reiterati omaggi e benedizioni, consapevole di essere in paradiso si distese sulla sabbia e cominciò a godersi il sole dell’estate di Mondello, preoccupandosi di risparmiare qualche liretta, proprio per fabbricarsi un villino, per quando sarebbe finita la cuccagna. La generosità della gente e del posto aveva tramutato Vycpálek in un palermitano verace. Anche Hana la moglie era felice, una ventata di generosa prolissità avvolgeva la squadra, il presidente, principe Raimondo Lanza di Trabia, scarmigliato con occhi celesti e balletti, sempre in camicia di seta e brache bianche, sempre un po’ tocco di whisky si diceva pronto a comprare tutto per il Palermo, e comprava infatti, semplicemente con una telefonata, l’allenatore era un omone roseo e focoso, bambino e vecchio, veneto di nascita ma internazionale, che parlava di calcio come se lo avesse scoperto lui: Gipo Viani. L’altro fuoriclasse della squadra era un fuoriuscito danese biondissimo e perdi-giorno, che non andava a letto mai prima delle tre, standosi con il principe Lanza.
Furono cinque campionati al Palermo dal 1947 al 1952, dopo l’unico alla Juve (1946-47), cogliendo moltissime soddisfazioni in terra, ogni tipo di beatitudine appartenendogli in quanto straniero, in quegli anni l’Italia essendo di tutti meno che degli italiani, i quali assistevano con giubilo al giubilo altrui, lo assecondavano allegramente, mentre il partito che era al potere, guidato da un uomo macerato e triste, Alcide De Gasperi, applaudiva con gratitudine. Infatti senza il grano degli americani non avremmo archiviato la guerra tanto facilmente. Il bandito Giuliano a Montelepre per un pugno di farina sparò sui carabinieri; cominciò la sua guerra di morto di fame alla legge e la stava vincendo, dovettero contrattarlo come si fa con un capo, promettendogli una divisa di generale della Sicilia unita all’America, invece in un agguato ordito da quell’uomo dal cuore di pietra di Scelba lo accopparono come un figlio di cane e lo buttarono in un cortile a Castelvetrano, nudo come Cristo quel povero senza arte né parte, seppellendolo tra i salamelecchi e i discorsi perché avevano liberato il paese da un pericoloso e cinico malfattore.
Vycpálek nel 1952 chiuse col Palermo e andò a giocare a Parma, amando molto la musica e in special modo Verdi che è di quelle parti, furono altri sei campionati indimenticabili, con sublimi mangiate, dopo di che Cesto pesava alquanto e decise di cominciare la carriera di allenatore sul posto, avendo sempre avuto il tempo di osservare, in campo, uomini e gioco, aveva le idee chiare, così ritornò al Palermo dei dolci amori proprio come allenatore e la squadra fu promossa in A. L’allenatore Vycpálek appartiene alla categoria dei padri di famiglia con sale in zucca; pure, i turbamenti del factotum rosanero Totò Vilardo mal disposto a sopportarne l’intelligenza tecnica, posero fine all’idillio, Cesto, un po’ avariato, nella crisi dei quarant’anni, cominciò a vagare da Siracusa, dopo una parentesi a Valdagno, ancora a Palermo, Juventina di Palermo, Mazara del Vallo, l’impolverato entroterra di un calcio zeppo di pietre, era un uomo avvilito anche con se stesso, beveva molto. E con un aspetto trasandato da una profonda disperazione, accostò a Zagarella nella primavera del 1970 l’amministratore delegato della Juventus Giampiero Boniperti all’inizio del suo mandato, chiedendogli un posto. Ottenne promessa che fu mantenuta pochi mesi dopo. Vycpálek fu assegnato dalla Juventus alla cura delle promesse bianconere in collegio a Villar Perosa e ritornava a Torino, con la moglie Hana e i figli Cestino e Daniele.
1971. La malattia di Picchi ispirò Boniperti di fare uscire dall’ombra il pacioso boemo latte e miele. Era duro anzicchenò per Cesto, alla guida della Juventus, sedersi sulla panchina più illustre d’Italia, con Boniperti alle spalle che tanto si prendeva tutta la gloria facendo tutto lui, con una squadra piena di malandrini, Haller, Causio, Anastasi, Marchetti, ma le esperienze della vita e degli uomini lo avevano cambiato, morì Picchi ma la squadra nomata Juventus aveva l’ideale continuatore, né trascinatore né condottiero, uno stratega sorridente che manovrava le carte in ritiro a Villar Perosa da mafioso siculo, che sapeva usare paroline graziosissime per scuotere o pungolare, grasso roseo ballonzolante davanti alla truppa negli allenamenti condotti con altissimo senso della misura. I ragazzi si divertivano, lo presero in simpatia, Boniperti lo confermò alla guida tecnica della squadra e ne fu compensato: quest’uomo che non rifiutava mai un’intervista e non faceva dramma di niente, era Campione d’Italia con la squadra.
Il campionato successivo (1971-72), nonostante la malattia di Bettega nella fase culminante e la morte del suo adorato figliolo Cestino andato a schiantarsi con tutti i passeggeri di un aereo di linea contro un costone della catena di montagne del palermitano. Forse, tanta tragedia aveva la sua parte nell’appiattirsi del suo spirito; la squadra da lui guidata rivinceva ancora (1972-73) sfruttando i goal di Altafini e il dramma del Milan a Verona e nel campionato seguente perdeva un po’ di smalto, Boniperti, contraggenio, per saziare la plebe, lo sostituiva con Parola. Doveva rivelarsi un errore. La squadra rivinceva (1974-75), ma si logorava e smarriva. La modernità di Vycpálek, apparentemente re travicello, è nella sua cultura tecnica e umana, il suo alato ottimismo, la sua dolcezza dialettica, una squadra di professional negli anni Settanta non potendosi guidare soltanto coi giri di campo. A parte che Cesto anche i giri di campo sapeva dosare con acume. Un allenatore vero.
FRANCO MONTORRO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 2002
È tornato a incontrare suo figlio Cestino nel giorno del trentennale della sua scomparsa. E ci ha lasciati più soli proprio nel giorno in cui la Juventus vinceva uno scudetto alla sua maniera: come quel 20 maggio 1973, all’Olimpico, la freccia del sorpasso all’ultima giornata. Due coincidenze che aumentano la commozione per la scomparsa di Čestmír Vycpálek, Cesto per tutti, l’allenatore di due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973, ma prima ancora calciatore bianconero per una stagione.
Un uomo e un allenatore indimenticabile e al quale la Juventus deve moltissimo. Come ci spiegano, confermano, svelano due grandi personaggi che insieme a lui e grazie a lui hanno scritto pagine indimenticabili della leggenda bianconera. «È stato il mio allenatore per quattro anni, nel corso dei quali abbiamo conquistato due scudetti e raggiunto due finali internazionali – ricorda Roberto Bettega – Vycpálek prese in mano la Juve nel periodo della rivoluzione o per meglio dire in partenza di un progetto di crescita e di costruzione di una squadra che fu poi protagonista di quindici anni strepitosi. Arrivarono tanti giovani: il sottoscritto, Landini, Capello, Danova. E Picchi prima e Vycpálek dopo furono bravissimi a integrarli con gli anziani: Salvadore, Haller, Morini. Eravamo una squadra giovane, intesa come gruppo, ma avevamo messo le radici per una pianta rigogliosa. Io, poi, gli devo molto. Quando nel corso della seconda stagione mi ammalai, lui per primo mi fu vicino in quel momento così delicato facendomi capire che mi avrebbe aspettato, che non mi avrebbe messo né fretta né pressione. Mi fu di grandissimo aiuto. Era un uomo che sapeva trasmettere la sua positività. Ricordo che nell’intervallo della famosa partita dell’Olimpico, ci disse: “Oggi il Milan perde a Verona, la Lazio pareggia a Napoli, noi vinciamo lo scudetto e ci abbracciamo in mezzo al campo”. Lo guardammo con un’aria un po’ strana, e in coro ripetemmo: “Sì, mister, ci abbracciamo in mezzo al campo”, come a dire: per salutarci che il campionato è finito. Ma alla fine ebbe ragione lui. Quelle parole mi sono rimaste impresse, perché erano la dimostrazione di quanto ci credesse. Proprio nel giorno della sua scomparsa, 5 maggio 2002, la Juventus ha vinto uno scudetto che, per com’è stato conquistato, ha moltissime affinità con quello di allora. Ed è stato probabilmente la maniera migliore, da parte nostra, per salutarlo».
Capitano di quella Juventus di Vycpálek era Beppe Furino. Anche per lui il nastro dei ricordi parte da quel Roma-Juventus dell’Olimpico. «Eravamo all’intervallo, sotto di un goal e le sue parole ci caricarono. Al goal di Spadoni replicò Altafini, quasi allo scadere Cuccureddu e fu scudetto: come aveva previsto lui, Vycpálek. Io ricordo la sua disponibilità e la sua umiltà, doti che fecero presa su tutta la squadra e che gli permettevano di fronteggiare quasi con filosofia una squadra composta da grandi personalità. Lui seppe creare un’armonia indimenticabile. Io ero legato a lui da grande stima, non solo per le sue doti umane ma anche per le sue conoscenze tecniche. In tutti i sensi, un grande allenatore».
Il legame con la Juventus non si era mai allentato nel corso degli anni, visto che dopo l’esperienza diretta in panchina Cesto ha continuato a operare per il club bianconero, a livello dirigenziale come per l’attività di osservatore. Insomma, una juventinità a 360 gradi come il secondo figlio Daniele ha tenuto a sottolineare. Non prima di aver messo in chiaro un ultimo aspetto relativo alla vicenda terrena di suo padre e aver affidato a “Hurrà Juventus” il compito di dissipare alcune voci malevoli. «Ho letto critiche gratuite e assurde alla Juventus per l’assenza di suoi rappresentanti al funerale di mio padre – ha spiegato Daniele Vycpálek – e voglio dire che non ci sono assolutamente colpe, da parte loro. Io stesso, che ero a Torino per preventivare un intervento chirurgico che avrebbe dovuto subire da lì a poco, domenica, ho avuto grosse difficoltà a rientrare a Palermo, dove solo nel pomeriggio di lunedì è stata stabilita la data delle esequie. In queste condizioni, nessuno avrebbe più potuto farcela a raggiungere in tempo la Sicilia. Questo è giusto che si sappia, com’è doveroso che io ringrazi la Juventus tutta per com’è sempre stata vicina a mio padre e per come lo è alla sua famiglia adesso. Il resto, ripeto, sono solo cattiverie. Mio padre era juventino dentro già nel 1946, quando arrivò in Italia e lo è rimasto per sempre. La sua vita si è completata nella Juventus, lui era uno della famiglia Juventus. Ma ha avuto anche la fortuna di essere rispettato, sempre, dai tifosi di qualsiasi altra squadra, che riconoscevano in lui soprattutto un uomo leale, un uomo di sport. Di ricordi su di lui, legati alla Juventus, ne ho parecchi, ovvio. Ma qui e ora mi piacerebbe ricordarlo nel suo impegno di osservatore, forse l’aspetto meno noto della sua attività, eppure una delle più importanti, per tanti anni, per la Juventus. Grazie al suo fiuto, al suo talento, anche in tempi recenti sono arrivati a Torino giocatori importanti. E anche per questo la società gli è sempre stata vicina, gli è sempre stata grata».
Juventino a vita, Čestmír Vycpálek ha scelto di lasciare la Juventus in uno dei giorni più belli della storia bianconera. E lo ha fatto in punta di piedi, lievemente, quasi come se fosse turbato all’idea che la notizia della sua scomparsa sarebbe stata data fra una domenica e un lunedì di fine campionato. Ma il destino, nell’ombra che ha rattristato la grande festa bianconera dopo Udine, ci ha concesso un’ultima cortesia, per quello che riguarda una straordinaria impresa della Juventus, tanto simile alla sua di ventinove anni fa, al punto da farcelo ricordare meglio nel giorno dell’addio. Per uno scudetto vinto come lo aveva saputo vincere Vycpálek, di rincorsa e allo sprint, e per ricordare come, prima e dopo quel tricolore, noi tutti dobbiamo ringraziare Cesto e ricordarlo come uno dei più grandi.
Addio, Cesto, ovunque tu sia, lassù in cielo. Dove sei arrivato con già un ventiseiesimo scudetto che era anche tuo. E che tutti noi, ricordando la tua figura e la tua opera, ti dedichiamo con affetto e riconoscenza.
Vycpalek è stato la mia Juve...prima c'era Picchi, che poi si ammalò gravemente. Quando Boniperti chiamò Vycpalek si disse (come poi accadde con Parola) che era suo amico e che in realtà era Boniperti a fare la formazione - ma ripensandoci non credo che fosse del tutto vero. Anche se, ovviamente, Boniperti...
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Vycpalek è lo zio di Zeman: un'interessante questione psicoanalitica! (secondo me, Zeman voleva tantissimo venire alla Juve, e c'è rimasto malissimo per non averlo potuto fare)