Nasce a Catania il 7 aprile 1948, la famiglia non è ricca: «Sette persone in due stanze», ha raccontato un giorno. Come per altri ragazzi, il suo primo problema fu la scuola, poiché non gli piaceva. Un giorno in classe e un altro in piazza con una palla fra i piedi spesso nudi per non rovinare le scarpe.
Poi il calcio diventò la sua ragione di vita. La carriera fu rapida e, naturalmente, il successo arrivò presto. Due anni nella Massiminiana (girone F della Serie D) e trasferimento al Varese nel 1966.
Due stagioni in Lombardia e poi la Juventus che vinse la serrata concorrenza dell’Inter: fu pagato un prezzo record, 660 milioni.
È il 1968, un anno magico per il calcio italiano. In Italia si disputa il Campionato d’Europa e, per la Nazionale è l’occasione per tornare fra le grandi potenze del calcio.
La sera di sabato 8 giugno, allo Stadio Olimpico, l’Italia è in finale contro la Jugoslavia. Anastasi esordisce in azzurro, ma non si distingue in una squadra che non soddisfa.
Il pareggio 1-1 è un premio immeritato per i nostri colori ma due giorni più tardi, nella finale bis, c’è una prova d’orgoglio degli italiani. È il trionfo: goal di Riva e, bellissima, in mezza rovesciata, la replica di Pietruzzo.
Molto intuito, nel gioco di questo calciatore, molto genio e, purtroppo, anche molta sregolatezza: sarà il suo limite: «Le mie qualità migliori erano lo scatto, la velocità e l’altruismo. E seppur scendessi in campo, anche in Nazionale, con la maglia numero nove, spesso mi posizionavo sulla sinistra, per effettuare dei cross a favore del compagno di reparto. Insomma, ero un uomo d’area che sapeva anche manovrare».
Due anni più tardi, è atteso con curiosità al Mundial messicano. È in gran forma, ma uno stupido incidente lo costringe al forfait poche ore prima della partenza. Lo sostituisce Roberto Boninsegna che, più tardi, prenderà il suo posto anche nella Juventus.
Partecipa anche al Mondiale del 1974 ma, a quel punto, la carriera di Pietro è già verso l’epilogo. In Nazionale giocherà 25 gare e in totale realizzerà 8 volte.
Quando, per la prima volta, arriva in Galleria San Federico, sede juventina, è senza cravatta, e il presidente di allora, Vittore Catella, lo avverte: «Quando si presenta in sede sarà bene, d’ora in avanti, che si vesta con regolare camicia e cravatta».
Ma il contratto è buono e la cifra concordata anche. L’allenatore è Heriberto Herrera, il Ginnasiarca, uno che non cerca e non concede simpatia.
Ad Anastasi, che in allenamento non riesce a interpretare uno dei tanti schemi, una volta urla, davanti a compagni, giornalisti e tifosi: «Tonto, stia a guardare, perché lei non capisce niente!».
È un rapporto, questo con la Juventus, che non sarà mai sereno.
Quando torna a segnare con una certa continuità, allo stadio compare uno striscione: “Anastasi, il Pelé bianco”.
Le cifre: 302 partite e 129 goal, il 1971-72 è l’anno del suo primo scudetto, subito bissato l’anno seguente. Il terzo tricolore lo conquista nel 1974-75, sempre in bianconero, naturalmente.
Lascia la Juventus per l’Inter, nel 1976-77, poi l’Ascoli e l’addio ai campi di calcio con un bilancio brillante.
Anni dopo disse: «Andai via, perché ebbi un litigio con Parola, dopo una trasferta in Olanda, ma con la società sono sempre rimasto in ottimi rapporti. Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino».
VLADIMIRO CAMINITI
Anastasi fu ingaggiato da Catella, previo interessamento dell’avvocato Gianni al patron dei frigoriferi Giovannone Borghi, un uomo doppio, ma soltanto nel fisico, mento doppio, sopraccigli doppi, pancia se vogliamo tripla; però, una persona lastricata di buone intenzioni, Borghi aveva quasi raggiunto l’accordo con l’Inter per l’osannato centrattacco del suo Varese, ma all’ultimo momento fu galeotta una questione di compressori per frigoriferi e Anastasi passò alla Juventus, dopo che aveva già indossato in amichevole la maglia neroazzurra.
I benpensanti si scandalizzarono. In realtà, il trasferimento fu solo rinviato di alcuni anni, i migliori della carriera del picciotto, di pelle quasi scura, due occhi balenanti, una tosta furbizia, due svelte gambe di levriero.
Alla Juventus trova il fustigatore dei costumi Heriberto Herrera, che aveva nell’arcaico grandissimo Gipo Viani uno dei suoi pochi veri estimatori in un paese calcistico schiavo della pigrizia tecnica: «La Juventus sta praticando il gioco più moderno del mondo, è finita l’epoca degli specialisti; io faccio solo il goal, io difendo e basta».
Diceva il Ginnasiarca prima dell’inizio del campionato, deludente per la Juventus, non per Pietruzzu, il cui bottino fu di 14 goal, rivelando tutta la sua astuzia istintiva e di volo un destro sciabolatore che levati.
Furbo, ghiotto di tutto, soprattutto di popolarità, colpisce che non ami parlare nel dialetto di Meli. Si esprime in compìto italiano, insomma, e va a miracol mostrare del suo stile impolverato (i primi calci li ha dati scalzo, sui terreni aridi della periferia di Catania) già in questo primo campionato juventino: 1968-69.
La fama gli dà subito un po’ alla testa. Con i cronisti, anche con me, ha rapporti difficili. Nello spogliatoio qualche compagno, ad esempio Furino, non ci andrà mai d’accordo. Voglio dire che ha spesso atteggiamenti spocchiosi.
Pure, la Juventus ha cambiato il modo di vivere il calcio; è datato Heriberto Herrera il rinnovamento tecnico che prosegue clamoroso proprio alla fine di questo campionato, quando avanza sulla scena monsù Rabitti e la squadra ripiglia confidenza con le vittorie strappa applauso.
L’Avvocato ha già richiamato Boniperti come amministratore delegato; presto lo farà presidente, e sarà il primo presidente anche tecnico nella storia del nostro calcio. Nascerà la Juventus ineguagliata e ineguagliabile del collettivo in campo e fuori campo.
Anastasi ha tutto il tempo, sono sei anni di gioie e di rabbuffi, di goal maiuscoli e di sensazionali strafalcioni, per lasciare un’impronta. Non si era mai visto un centravanti come lui. L’istinto s’incarnava in uno scatto abbagliante come le onde del mare etneo al suo sole infuocato. Arrivando in bianconero, è famoso; in maglia azzurra si è laureato a Roma campione europeo.
Paragonato ai centravanti tradizionali, è un misto di Gabetto e Lorenzi, ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell’azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone la femmina.
Quando al povero Picchi subentra Vycpálek mal gliene incoglie, perché Cesto è bonario ma caustico, ama le posizioni chiare, la lealtà. Anastasi ha atteggiamenti da divo in uno spogliatoio, dove legifera il collettivo.
Ma subito per me diventa Pietruzzo, gioca partite stupefacenti e segna molti goal decisivi.
Forse il campionato del primo scudetto bonipertiano (1971-72) è pure il suo più efficace, il suo apporto è trascinante, per supplire, insieme a tutti, all’assenza nevralgica di Bettega ammalatosi.
«Quel campionato rappresentò il primo traguardo della mia carriera e dell’esperienza juventina. Arrivai al Nord che ero davvero un ragazzino e presto diventai uomo, anche in virtù dell’aria che si respirava in società: erano i tempi di Catella, Giordanetti, Allodi e, soprattutto, Boniperti».
Un campionato tormentoso e per Cesto drammatico che si risolve in volata, con un bel 2-0 al Comunale inflitto al Vicenza. E si può ben dire che questa Juventus di Anastasi si riallaccia alla migliore tradizione della società, vince con una sola lunghezza (43 a 42) su Milan e Torino (che un sardo di nome Giagnoni pilota con demagogica sciarpa), ma è come sta scritto nel suo stemma, la vittoria del forte che ha fede.
Anastasi vincerà altri due scudetti, quello numero 15 in cui assopirà un tantino il suo vulcanico talento.
C’è qualcosa che non va nei costumi atletici del catanese? Ha qualche problema privato? Si può rispondere, senza indugio: quel suo gioco tutto istinto, i suoi scatti a ripetizione, lo logorano; senza la forza fisica rapinosa di un Chinaglia, non è meno rapinoso il suo gioco che siede i portieri.
Rivivrà diversamente, com’è diversa Catania da Palermo, il mare etneo dal mare di Mondello, questo scatto in Schillaci.
Alla conquista del suo terzo scudetto, campionato 1974-75, Anastasi arriva in coppia con Damiani, nove goal a testa, uno in meno l’eterno Altafini.
Lapilli e scaglie dorate del suo scatto inimitabile sono oramai cenere; con un colpo di genio Boniperti, nell’estate del 1976, lo scambia con l’anziano Boninsegna. Il Pelé Bianco naufragherà nelle nebbie di Milano.
ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1981
Anastasi, detto Pietruzzo è stato forse il caposcuola, il pioniere dei calciatori che dal Sud sono arrivati al Nord per fare fortuna.
Non tutti sanno che a determinare il destino di Pietro Anastasi fu, probabilmente, una donna incinta presentatasi all’aeroporto di Catania e supplicando che la lasciassero partire, anche se non aveva un posto sull’aereo, perché doveva assolutamente recarsi a Milano.
Quel gentiluomo che era Casati, allora general manager del Varese, le concesse il suo posto, accettando di partire la sera dopo. Lunedì pomeriggio Casati si recò al Cibali per assistere a una partita tra squadre ragazzi; in una di quelle squadrette giocava un certo Pietro Anastasi. Casati lo osservò attentamente e l’affare fu concluso in poche ore. Pietruzzo si comprò una giacca nuova e una valigia fiammante per salire al Nord.
Divenne famoso a suon di goal, iniziando la carriera proprio nelle file del Varese. D’acchito il picciotto vinse la propria battaglia, quella contro il mostro del Nord, cioè il gelo, l’indifferenza, l’incomunicabilità. Vinse senza mai sottrarsi al pericolo di certe battaglie, ma affrontandole a viso aperto anche quando sapeva di rischiare grosso.
Doveva finire all’Inter ma Gianni Agnelli soffiò il giocatore a Fraizzoli e lo vestì in bianconero quando già era stato fotografato in neroazzurro per la gioia illusoria dei tifosi interisti.
Alla Juve fece fortuna e fu idolatrato dalla folla: era il centravanti che nelle iperboli tifose si vide etichettare come Superpietro, Pelé Bianco o cose simili.
La sua figura s’installò in paradossali “ex voto” sportivi e fu ripetuta per centinaia di pose fotografiche in alloggi torinesi, in case siciliane, dietro il letto, sulla porta della cucina, alla sommità di cassettoni e credenze.
Allo Stadio Comunale, in maglia bianconera, cominciò non la vita, ma la leggenda popolare di Pietruzzo. Robusto, seppur piccolo, veloce e sgambettante, carico di fantasie da cortile, un acrobata istintivo: questo il giocatore. Come ragazzo era simpatico, ingenuo, modesto, con qualche improvvisa punta d’orgoglio.
Quando nel 1968 arrivò alla Juventus, aveva solo vent’anni e tanto entusiasmo. Lo gelarono subito, anche se si era in piena estate: il presidente Catella, piemontese di stampo antico, lo strigliò subito per aver osato presentarsi al raduno senza cravatta. Così lui, che era arrivato al primo appuntamento con la Vecchia Signora timido e sorridente, se ne andò con gli occhi rossi. Né quelle lacrime furono le ultime.
A settembre, la lezione tattica di Heriberto Herrera gli gonfiò di nuovo gli occhi di pianto. Per fortuna, quando era sul campo tutto filava a gonfie vele: 28, 14 goal, tre in più che la stagione precedente nel Varese.
Nemmeno la gloria (con tanto di maglia azzurra della Nazionale e un titolo di Campione d’Europa) è stata un passaporto sufficiente per l’amicizia: si sentiva scartato, isolato e così si chiudeva sempre più in se stesso.
La sua ombrosità, logica conseguenza della difficoltà di comunicazione, era scambiata per selvatichezza e qualcuno ci ricamava sopra, sino all’insulto.
La stagione successiva le faccende calcistiche andarono ancora meglio: ventinove partite, quindici goal. A fine campionato la fortuna gli voltò le spalle: alla vigilia della partenza della squadra nazionale per il Messico, dove erano in programma i Campionati del Mondo, Pietro fu colto da violenti dolori. Fu ricoverato in clinica e operato. Addio Nazionale, addio Mondiali.
La sfortuna continuò poi a perseguitarlo, non ritrovò più per la successiva stagione lo smalto dei giorni migliori, segnò soltanto 6 reti, perdendo anche quei pochi amici di passaggio che era riuscito a racimolare.
La straordinaria forza di volontà lo tenne a galla, in attesa di giorni migliori, del successo definitivo. Fu proprio allora che Anastasi iniziò un processo irreversibile, quello che fece di lui un autentico uomo, un personaggio di successo.
L’introverso picciotto, ex raccattapalle del Cibali, egoista in campo, scontroso fuori, aveva finalmente imparato a comunicare, dentro e fuori del calcio, fino a diventare un protagonista: Campione d’Italia, uno dei migliori, un autentico leader.
Pietro ricorda ancora quel periodo: «Sì, me lo dicevano tutti e anch’io dovevo constatare il cambiamento, il miglioramento. Ma una ragione precisa non c’era, al di là del fatto che con gli anni ero un po’ maturato. Quando ero arrivato alla Juventus, diffidavo di tutti, dei giornalisti in particolare. In campo pensavo solo a mettermi in luce, al tornaconto personale. Poi diventò tutto diverso e mi accorsi che contava prima la Juventus e poi Anastasi; per la squadra ero disposto a fare qualsiasi sacrificio».
Sicuramente gli giovò molto il matrimonio, placandone la scontrosità e regolandone gli eccessi gastronomici: «A me piacevano i cibi piccanti, la cucina siciliana; molti miei periodi non positivi furono determinati da una pessima condizione fisica, conseguenza di disturbi intestinali. Un giorno decisi di abolire salumi e salse piccanti; la salute tornò e la condizione tecnica ne trasse giovamento».
Poi la moglie, Anna Bianchi, gli regalò due figli e altri importanti equilibri furono conquistati. Fu quello il periodo migliore della sua carriera, quello in cui riuscì a riconquistare stabilmente il posto in Nazionale, arrivando poi a collezionare ben 25 gettoni di presenza.
Vinse lo scudetto al termine della stagione 1971-72 (giocando tutte e 30 le partite) e fece il bis nel 1972-73, giocando 27 gare su 30; il terzo titolo di Campione d’Italia arrivò al termine della stagione 1974-75, anno in cui Pietro giocò 25 partite.
Il divorzio dalla Juve avvenne nel corso della stagione 1975-76. Ritenendo di essere stato preso di mira dall’allenatore Parola, il picciotto si lasciò andare a roventi e polemiche dichiarazioni nella settimana precedente un delicatissimo derby con il Torino.
La Juventus era stata sconfitta a Cesena e stava preparandosi a disputare l’incontro con il Torino. Anastasi, dopo un allenamento al Combi, improvvisò una conferenza stampa, nel corso della quale vuotò, come si suol dire, il suo sacco, pieno di livore e incomprensioni. Un attacco preciso verso l’allenatore Parola e certi compagni di squadra.
Com’è nel proprio stile, la Juventus tolse di squadra Anastasi il quale, nella stagione successiva, fu ceduto all’Inter in cambio di Boninsegna.
Tutti i tifosi bianconeri ricordano ancora le notizie sensazionali apparse sui giornali di quel 9 luglio 1976. La Juventus annunciava il trasferimento di Anastasi alla società neroazzurra che cedeva ai bianconeri il centrattacco Boninsegna, con l’aggiunta di 750 milioni.
Contemporaneamente Capello era ceduto al Milan e la Juve aveva in cambio Benetti più 100 milioni. Un’operazione sensazionale che portava la Juve sulla strada di altri trionfi.
Anastasi, dopo l’Inter, approdò ad Ascoli. Forse era anche il traguardo cui Pietruzzo anelava, dopo aver perso la gloria della casa bianconera. Ascoli ha rappresentato la tranquilla città di provincia, dove il Pelé Bianco sta oggi per terminare la sua lunga e tormentata carriera.
Abbiamo visto recentemente Anastasi e abbiamo parlato dei tempi felici in cui guizzava come un fulmine verso la rete avversaria e mandava in delirio i suoi fan con i goal più pirotecnici e brasiliani.
Anastasi ricorda tutto e tutti, la sua amicizia con Bettega, l’unico che seppe in certo qual modo sgelarlo dal mondo di diffidenza e incomprensione in cui era vissuto per molti anni.
Della città di Torino, in fondo al cuore, ha una certa nostalgia. Forse si rivede ragazzo, correre disperatamente dietro ad un pallone, su un prato d’erba ispida, sotto il cocente sole di Sicilia.
Forse ricorda il giorno in cui sbarcò a Torino e la leggenda si colorì con i toni di una ballata da cantastorie. Nel formicolio delle mansarde, degli agglomerati umidi delle periferie abitate dalla gente della sua terra, il Pelé Bianco riuscì a portare lume con le sue acrobazie e con il suo nerissimo ciuffo di capelli.
La gloria arrivò presto e lo sistemò su un solido piedistallo. Pietro sa che la gloria aveva un nome: Juventus. Per questa ragione non ha mai dimenticato la società bianconera e i tifosi che dalla Curva Filadelfia urlavano il suo nome: “Pietro, Pietro!”.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL MAGGIO 2015
La cosa che più colpisce in Pietro Anastasi, nato a Catania il 7 aprile 1948, sono gli occhi. Scuri, scintillanti, vivi. E il sorriso. Solare e malinconico allo stesso tempo.
Ci troviamo a casa sua, a Varese, la città di sua moglie Anna. «Devo tutto a questa donna – dice subito Pietruzzo, così come lo ribattezzò il conterraneo Vladimiro Caminiti – mi ha fatto da equilibratore. Quando tendevo a esaltarmi, mi riportava con i piedi per terra. Quando andavo giù di corda, sapeva scuotermi per risalire».
Sono insieme da una vita, da quando il diciottenne Anastasi si trovò catapultato al Nord dopo gli straordinari esordi con la Massiminiana in Serie D. Stagione 1966-67, la prima a Varese, allora in Serie B.
Il matrimonio nel 1970, due figli, e dal 1993 per lui la meritata pensione tra un po’ di scuola calcio, i commenti tecnici in televisione e gli impegni con le leggende bianconere.
Eh già, perché se siamo qui è per ricordare soprattutto le 8 stagioni con la maglia della Juventus. Dal 1968 al 1976, tre scudetti, oltre 300 presenze e 130 goal.
Numeri che danno l’esatta misura di un attaccante che in campo non si è mai risparmiato e che per i tantissimi tifosi meridionali della Juventus, in quel primo scorcio di anni ‘70, ha rappresentato la possibilità del riscatto.
Numeri di un centravanti che quarant’anni fa stabilì un record tuttora imbattuto: tre goal realizzati da subentrante.
– Poi ha cambiato idea. «Chiamo mia moglie e le dico quel che sta succedendo. Lei mi suggerisce di accettare le decisioni dell’allenatore, ma io non voglio sentire ragioni. Poi durante la passeggiata, ecco l’avvocato Agnelli, al corrente dei fatti. E anche lui mi invita a non fare stupidaggini. Ma sono ancora ferito. Decisiva è la seconda telefonata con Anna. A quel punto mi faccio buono buono e mi metto a disposizione dell’allenatore».
– Numero tredici, seduto in mezzo a Piloni e Spinosi. «Fino al 70’. Stiamo vincendo 1-0, ma anche il Napoli è in vantaggio. Occorre mettere al sicuro il risultato. E così, quando mancano venti minuti alla fine, Parola mi dice di entrare al posto di Bettega. In cinque minuti, dall’83’ all’88’, realizzo una tripletta. Nessun subentrante era mai riuscito nell’impresa prima e, per quel che mi risulta, neppure dopo nel campionato italiano. A quel punto, sul 4-0, il risultato è più che in cassaforte. Missione compiuta».
– Se li ricorda quei tre gol? «Il primo di destro in scivolata ad anticipare il difensore su cross basso dalla destra. Il secondo di sinistro al volo a mezza altezza su centro dalla sinistra. Il terzo dopo una traversa di Viola: sulla ribattuta colpisco il palo, la riprendo e segno. In quell’occasione, Felice Pulici fece come l’orso nei giochi della fiera: a ogni sparo, cambiava direzione, senza capirci più nulla».
– Sarà stato un record anche per lui prendere tre goal in cinque minuti. «Credo di sì. Ero una furia, non mi importava chi avessi di fronte in quel momento. Avevo così tanta rabbia in corpo che se la partita fosse durata ancora avrei continuato a segnare. Pulici o non Pulici».
– È vero che la mattina dopo chiamò l’Avvocato? «Sì. Mi disse: “Ha visto che avevo ragione io quando le dicevo di non fare stupidaggini?”. Gli diedi corda, non ebbi cuore di dirgli che in verità il merito era tutto di mia moglie».
– Le ultime tre gare le ha giocate tutte dall’inizio. «A quel punto sarebbe stata dura per l’allenatore giustificare un’esclusione. Ripresi la numero nove, la fascia azzurra di capitano e nell’ultima gara contro il Vicenza segnai il goal del momentaneo 3-0, vivendo una delle emozioni più forti della mia carriera in bianconero. Sul 2-0 per noi tutto lo stadio aveva iniziato a chiamare il mio nome. L’urlo si era fatto sempre più forte e insistente. I tifosi volevano un mio goal, che in effetti arrivò al 36’. Allora ci fu un boato e a me vennero le lacrime agli occhi dalla commozione».
– Con i tifosi c’è sempre stato un legame particolare, vero? «Ancora oggi è così, nonostante siano passati molti anni. Di me il tifoso bianconero ha sempre apprezzato la generosità e l’impegno. Non ho mai giocato al risparmio: per la maglia della Juventus ho dato il massimo».
– E poi c’è la questione meridionale. «Per i tanti lavoratori che venivano dal Sud e che si facevano il mazzo in fabbrica sono diventato un simbolo, anzi ero uno di loro, quello che aveva avuto la buona sorte di giocare a pallone. Ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso».
– Qualcuno all’epoca sosteneva che non fosse un caso che la Juventus avesse molti giocatori del Sud. «Di vero c’è solo che eravamo in diversi: oltre a me c’era Furino, anche se lui fin da piccolo abitava a Torino. Poi Causio, Cuccureddu, Longobucco, anche Spinosi volendo, che era di Roma. Ma per stare alla Juve non bastava certo essere meridionali. Occorreva ben altro. Come abbiamo dimostrato in quegli anni dominando in Italia, con il pallone ci sapevamo fare».
– Lei forse meglio degli altri, visto lo striscione che a un certo punto apparve nei distinti. «“Anastasi Pelé bianco”. Comparve nei primi anni alla Juve. Mi fece un certo effetto, accidenti. Poi però mi dissi: “Chissà cosa ne pensa Pelé!”».
– E Carlo Parola, invece, di lei cosa pensava? «Non so cosa avesse con me. Non mi vedeva bene, cose che capitano. La mia permanenza alla Juve è stata pregiudicata dal rapporto non proprio idilliaco con lui. Però le confesso che mi trovo un po’ a disagio a parlare di una persona che non c’è più».
– Possiamo parlare dei fatti e delle sue sensazioni. «Parola arrivò nel 1974. Dopo il secondo posto dietro la Lazio, Boniperti decise di sostituire Vycpálek con cui avevamo vinto due scudetti. Vycpálek era un uomo molto legato al presidente, sapeva di calcio, buono, con un fare molto paterno. Con lui era difficile non andare d’accordo. Il primo scontro con Parola ci fu nel dicembre 1974 in occasione della partita di Coppa Uefa in Olanda contro l’Ajax. Sono infortunato, lo certifica anche il nostro medico La Neve. Il tecnico mi dà del vigliacco, pensa che mi voglia risparmiare. Ma non è così. Morale della favola: sto fuori in campionato per tutto dicembre. Rientro a gennaio con la Ternana».
– Quindi c’è la panchina con la Lazio di aprile. «Era successo anche la domenica prima. In quel caso esagerai. C’era un rapporto molto teso tra di noi, che non giovava a nessuno e che è poi scoppiato clamorosamente l’anno dopo, costandoci uno scudetto già vinto. Tutto inizia nell’intervallo di Lazio-Juventus del 7 marzo 1976. Era una giornata no per me, capitano partite dove non ti viene bene nulla. Chiesi di essere sostituito, pensavo che avrebbe fatto bene alla squadra. E così fu, al mio posto entrò Bobo Gori. Quel gesto fu mal interpretato da Parola, che mi mise in panchina per la successiva gara contro il Milan, dandomi gli ultimi venti minuti. La rottura vera si consumò la settimana dopo. Si gioca a Cesena e il mister mi rimette fuori. A quel punto chiedo spiegazioni, ero il capitano».
– E lui? «Mi risponde male. Ed io lo mando a quel paese. La partita con il Cesena la vedo dalla tribuna. Quindi qualche giorno dopo sbotto e dico chiaro e tondo che con Parola non voglio più avere niente a che fare. Finisco “fuori rosa”. Esco di squadra con la Juve avanti di cinque punti sul Torino. Alla trentesima giornata i granata vincono lo scudetto. Se abbiamo perso un campionato già vinto, la responsabilità non è certo mia che sono rimasto fuori nelle ultime nove partite. I colpevoli sono quelli che pensavano di avere già vinto».
– E Boniperti in tutta questa storia? «Avrebbe potuto intervenire in mia difesa, se avesse voluto. Invece mi disse: “Facciamo finire il campionato, poi ne parliamo”. Anche lui era sicuro dell’esito finale. Alla fine della stagione, ci vedemmo. Mi chiese di rimanere, lo fece più volte anche il dottor Giuliano, il suo braccio destro. Ma ormai era troppo tardi. Non c’erano più le condizioni. Meglio chiudere».
– È stato un addio amaro? «Senza dubbio. Chiesi solo di essere ceduto a una squadra che non doveva lottare per rimanere in A».
– Lasciò così la Juve dopo otto anni. Una curiosità: com’era arrivato in bianconero? «Il mio acquisto nel 1968 era stato rocambolesco. Ero già dell’Inter. Dopo il mio primo campionato in A con il Varese nel 1967-68, in cui avevo segnato undici goal, si fece avanti la società neroazzurra con Italo Allodi. Lui era molto amico di Casati, il Direttore Sportivo del Varese. Si figuri: andavano anche in vacanza insieme con le famiglie. Si strinsero la mano e chiusero l’affare».
– Contento? «Felicissimo! A vent’anni andavo in una grande squadra, e poi Milano era vicina a Varese, dove abitava Anna con cui mi ero intanto fidanzato. Ci fu un’amichevole di fine stagione tra Inter e Roma. I nerazzurri chiesero il permesso al Varese di potermi far giocare. Nell’intervallo mi venne incontro Mario Brogini, un amico fotografo di Varese, che era venuto per fare le prime foto con la nuova maglia. Fu lui a darmi la notizia della Juventus».
– Le svelò anche i particolari? «Non mi ricordo se accadde in quell’occasione. Si misero d’accordo direttamente l’avvocato Agnelli e il presidente del Varese Borghi. Oltre ai soldi (660 milioni di lire, ndr), nell’affare entrò anche la fornitura di compressori di frigoriferi per la Ignis, l’azienda di Borghi. So che Allodi si arrabbiò con Casati, ma lui non avrebbe potuto certo andare contro il suo principale».
– E lei in tutto questo? «Rimasi frastornato. Un po’ mi dispiaceva non andare all’Inter, perché voleva dire allontanarsi da Varese. Ma ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso, e lo sono tuttora. Nel portafoglio conservo ancora la foto fatta al Cibali con il grande Charles. Si avverava un sogno».
– Dai campi polverosi della Sicilia alla Juve. «Il pallone è sempre stato in cima ai miei pensieri. Ero il più piccolo di quattro fratelli, c’era la scuola, mi piaceva il mare, ho fatto piccoli lavori come il garzone di macelleria o lo stagnino. Ma il sogno era diventare calciatore e indossare la maglia bianconera».
– Quali sono state le tappe fondamentali? «Gli inizi all’oratorio San Filippo Neri di Catania. Per tutti ero Pietro “U turcu” perché d’estate diventavo nero come la pece. Poi la Trinacria e infine la Massiminiana. Devo tutto a Renzo Vellutini, che convinse i fratelli Massimino a prendermi nel 1964: a sedici anni debuttai in Serie D. Due anni dopo ero già in B».
– E il Varese com’è che la scova in Sicilia? «Per caso. Il Direttore Sportivo varesino Casati era al Cibali per assistere a Catania-Varese. Sarebbe dovuto ripartire con la squadra, ma lasciò il posto in aereo a una donna incinta. Il rinvio del volo di ritorno gli consentì di seguire il giorno dopo, sempre al Cibali, Massiminiana-Paternò. Anche se finì 0-0, mi vide e prese nota. Ero felice perché andavo in B a diciotto anni, avrei avuto una bella vetrina e qualche soldo in più. Ma avevo paura, perché andavo lontano per un’avventura che avrebbe potuto finire subito. A Varese mi accompagnarono i genitori. Al momento del saluto, piansero. Riuscii a trattenere le lacrime, anche perché fin dal primo impatto ho avuto la sensazione di essere in una famiglia. Poco dopo conobbi Anna, la quale certamente ha agevolato tutto. I due anni a Varese sono stati splendidi. Anche per i risultati sportivi, ovviamente».
– Ce li ricorda? «Il primo anno conquistammo la promozione in A. L’anno dopo il Varese fece un campionato eccezionale, battendo molte grandi. Eravamo una buona squadra con campioni come Armando Picchi, gente di esperienza come Sogliano, Da Pozzo, Maroso e giovani come il sottoscritto e Franco Cresci. L’allenatore era Bruno Arcari: a me ha insegnato tanto, soprattutto a come muovermi in attacco».
– Insegnamenti utili, visti gli undici goal finali. «Per me è stata una stagione fantastica. La ciliegina sulla torta fu la tripletta nel 5-0 alla Juventus, un risultato entrato nella storia del Varese. E poi il regalo più bello: la chiamata in Nazionale per l’Europeo. Successe tutto in fretta. Il passaggio rocambolesco alla Juve, la maglia azzurra. Ero al settimo cielo, un sogno essere lì con Zoff, Rivera, Mazzola, Gigi Riva».
– Nella finale con la Jugoslavia in attacco c’è lei, all’esordio. «Eravamo nello spogliatoio, mi chiama Valcareggi e mi fa: “Picciotto, tocca a te!” E non aggiunge altro. Gioco in coppia con Prati. La Jugoslavia è più forte e pareggiamo, grazie a una punizione di Domenghini nel finale. I regolamenti a quel tempo prevedevano la ripetizione della gara. Si rigioca due giorni dopo, Valcareggi cambia mezza squadra. Io sono confermato e accanto a me c’è Gigi Riva».
– Riva sblocca e lei, alla mezzora, realizza un goal in semirovesciata spettacolare: tutto voluto? «È stato sempre detto che sbagliai lo stop. Può darsi, non ricordo. So che feci una rete bellissima e che non stavo nella pelle dalla gioia. Ancora oggi quella notte romana con l’Olimpico illuminato dalle fiaccole mi fa venire la pelle d’oca. Vincemmo l’Europeo, l’unico nel nostro albo d’oro, e ci nominarono Cavalieri della Repubblica. Per me, che avevo vent’anni e non ero ancora maggiorenne (all’epoca la maggiore età era ai ventuno anni, ndr), fecero un’eccezione».
– Torniamo allo stop “sbagliato”: talvolta la critica ha sottolineato certe presunte lacune tecniche. «La risposta migliore l’ha data Boniperti. Lui diceva che io ero troppo veloce. Spesso capitava che anticipassi il pallone. Però rimaneva li, tra i miei piedi. Ed io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata».
– Da un punto di vista tattico, invece, si è sempre considerato un centravanti? «Ho spesso giocato con il nove, ma il centravanti non l’ho mai fatto. Mi piaceva allargarmi, spaziare, servire i compagni. Il famoso goal di tacco di Bettega a San Siro, nasce da un mio assist dopo un dribbling in area. Sono stato un falso nove. Mi rivedo molto in Tévez, che viene fuori a prendere il pallone e gioca spesso come trequartista».
– Chiudiamo la parentesi azzurra con il suo forfait al Mondiale di Messico 1970. «È ancora oggi uno dei miei più grandi rimpianti. E tutto per una sciocchezza. Stavo scherzando con il nostro massaggiatore Spialtini. Lui era seduto sul divano, io ero dietro. A un certo punto lui, spazientito e dopo avermi detto già diverse volte di smetterla, mi dà un colpo con il dorso della mano e mi colpisce ai testicoli. Dolore immediato, ma la cosa finisce lì. Durante la notte, ero in camera con Furino, non ce la faccio più dal dolore, mentre il testicolo colpito si è gonfiato paurosamente. Il Dottor Fini mi dà un calmante, ma dobbiamo andare di corsa in ospedale. La situazione è grave, posso correre il rischio di un’amputazione se non mi operano all’istante per assorbire il versamento interno. Eravamo alla vigilia della partenza per il Messico. Non ce la potevo fare. Ma lì la combinarono grossa, chiamando al mio posto due attaccanti, Boninsegna e Prati e mandando via Lodetti che ancora mi maledice. Fu una stupidaggine, oltretutto Prati non giocò mai. Io poi ho fatto ancora un po’ di Nazionale. Ero anche a Monaco nel 1974, ma lì la squadra non c’era».
– È il momento di tornare a parlare della Juventus. Ci siamo fermati al racconto dell’acquisto. «Il primo impatto con il mondo bianconero fu istruttivo. Era estate e andai in sede a incontrarmi per la prima volta con i nuovi dirigenti non pensando alla forma. Avevo una maglietta e un normale paio di pantaloni. Il presidente Catella mi disse: “La prossima volta si presenti in giacca e cravatta”».
– E sul campo come andò? «L’esordio fu eccezionale. A Bergamo, contro I’Atalanta, facciamo 3-3. Io segno una doppietta e uno dei due goal credo sia uno dei più belli realizzati con la Juve. Doppio pallonetto agli avversari e sinistro potente prima che la palla tocchi terra, tutto a grandissima velocità».
Allenatore quell’anno, stagione 1968-69, era Heriberto Herrera. «Un uomo molto rigido, maniacale. Incuteva timore, specie davanti alla bilancia. Dava multe a chi sgarrava con il peso. Ricordo che Haller e Piloni erano tra i più terrorizzati perché tendevano a ingrassare anche mangiando pochissimo. Durante uno dei primi allenamenti mi trattò malissimo davanti ai compagni. Stavamo facendo una seduta tattica, io non ero abituato a certi metodi. A un certo punto mi dice: “Basta, cono (stupido, ndr), vada fuori”. Mi mandò via e fece entrare al mio posto Zigoni per farmi vedere come andava fatto il movimento. A me vennero le lacrime agli occhi dalla rabbia».
– L’anno dopo ci fu il breve regno di Luis Carniglia. «Aveva il vizio di parlare male di noi giocatori alle nostre spalle. Non ho un buon ricordo di lui. Ma nemmeno la società, visto che lo licenziò quasi subito. – Al suo posto chiamarono Ercole Rabitti, che allenava le giovanili. Da lì le cose iniziarono a girare per il meglio, anche se quella era una Juve che non lottava per lo scudetto».
Non tutti sanno che a determinare il destino di Pietro Anastasi fu, probabilmente, una donna incinta presentatasi all’aeroporto di Catania e supplicando che la lasciassero partire, anche se non aveva un posto sull’aereo, perché doveva assolutamente recarsi a Milano.
Quel gentiluomo che era Casati, allora general manager del Varese, le concesse il suo posto, accettando di partire la sera dopo. Lunedì pomeriggio Casati si recò al Cibali per assistere a una partita tra squadre ragazzi; in una di quelle squadrette giocava un certo Pietro Anastasi. Casati lo osservò attentamente e l’affare fu concluso in poche ore. Pietruzzo si comprò una giacca nuova e una valigia fiammante per salire al Nord.
Divenne famoso a suon di goal, iniziando la carriera proprio nelle file del Varese. D’acchito il picciotto vinse la propria battaglia, quella contro il mostro del Nord, cioè il gelo, l’indifferenza, l’incomunicabilità. Vinse senza mai sottrarsi al pericolo di certe battaglie, ma affrontandole a viso aperto anche quando sapeva di rischiare grosso.
Doveva finire all’Inter ma Gianni Agnelli soffiò il giocatore a Fraizzoli e lo vestì in bianconero quando già era stato fotografato in neroazzurro per la gioia illusoria dei tifosi interisti.
Alla Juve fece fortuna e fu idolatrato dalla folla: era il centravanti che nelle iperboli tifose si vide etichettare come Superpietro, Pelé Bianco o cose simili.
La sua figura s’installò in paradossali “ex voto” sportivi e fu ripetuta per centinaia di pose fotografiche in alloggi torinesi, in case siciliane, dietro il letto, sulla porta della cucina, alla sommità di cassettoni e credenze.
Allo Stadio Comunale, in maglia bianconera, cominciò non la vita, ma la leggenda popolare di Pietruzzo. Robusto, seppur piccolo, veloce e sgambettante, carico di fantasie da cortile, un acrobata istintivo: questo il giocatore. Come ragazzo era simpatico, ingenuo, modesto, con qualche improvvisa punta d’orgoglio.
Quando nel 1968 arrivò alla Juventus, aveva solo vent’anni e tanto entusiasmo. Lo gelarono subito, anche se si era in piena estate: il presidente Catella, piemontese di stampo antico, lo strigliò subito per aver osato presentarsi al raduno senza cravatta. Così lui, che era arrivato al primo appuntamento con la Vecchia Signora timido e sorridente, se ne andò con gli occhi rossi. Né quelle lacrime furono le ultime.
A settembre, la lezione tattica di Heriberto Herrera gli gonfiò di nuovo gli occhi di pianto. Per fortuna, quando era sul campo tutto filava a gonfie vele: 28, 14 goal, tre in più che la stagione precedente nel Varese.
Nemmeno la gloria (con tanto di maglia azzurra della Nazionale e un titolo di Campione d’Europa) è stata un passaporto sufficiente per l’amicizia: si sentiva scartato, isolato e così si chiudeva sempre più in se stesso.
La sua ombrosità, logica conseguenza della difficoltà di comunicazione, era scambiata per selvatichezza e qualcuno ci ricamava sopra, sino all’insulto.
La stagione successiva le faccende calcistiche andarono ancora meglio: ventinove partite, quindici goal. A fine campionato la fortuna gli voltò le spalle: alla vigilia della partenza della squadra nazionale per il Messico, dove erano in programma i Campionati del Mondo, Pietro fu colto da violenti dolori. Fu ricoverato in clinica e operato. Addio Nazionale, addio Mondiali.
La sfortuna continuò poi a perseguitarlo, non ritrovò più per la successiva stagione lo smalto dei giorni migliori, segnò soltanto 6 reti, perdendo anche quei pochi amici di passaggio che era riuscito a racimolare.
La straordinaria forza di volontà lo tenne a galla, in attesa di giorni migliori, del successo definitivo. Fu proprio allora che Anastasi iniziò un processo irreversibile, quello che fece di lui un autentico uomo, un personaggio di successo.
L’introverso picciotto, ex raccattapalle del Cibali, egoista in campo, scontroso fuori, aveva finalmente imparato a comunicare, dentro e fuori del calcio, fino a diventare un protagonista: Campione d’Italia, uno dei migliori, un autentico leader.
Pietro ricorda ancora quel periodo: «Sì, me lo dicevano tutti e anch’io dovevo constatare il cambiamento, il miglioramento. Ma una ragione precisa non c’era, al di là del fatto che con gli anni ero un po’ maturato. Quando ero arrivato alla Juventus, diffidavo di tutti, dei giornalisti in particolare. In campo pensavo solo a mettermi in luce, al tornaconto personale. Poi diventò tutto diverso e mi accorsi che contava prima la Juventus e poi Anastasi; per la squadra ero disposto a fare qualsiasi sacrificio».
Sicuramente gli giovò molto il matrimonio, placandone la scontrosità e regolandone gli eccessi gastronomici: «A me piacevano i cibi piccanti, la cucina siciliana; molti miei periodi non positivi furono determinati da una pessima condizione fisica, conseguenza di disturbi intestinali. Un giorno decisi di abolire salumi e salse piccanti; la salute tornò e la condizione tecnica ne trasse giovamento».
Poi la moglie, Anna Bianchi, gli regalò due figli e altri importanti equilibri furono conquistati. Fu quello il periodo migliore della sua carriera, quello in cui riuscì a riconquistare stabilmente il posto in Nazionale, arrivando poi a collezionare ben 25 gettoni di presenza.
Vinse lo scudetto al termine della stagione 1971-72 (giocando tutte e 30 le partite) e fece il bis nel 1972-73, giocando 27 gare su 30; il terzo titolo di Campione d’Italia arrivò al termine della stagione 1974-75, anno in cui Pietro giocò 25 partite.
Il divorzio dalla Juve avvenne nel corso della stagione 1975-76. Ritenendo di essere stato preso di mira dall’allenatore Parola, il picciotto si lasciò andare a roventi e polemiche dichiarazioni nella settimana precedente un delicatissimo derby con il Torino.
La Juventus era stata sconfitta a Cesena e stava preparandosi a disputare l’incontro con il Torino. Anastasi, dopo un allenamento al Combi, improvvisò una conferenza stampa, nel corso della quale vuotò, come si suol dire, il suo sacco, pieno di livore e incomprensioni. Un attacco preciso verso l’allenatore Parola e certi compagni di squadra.
Com’è nel proprio stile, la Juventus tolse di squadra Anastasi il quale, nella stagione successiva, fu ceduto all’Inter in cambio di Boninsegna.
Tutti i tifosi bianconeri ricordano ancora le notizie sensazionali apparse sui giornali di quel 9 luglio 1976. La Juventus annunciava il trasferimento di Anastasi alla società neroazzurra che cedeva ai bianconeri il centrattacco Boninsegna, con l’aggiunta di 750 milioni.
Contemporaneamente Capello era ceduto al Milan e la Juve aveva in cambio Benetti più 100 milioni. Un’operazione sensazionale che portava la Juve sulla strada di altri trionfi.
Anastasi, dopo l’Inter, approdò ad Ascoli. Forse era anche il traguardo cui Pietruzzo anelava, dopo aver perso la gloria della casa bianconera. Ascoli ha rappresentato la tranquilla città di provincia, dove il Pelé Bianco sta oggi per terminare la sua lunga e tormentata carriera.
Abbiamo visto recentemente Anastasi e abbiamo parlato dei tempi felici in cui guizzava come un fulmine verso la rete avversaria e mandava in delirio i suoi fan con i goal più pirotecnici e brasiliani.
Anastasi ricorda tutto e tutti, la sua amicizia con Bettega, l’unico che seppe in certo qual modo sgelarlo dal mondo di diffidenza e incomprensione in cui era vissuto per molti anni.
Della città di Torino, in fondo al cuore, ha una certa nostalgia. Forse si rivede ragazzo, correre disperatamente dietro ad un pallone, su un prato d’erba ispida, sotto il cocente sole di Sicilia.
Forse ricorda il giorno in cui sbarcò a Torino e la leggenda si colorì con i toni di una ballata da cantastorie. Nel formicolio delle mansarde, degli agglomerati umidi delle periferie abitate dalla gente della sua terra, il Pelé Bianco riuscì a portare lume con le sue acrobazie e con il suo nerissimo ciuffo di capelli.
La gloria arrivò presto e lo sistemò su un solido piedistallo. Pietro sa che la gloria aveva un nome: Juventus. Per questa ragione non ha mai dimenticato la società bianconera e i tifosi che dalla Curva Filadelfia urlavano il suo nome: “Pietro, Pietro!”.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL MAGGIO 2015
La cosa che più colpisce in Pietro Anastasi, nato a Catania il 7 aprile 1948, sono gli occhi. Scuri, scintillanti, vivi. E il sorriso. Solare e malinconico allo stesso tempo.
Ci troviamo a casa sua, a Varese, la città di sua moglie Anna. «Devo tutto a questa donna – dice subito Pietruzzo, così come lo ribattezzò il conterraneo Vladimiro Caminiti – mi ha fatto da equilibratore. Quando tendevo a esaltarmi, mi riportava con i piedi per terra. Quando andavo giù di corda, sapeva scuotermi per risalire».
Sono insieme da una vita, da quando il diciottenne Anastasi si trovò catapultato al Nord dopo gli straordinari esordi con la Massiminiana in Serie D. Stagione 1966-67, la prima a Varese, allora in Serie B.
Il matrimonio nel 1970, due figli, e dal 1993 per lui la meritata pensione tra un po’ di scuola calcio, i commenti tecnici in televisione e gli impegni con le leggende bianconere.
Eh già, perché se siamo qui è per ricordare soprattutto le 8 stagioni con la maglia della Juventus. Dal 1968 al 1976, tre scudetti, oltre 300 presenze e 130 goal.
Numeri che danno l’esatta misura di un attaccante che in campo non si è mai risparmiato e che per i tantissimi tifosi meridionali della Juventus, in quel primo scorcio di anni ‘70, ha rappresentato la possibilità del riscatto.
Numeri di un centravanti che quarant’anni fa stabilì un record tuttora imbattuto: tre goal realizzati da subentrante.
Vogliamo partire proprio da quello Juventus-Lazio del 27 aprile 1975? «Quart’ultima partita del campionato. Siamo primi con tre punti sul Napoli e per me, che sono anche il capitano, si profila un’altra panchina. Già la domenica precedente con il Cagliari non ero partito titolare. Ma stavolta non ci sto. E quando il tecnico Carlo Parola legge la formazione, io gli dico che me ne torno a casa».
– Questo quando succede? «La mattina prima della partita, nel ritiro di Villar Perosa».– Poi ha cambiato idea. «Chiamo mia moglie e le dico quel che sta succedendo. Lei mi suggerisce di accettare le decisioni dell’allenatore, ma io non voglio sentire ragioni. Poi durante la passeggiata, ecco l’avvocato Agnelli, al corrente dei fatti. E anche lui mi invita a non fare stupidaggini. Ma sono ancora ferito. Decisiva è la seconda telefonata con Anna. A quel punto mi faccio buono buono e mi metto a disposizione dell’allenatore».
– Numero tredici, seduto in mezzo a Piloni e Spinosi. «Fino al 70’. Stiamo vincendo 1-0, ma anche il Napoli è in vantaggio. Occorre mettere al sicuro il risultato. E così, quando mancano venti minuti alla fine, Parola mi dice di entrare al posto di Bettega. In cinque minuti, dall’83’ all’88’, realizzo una tripletta. Nessun subentrante era mai riuscito nell’impresa prima e, per quel che mi risulta, neppure dopo nel campionato italiano. A quel punto, sul 4-0, il risultato è più che in cassaforte. Missione compiuta».
– Se li ricorda quei tre gol? «Il primo di destro in scivolata ad anticipare il difensore su cross basso dalla destra. Il secondo di sinistro al volo a mezza altezza su centro dalla sinistra. Il terzo dopo una traversa di Viola: sulla ribattuta colpisco il palo, la riprendo e segno. In quell’occasione, Felice Pulici fece come l’orso nei giochi della fiera: a ogni sparo, cambiava direzione, senza capirci più nulla».
– Sarà stato un record anche per lui prendere tre goal in cinque minuti. «Credo di sì. Ero una furia, non mi importava chi avessi di fronte in quel momento. Avevo così tanta rabbia in corpo che se la partita fosse durata ancora avrei continuato a segnare. Pulici o non Pulici».
– È vero che la mattina dopo chiamò l’Avvocato? «Sì. Mi disse: “Ha visto che avevo ragione io quando le dicevo di non fare stupidaggini?”. Gli diedi corda, non ebbi cuore di dirgli che in verità il merito era tutto di mia moglie».
– Le ultime tre gare le ha giocate tutte dall’inizio. «A quel punto sarebbe stata dura per l’allenatore giustificare un’esclusione. Ripresi la numero nove, la fascia azzurra di capitano e nell’ultima gara contro il Vicenza segnai il goal del momentaneo 3-0, vivendo una delle emozioni più forti della mia carriera in bianconero. Sul 2-0 per noi tutto lo stadio aveva iniziato a chiamare il mio nome. L’urlo si era fatto sempre più forte e insistente. I tifosi volevano un mio goal, che in effetti arrivò al 36’. Allora ci fu un boato e a me vennero le lacrime agli occhi dalla commozione».
– Con i tifosi c’è sempre stato un legame particolare, vero? «Ancora oggi è così, nonostante siano passati molti anni. Di me il tifoso bianconero ha sempre apprezzato la generosità e l’impegno. Non ho mai giocato al risparmio: per la maglia della Juventus ho dato il massimo».
– E poi c’è la questione meridionale. «Per i tanti lavoratori che venivano dal Sud e che si facevano il mazzo in fabbrica sono diventato un simbolo, anzi ero uno di loro, quello che aveva avuto la buona sorte di giocare a pallone. Ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso».
– Qualcuno all’epoca sosteneva che non fosse un caso che la Juventus avesse molti giocatori del Sud. «Di vero c’è solo che eravamo in diversi: oltre a me c’era Furino, anche se lui fin da piccolo abitava a Torino. Poi Causio, Cuccureddu, Longobucco, anche Spinosi volendo, che era di Roma. Ma per stare alla Juve non bastava certo essere meridionali. Occorreva ben altro. Come abbiamo dimostrato in quegli anni dominando in Italia, con il pallone ci sapevamo fare».
– Lei forse meglio degli altri, visto lo striscione che a un certo punto apparve nei distinti. «“Anastasi Pelé bianco”. Comparve nei primi anni alla Juve. Mi fece un certo effetto, accidenti. Poi però mi dissi: “Chissà cosa ne pensa Pelé!”».
– E Carlo Parola, invece, di lei cosa pensava? «Non so cosa avesse con me. Non mi vedeva bene, cose che capitano. La mia permanenza alla Juve è stata pregiudicata dal rapporto non proprio idilliaco con lui. Però le confesso che mi trovo un po’ a disagio a parlare di una persona che non c’è più».
– Possiamo parlare dei fatti e delle sue sensazioni. «Parola arrivò nel 1974. Dopo il secondo posto dietro la Lazio, Boniperti decise di sostituire Vycpálek con cui avevamo vinto due scudetti. Vycpálek era un uomo molto legato al presidente, sapeva di calcio, buono, con un fare molto paterno. Con lui era difficile non andare d’accordo. Il primo scontro con Parola ci fu nel dicembre 1974 in occasione della partita di Coppa Uefa in Olanda contro l’Ajax. Sono infortunato, lo certifica anche il nostro medico La Neve. Il tecnico mi dà del vigliacco, pensa che mi voglia risparmiare. Ma non è così. Morale della favola: sto fuori in campionato per tutto dicembre. Rientro a gennaio con la Ternana».
– Quindi c’è la panchina con la Lazio di aprile. «Era successo anche la domenica prima. In quel caso esagerai. C’era un rapporto molto teso tra di noi, che non giovava a nessuno e che è poi scoppiato clamorosamente l’anno dopo, costandoci uno scudetto già vinto. Tutto inizia nell’intervallo di Lazio-Juventus del 7 marzo 1976. Era una giornata no per me, capitano partite dove non ti viene bene nulla. Chiesi di essere sostituito, pensavo che avrebbe fatto bene alla squadra. E così fu, al mio posto entrò Bobo Gori. Quel gesto fu mal interpretato da Parola, che mi mise in panchina per la successiva gara contro il Milan, dandomi gli ultimi venti minuti. La rottura vera si consumò la settimana dopo. Si gioca a Cesena e il mister mi rimette fuori. A quel punto chiedo spiegazioni, ero il capitano».
– E lui? «Mi risponde male. Ed io lo mando a quel paese. La partita con il Cesena la vedo dalla tribuna. Quindi qualche giorno dopo sbotto e dico chiaro e tondo che con Parola non voglio più avere niente a che fare. Finisco “fuori rosa”. Esco di squadra con la Juve avanti di cinque punti sul Torino. Alla trentesima giornata i granata vincono lo scudetto. Se abbiamo perso un campionato già vinto, la responsabilità non è certo mia che sono rimasto fuori nelle ultime nove partite. I colpevoli sono quelli che pensavano di avere già vinto».
– E Boniperti in tutta questa storia? «Avrebbe potuto intervenire in mia difesa, se avesse voluto. Invece mi disse: “Facciamo finire il campionato, poi ne parliamo”. Anche lui era sicuro dell’esito finale. Alla fine della stagione, ci vedemmo. Mi chiese di rimanere, lo fece più volte anche il dottor Giuliano, il suo braccio destro. Ma ormai era troppo tardi. Non c’erano più le condizioni. Meglio chiudere».
– È stato un addio amaro? «Senza dubbio. Chiesi solo di essere ceduto a una squadra che non doveva lottare per rimanere in A».
– Lasciò così la Juve dopo otto anni. Una curiosità: com’era arrivato in bianconero? «Il mio acquisto nel 1968 era stato rocambolesco. Ero già dell’Inter. Dopo il mio primo campionato in A con il Varese nel 1967-68, in cui avevo segnato undici goal, si fece avanti la società neroazzurra con Italo Allodi. Lui era molto amico di Casati, il Direttore Sportivo del Varese. Si figuri: andavano anche in vacanza insieme con le famiglie. Si strinsero la mano e chiusero l’affare».
– Contento? «Felicissimo! A vent’anni andavo in una grande squadra, e poi Milano era vicina a Varese, dove abitava Anna con cui mi ero intanto fidanzato. Ci fu un’amichevole di fine stagione tra Inter e Roma. I nerazzurri chiesero il permesso al Varese di potermi far giocare. Nell’intervallo mi venne incontro Mario Brogini, un amico fotografo di Varese, che era venuto per fare le prime foto con la nuova maglia. Fu lui a darmi la notizia della Juventus».
– Le svelò anche i particolari? «Non mi ricordo se accadde in quell’occasione. Si misero d’accordo direttamente l’avvocato Agnelli e il presidente del Varese Borghi. Oltre ai soldi (660 milioni di lire, ndr), nell’affare entrò anche la fornitura di compressori di frigoriferi per la Ignis, l’azienda di Borghi. So che Allodi si arrabbiò con Casati, ma lui non avrebbe potuto certo andare contro il suo principale».
– E lei in tutto questo? «Rimasi frastornato. Un po’ mi dispiaceva non andare all’Inter, perché voleva dire allontanarsi da Varese. Ma ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso, e lo sono tuttora. Nel portafoglio conservo ancora la foto fatta al Cibali con il grande Charles. Si avverava un sogno».
– Dai campi polverosi della Sicilia alla Juve. «Il pallone è sempre stato in cima ai miei pensieri. Ero il più piccolo di quattro fratelli, c’era la scuola, mi piaceva il mare, ho fatto piccoli lavori come il garzone di macelleria o lo stagnino. Ma il sogno era diventare calciatore e indossare la maglia bianconera».
– Quali sono state le tappe fondamentali? «Gli inizi all’oratorio San Filippo Neri di Catania. Per tutti ero Pietro “U turcu” perché d’estate diventavo nero come la pece. Poi la Trinacria e infine la Massiminiana. Devo tutto a Renzo Vellutini, che convinse i fratelli Massimino a prendermi nel 1964: a sedici anni debuttai in Serie D. Due anni dopo ero già in B».
– E il Varese com’è che la scova in Sicilia? «Per caso. Il Direttore Sportivo varesino Casati era al Cibali per assistere a Catania-Varese. Sarebbe dovuto ripartire con la squadra, ma lasciò il posto in aereo a una donna incinta. Il rinvio del volo di ritorno gli consentì di seguire il giorno dopo, sempre al Cibali, Massiminiana-Paternò. Anche se finì 0-0, mi vide e prese nota. Ero felice perché andavo in B a diciotto anni, avrei avuto una bella vetrina e qualche soldo in più. Ma avevo paura, perché andavo lontano per un’avventura che avrebbe potuto finire subito. A Varese mi accompagnarono i genitori. Al momento del saluto, piansero. Riuscii a trattenere le lacrime, anche perché fin dal primo impatto ho avuto la sensazione di essere in una famiglia. Poco dopo conobbi Anna, la quale certamente ha agevolato tutto. I due anni a Varese sono stati splendidi. Anche per i risultati sportivi, ovviamente».
– Ce li ricorda? «Il primo anno conquistammo la promozione in A. L’anno dopo il Varese fece un campionato eccezionale, battendo molte grandi. Eravamo una buona squadra con campioni come Armando Picchi, gente di esperienza come Sogliano, Da Pozzo, Maroso e giovani come il sottoscritto e Franco Cresci. L’allenatore era Bruno Arcari: a me ha insegnato tanto, soprattutto a come muovermi in attacco».
– Insegnamenti utili, visti gli undici goal finali. «Per me è stata una stagione fantastica. La ciliegina sulla torta fu la tripletta nel 5-0 alla Juventus, un risultato entrato nella storia del Varese. E poi il regalo più bello: la chiamata in Nazionale per l’Europeo. Successe tutto in fretta. Il passaggio rocambolesco alla Juve, la maglia azzurra. Ero al settimo cielo, un sogno essere lì con Zoff, Rivera, Mazzola, Gigi Riva».
– Nella finale con la Jugoslavia in attacco c’è lei, all’esordio. «Eravamo nello spogliatoio, mi chiama Valcareggi e mi fa: “Picciotto, tocca a te!” E non aggiunge altro. Gioco in coppia con Prati. La Jugoslavia è più forte e pareggiamo, grazie a una punizione di Domenghini nel finale. I regolamenti a quel tempo prevedevano la ripetizione della gara. Si rigioca due giorni dopo, Valcareggi cambia mezza squadra. Io sono confermato e accanto a me c’è Gigi Riva».
– Riva sblocca e lei, alla mezzora, realizza un goal in semirovesciata spettacolare: tutto voluto? «È stato sempre detto che sbagliai lo stop. Può darsi, non ricordo. So che feci una rete bellissima e che non stavo nella pelle dalla gioia. Ancora oggi quella notte romana con l’Olimpico illuminato dalle fiaccole mi fa venire la pelle d’oca. Vincemmo l’Europeo, l’unico nel nostro albo d’oro, e ci nominarono Cavalieri della Repubblica. Per me, che avevo vent’anni e non ero ancora maggiorenne (all’epoca la maggiore età era ai ventuno anni, ndr), fecero un’eccezione».
– Torniamo allo stop “sbagliato”: talvolta la critica ha sottolineato certe presunte lacune tecniche. «La risposta migliore l’ha data Boniperti. Lui diceva che io ero troppo veloce. Spesso capitava che anticipassi il pallone. Però rimaneva li, tra i miei piedi. Ed io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata».
– Da un punto di vista tattico, invece, si è sempre considerato un centravanti? «Ho spesso giocato con il nove, ma il centravanti non l’ho mai fatto. Mi piaceva allargarmi, spaziare, servire i compagni. Il famoso goal di tacco di Bettega a San Siro, nasce da un mio assist dopo un dribbling in area. Sono stato un falso nove. Mi rivedo molto in Tévez, che viene fuori a prendere il pallone e gioca spesso come trequartista».
– Chiudiamo la parentesi azzurra con il suo forfait al Mondiale di Messico 1970. «È ancora oggi uno dei miei più grandi rimpianti. E tutto per una sciocchezza. Stavo scherzando con il nostro massaggiatore Spialtini. Lui era seduto sul divano, io ero dietro. A un certo punto lui, spazientito e dopo avermi detto già diverse volte di smetterla, mi dà un colpo con il dorso della mano e mi colpisce ai testicoli. Dolore immediato, ma la cosa finisce lì. Durante la notte, ero in camera con Furino, non ce la faccio più dal dolore, mentre il testicolo colpito si è gonfiato paurosamente. Il Dottor Fini mi dà un calmante, ma dobbiamo andare di corsa in ospedale. La situazione è grave, posso correre il rischio di un’amputazione se non mi operano all’istante per assorbire il versamento interno. Eravamo alla vigilia della partenza per il Messico. Non ce la potevo fare. Ma lì la combinarono grossa, chiamando al mio posto due attaccanti, Boninsegna e Prati e mandando via Lodetti che ancora mi maledice. Fu una stupidaggine, oltretutto Prati non giocò mai. Io poi ho fatto ancora un po’ di Nazionale. Ero anche a Monaco nel 1974, ma lì la squadra non c’era».
– È il momento di tornare a parlare della Juventus. Ci siamo fermati al racconto dell’acquisto. «Il primo impatto con il mondo bianconero fu istruttivo. Era estate e andai in sede a incontrarmi per la prima volta con i nuovi dirigenti non pensando alla forma. Avevo una maglietta e un normale paio di pantaloni. Il presidente Catella mi disse: “La prossima volta si presenti in giacca e cravatta”».
– E sul campo come andò? «L’esordio fu eccezionale. A Bergamo, contro I’Atalanta, facciamo 3-3. Io segno una doppietta e uno dei due goal credo sia uno dei più belli realizzati con la Juve. Doppio pallonetto agli avversari e sinistro potente prima che la palla tocchi terra, tutto a grandissima velocità».
Allenatore quell’anno, stagione 1968-69, era Heriberto Herrera. «Un uomo molto rigido, maniacale. Incuteva timore, specie davanti alla bilancia. Dava multe a chi sgarrava con il peso. Ricordo che Haller e Piloni erano tra i più terrorizzati perché tendevano a ingrassare anche mangiando pochissimo. Durante uno dei primi allenamenti mi trattò malissimo davanti ai compagni. Stavamo facendo una seduta tattica, io non ero abituato a certi metodi. A un certo punto mi dice: “Basta, cono (stupido, ndr), vada fuori”. Mi mandò via e fece entrare al mio posto Zigoni per farmi vedere come andava fatto il movimento. A me vennero le lacrime agli occhi dalla rabbia».
– L’anno dopo ci fu il breve regno di Luis Carniglia. «Aveva il vizio di parlare male di noi giocatori alle nostre spalle. Non ho un buon ricordo di lui. Ma nemmeno la società, visto che lo licenziò quasi subito. – Al suo posto chiamarono Ercole Rabitti, che allenava le giovanili. Da lì le cose iniziarono a girare per il meglio, anche se quella era una Juve che non lottava per lo scudetto».
– La svolta ci fu nell’estate del 1970. «Furono gettate le basi della Juventus che ha poi dominato nei successivi quindici anni. Furono acquistati molti giovani, alcuni come Causio e Bettega rientrarono dai prestiti. Boniperti, il quale non era ancora ufficialmente presidente ma aveva già compiti direttivi, e Italo Allodi furono gli ideatori del progetto».
– E come allenatore fu scelto il giovane Armando Picchi, suo compagno di squadra a Varese. «Allodi lo conosceva benissimo, sapeva che aveva tutte le qualità per guidare una squadra giovane e importante come la Juventus. Nell’anno a Varese, ero rimasto stupito dalla grinta, dalla lucidità di pensiero e dal grande carisma, oltre che dalle qualità umane. Trovarmelo come allenatore fu un piacere».
– Nessun imbarazzo? «No, anche se in privato gli davo del tu e in pubblico del lei. Peccato che il destino con lui sia stato così cattivo. Noi sapevamo tutto, fu molto dura in quei mesi continuare a pensare al pallone. Fu bravo Cestmír Vycpálek, il nuovo allenatore, a tenere unito il gruppo e fu molto importante la presenza di Italo Allodi, un grande dirigente».
– Un po’ dimenticato, vero? «Molto dimenticato, ma questo è il vecchio vizio del nostro mondo. Senza nulla togliere a Boniperti, Allodi ha avuto grandi meriti nella rinascita della Juve. Quando le cose non andavano bene o c’era da cementare il gruppo, lui organizzava delle cene, spesso con le famiglie. Una volta accadde dopo la papera di Carmignani contro il Cagliari (il numero uno bianconero si fece sfuggire di mano un pallone innocuo, ndr). Tutti a cena e lui che regala al portiere una pinza. Geniale. Intervenne sui premi. Alla Juve gli ingaggi non erano migliori di altre squadre, ma se si vinceva, allora arrivavano tanti soldi. A quel tempo per ogni punto davano 80.000 lire a giocatore. Bene, lui arrivò e disse: “Se battete il Milan, ci sono 800.000 lire per ognuno”. Sia chiaro: lo sportivo vuole sempre vincere, ma certi stimoli sono molto importanti».
– Le strategie di Allodi hanno funzionato, nel 1972 la Juve vince il campionato. «Il mio primo scudetto, quello a cui sono più legato. Anche perché dopo la malattia che colpi Bettega e che lo tenne fuori per metà stagione, io mi sentii molto più responsabilizzato. Verso la fine della stagione ci fu anche il grave lutto di Vycpálek, che perse suo figlio vittima di un incidente aereo».
– Quel campionato vide un grande Torino come vostro avversario. Ha dei ricordi particolari? «Il ricordo più importante me lo ha lasciato Cereser, che mi diede un calcio sulla mano destra, all’altezza del metacarpo anulare, che di fatto è rincalcato verso l’interno. Lui da dietro mi diede la zampata».
– L’anno dopo, stagione 1972-73, fate il bis. «Vincemmo lo scudetto all’ultima giornata. La scossa vera ce la diede il Verona che stava battendo il Milan capolista. Anche noi a Roma eravamo sotto di un goal. Nell’intervallo, dentro lo spogliatoio, ci guardammo negli occhi. Nessun discorso, solo la consapevolezza che ce la potevamo fare. Anzi, che dovevamo farcela. Andò così, 2-1 per noi e alla fine altro tricolore».
– Su quella partita non sono mancate le chiacchiere. «Ma lasciamo stare! Noi sapevamo che per arrivare al traguardo dovevamo solo vincere. Lo stimolo decisivo sono state le notizie dal Bentegodi. E poi, se andiamo a vedere i goal, cosa c’è che non va? La difesa giallorossa poteva fare diversamente sul colpo di testa di Altafini? E sulla bomba di Cuccureddu all’incrocio dei pali? Fu una vittoria solare. Semmai c’era un altro problema. Riguardava Vycpálek. Prima della trasferta romana, anche per smorzare la tensione, qualcuno di noi disse: “Mister, domenica non possiamo vincere: non ce la faremmo a portarla in trionfo”. E lui: “Ma io domenica sarò leggero come una libellula”».
– Prima ha nominato Altafini, che proprio in quella stagione venne alla Juve: come fu preso il suo arrivo? «Bene, veramente. José era un vero campione, capace di essere decisivo anche giocando poco. Si inserì benissimo in squadra e poi quello lì era un gruppo veramente solido e caratterizzato da grandi personalità».
– Ha qualche episodio curioso che le torna alla memoria? «Penso a Helmut Haller, un tedesco napoletano, giocherellone e scherzoso. A volte portava con sé quel palloncino che sedendoci sopra emette rumori simili alle puzzette. Era uno dei suoi divertimenti preferiti. Senza dimenticare le sfide all’ultima moda tra Causio e Damiani. Li facevamo sfilare nello spogliatoio e poi davamo i voti».
– Il 1973 è anche l’anno della finale della Coppa dei Campioni persa dalla sua Juventus contro l’Ajax. «Un gran peccato. Loro erano sicuramente più forti. Noi andammo in ritiro per troppo tempo. In più, ci fu anche un cambio di formazione che non ci convinse. Fuori Cuccureddu e dentro Altafini. Ma la cosa che ci fece più male fu vedere come loro trattarono la Coppa una volta saliti sul pullman. La buttarono lì, sui sedili, come fosse un trofeo qualsiasi».
– Nel 1975 arriva il suo terzo scudetto, poi l’anno dopo l’addio. «Andai all’Inter. Due campionati così così, ma alla prima stagione conquistammo la Coppa Italia. C’è gente che è stata molti anni più di me in neroazzurro senza vincere nulla».
– Infine c’è l’Ascoli e soprattutto una data: 30 dicembre 1979. «E chi se la scorda? Giochiamo a Torino contro la Juventus. Prima della partita mi viene a salutare l’avvocato Agnelli, un grandissimo onore per me. Io sono alla caccia del mio centesimo goal in Serie A. Sembra una maledizione, me ne hanno già annullati un paio nelle giornate precedenti. Dopo otto minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via».
– E come allenatore fu scelto il giovane Armando Picchi, suo compagno di squadra a Varese. «Allodi lo conosceva benissimo, sapeva che aveva tutte le qualità per guidare una squadra giovane e importante come la Juventus. Nell’anno a Varese, ero rimasto stupito dalla grinta, dalla lucidità di pensiero e dal grande carisma, oltre che dalle qualità umane. Trovarmelo come allenatore fu un piacere».
– Nessun imbarazzo? «No, anche se in privato gli davo del tu e in pubblico del lei. Peccato che il destino con lui sia stato così cattivo. Noi sapevamo tutto, fu molto dura in quei mesi continuare a pensare al pallone. Fu bravo Cestmír Vycpálek, il nuovo allenatore, a tenere unito il gruppo e fu molto importante la presenza di Italo Allodi, un grande dirigente».
– Un po’ dimenticato, vero? «Molto dimenticato, ma questo è il vecchio vizio del nostro mondo. Senza nulla togliere a Boniperti, Allodi ha avuto grandi meriti nella rinascita della Juve. Quando le cose non andavano bene o c’era da cementare il gruppo, lui organizzava delle cene, spesso con le famiglie. Una volta accadde dopo la papera di Carmignani contro il Cagliari (il numero uno bianconero si fece sfuggire di mano un pallone innocuo, ndr). Tutti a cena e lui che regala al portiere una pinza. Geniale. Intervenne sui premi. Alla Juve gli ingaggi non erano migliori di altre squadre, ma se si vinceva, allora arrivavano tanti soldi. A quel tempo per ogni punto davano 80.000 lire a giocatore. Bene, lui arrivò e disse: “Se battete il Milan, ci sono 800.000 lire per ognuno”. Sia chiaro: lo sportivo vuole sempre vincere, ma certi stimoli sono molto importanti».
– Le strategie di Allodi hanno funzionato, nel 1972 la Juve vince il campionato. «Il mio primo scudetto, quello a cui sono più legato. Anche perché dopo la malattia che colpi Bettega e che lo tenne fuori per metà stagione, io mi sentii molto più responsabilizzato. Verso la fine della stagione ci fu anche il grave lutto di Vycpálek, che perse suo figlio vittima di un incidente aereo».
– Quel campionato vide un grande Torino come vostro avversario. Ha dei ricordi particolari? «Il ricordo più importante me lo ha lasciato Cereser, che mi diede un calcio sulla mano destra, all’altezza del metacarpo anulare, che di fatto è rincalcato verso l’interno. Lui da dietro mi diede la zampata».
– L’anno dopo, stagione 1972-73, fate il bis. «Vincemmo lo scudetto all’ultima giornata. La scossa vera ce la diede il Verona che stava battendo il Milan capolista. Anche noi a Roma eravamo sotto di un goal. Nell’intervallo, dentro lo spogliatoio, ci guardammo negli occhi. Nessun discorso, solo la consapevolezza che ce la potevamo fare. Anzi, che dovevamo farcela. Andò così, 2-1 per noi e alla fine altro tricolore».
– Su quella partita non sono mancate le chiacchiere. «Ma lasciamo stare! Noi sapevamo che per arrivare al traguardo dovevamo solo vincere. Lo stimolo decisivo sono state le notizie dal Bentegodi. E poi, se andiamo a vedere i goal, cosa c’è che non va? La difesa giallorossa poteva fare diversamente sul colpo di testa di Altafini? E sulla bomba di Cuccureddu all’incrocio dei pali? Fu una vittoria solare. Semmai c’era un altro problema. Riguardava Vycpálek. Prima della trasferta romana, anche per smorzare la tensione, qualcuno di noi disse: “Mister, domenica non possiamo vincere: non ce la faremmo a portarla in trionfo”. E lui: “Ma io domenica sarò leggero come una libellula”».
– Prima ha nominato Altafini, che proprio in quella stagione venne alla Juve: come fu preso il suo arrivo? «Bene, veramente. José era un vero campione, capace di essere decisivo anche giocando poco. Si inserì benissimo in squadra e poi quello lì era un gruppo veramente solido e caratterizzato da grandi personalità».
– Ha qualche episodio curioso che le torna alla memoria? «Penso a Helmut Haller, un tedesco napoletano, giocherellone e scherzoso. A volte portava con sé quel palloncino che sedendoci sopra emette rumori simili alle puzzette. Era uno dei suoi divertimenti preferiti. Senza dimenticare le sfide all’ultima moda tra Causio e Damiani. Li facevamo sfilare nello spogliatoio e poi davamo i voti».
– Il 1973 è anche l’anno della finale della Coppa dei Campioni persa dalla sua Juventus contro l’Ajax. «Un gran peccato. Loro erano sicuramente più forti. Noi andammo in ritiro per troppo tempo. In più, ci fu anche un cambio di formazione che non ci convinse. Fuori Cuccureddu e dentro Altafini. Ma la cosa che ci fece più male fu vedere come loro trattarono la Coppa una volta saliti sul pullman. La buttarono lì, sui sedili, come fosse un trofeo qualsiasi».
– Nel 1975 arriva il suo terzo scudetto, poi l’anno dopo l’addio. «Andai all’Inter. Due campionati così così, ma alla prima stagione conquistammo la Coppa Italia. C’è gente che è stata molti anni più di me in neroazzurro senza vincere nulla».
– Infine c’è l’Ascoli e soprattutto una data: 30 dicembre 1979. «E chi se la scorda? Giochiamo a Torino contro la Juventus. Prima della partita mi viene a salutare l’avvocato Agnelli, un grandissimo onore per me. Io sono alla caccia del mio centesimo goal in Serie A. Sembra una maledizione, me ne hanno già annullati un paio nelle giornate precedenti. Dopo otto minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via».
Era il cosiddetto centravanti di movimento,molto agile,veloce, scattante, manovriero, sempre in movimento per creare spazi ai compagnia e ,soprattutto, all'altra punta.
RispondiEliminaQuest'ultima più efficace e capace di fare gol.
Come l'alzatore della palla per lo schiacciatore nella pallavolo.
Nel triennio tra il 1968 ed il 1970era popolarissimo, amatissimo ed incontenibile.
Guadagnò alla Juventus una miriade di tifosi meridionali, specie nella sua Sicilia. Poi Causio fece il resto.
Ancora molto giovane, sembrava indirizzato verso una carriera da stella di prima grandezza anche a livello internazionale.
Specie dopo lo splendido gol del raddoppio nella finale dei campionati europei con la Jugoslavia per il quale tuttora è impresso nella mente di tutti gli sportivi italiani.
Poi dopo l'improvvisa ed inattesa defezione ai campionati del mondo in Messico la sua stella cominciò a declinare e non ritornò più ai livelli originali.
Qualcosa, evidentemente, si ruppe.
A quanto ne so gli Agnelli ne erano orgogliosi non solo per il suo carattere affabile, simpatico e docile, ma,soprattutto, perchè il medesimo, essendo siciliano, rappresentava,incarnava, la compiuta armonica integrazione tra operai ed impiegati settentrionali e meridionali che la Fiat aveva saputo realizzare con Valletta.
Così che la società rappresentasse
l'Italia stessa.
Con lui la Juventus poteva davvero definirsi la fidanzata
d'Italia perchè era composta da italiani di ogni provenienza.
Paolo Rossi ne è stato un epigono, un continuatore, anche se Rossi aveva dei riflessi migliori di lui ed era ben più scattante sul breve e più dotato tecnicamente.
Tuttavia, a mio modesto avviso, Bettega sarebbe stato valorizzato di più nel tempo se avesse avuto accanto a lui, invece che Anastasi o Rossi (i quali non erano certo dei leoni ed erano quasi inesistenti di testa),Roberto Boninsegna con il quale avrebbe formato alla Juventus una coppia d'attacco straordinaria.
Come si intravide in qualche momento nei due anni in cui Boninsegna, ormai a fine carriera, approdò alla Juventus.
Boninsegna non creava spazi solo con il movimento, come facevano Anastasi ed,ancora meglio,Rossi, entrambi moto scattanti ed agili, ma anche perchè era un animale da area di rigore, un combattente audace e tenace, forte con i piedi e di testa. Molto capace ad utilizzare i lanci delle mezze ali e, ancor più, delle ali.
Il quale, di conseguenza,si attirava addosso sempre due o tre difensori.
Ed è facile immaginare cosa mai avrebbe fatto Bettega, abile con i piedi ed eccelso di testa, in quegli spazi.
Angelo Balzano.
This guy was a fantastic dribbler with a football at his feet!!!
RispondiEliminaE' stato un grande giocatore , era il sosia del Muller tedesco dell'epoca , farebbe la sua bella figura anche adesso
RispondiEliminaPrima di tutto....Aiguroni Pietruzzu per il Tuo 65° compleanno.
RispondiEliminaHo letto tanti commenti in questo blog, ma il più bello è stato la somiglianza con Gerd Muller, il tedesco del Bayern. E' vero, in quel periodo anche io mi cimentavo a difendere a spada tratta il mio idolo Anastasi, contro ogni altro centravanti, Italiano o straniero. chi non ha amato il calcio di Pietro Anastasi, non ha mai avuto il calcio nel sangue. In sardegna dove spadroneggiava Gigi Riva, era quasi tabù considerarsi Juventino, ma le emozioni di Pietruzzu sono uniche e indimenticabili, come il poster di cm. 110 x 70, che veneravo come un altarino nella mia cameretta. Auguroni Pietro. sarebbe bello rivederti in campo anche e solo per una partitissima dei grandi della storia del calcio.
l'ho amato così tanto che quando l'hanno venduto ho smesso di tifare juve! Nel calcio metafora della vita incarna l'estro incontenibile e l'attaccamento assoluto alla maglia.
RispondiEliminaQuasi nessuno ricorda il suo gol più fantastico: quello decisivo del 2-2 nel retour match fuori casa contro l'ujpest dosza: di testa in tuffo sbucando dal fango su respinta del portiere.
E quando ha vinto con l'Ascoli a Torino ho pianto di gioia: GRANDE, INARRIVABILE PIETRO, idolo della mia giovinezza!!!!
Grande Pietro, ancor oggi, rivedo i bei momenti della tua carriera. Grande uomo U' Turcu
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