«Calmo come un veterano – racconta Caminiti – e agile come un cherubino. La Juventus ‘57-58 del 10° scudetto gli dovette parecchio. E sì, ci furono in quella Juventus i 28 gol di Charles, un armadio pieno di tutta l’irruenza pedatoria del Galles; e i 22 di Sivori, cattivo come un indio e fantasioso come un faraone; e gli otto gol scientifici di Boniperti che era il capitano.
Ma il ragazzo di vent’anni in porta era in gamba, neh… I torinesi che amano la Goëba se lo ricordano, con la sua maglia bianca, i riccioletti, il viso di fanciullo con quegli occhi stellanti, dietro a quell’altro armadio di Rinone Ferrario, a quel pudico compare di Colombo, a quel vanitoso efficiente di Garzena, a quello stakanovista di Emoli, all’ala lungo-linea Stivanello; perché, senza le sue parate capolavoro, incredibili e meravigliose per semplicità, non sarebbe arrivato il decimo scudetto della serie.
Certo, come portiere era affatto diverso dagli altri. Mattrel era tutto stilizzato e conservato per quella parata, realizzata in quella frazione di secondo, stando lì dove arrivava il proietto, sapendo già che non avrebbe potuto arrivare che lì. Un portiere dal proverbiale senso del piazzamento, unico nel suo genere fino a quel momento, assai diversi essendo stati portieri come Sentimenti IV o Viola. Cochi grande nel repertorio tecnico-atletico e forse perfetto; Viola enorme come strapotere fisico tra i pali; ambedue più istintivi che razionali.
Invece questo fanciullin dava al ruolo sembianze originali, non soltanto per le sue ridotte cadenze fisiche, con Rinone Ferrario che spazzava l’area come il più gagliardo dei liberi; per scelta, predestinazione, come se giocasse nel sogno».
Nato a Torino il 14 aprile 1937 e cresciuto nella società bianconera, dietro alla rete di Viola, apprende, annota, disegna parate nelle pagine dell’immaginazione, sognando di poter indossare, un giorno, quella maglia così gloriosa. Riesce raggiungere l’organico della prima squadra appena ventenne (dopo un anno trascorso in prestito all’Anconitana) ed è subito titolare nella favolosa stagione 1957-58, conclusa con lo scudetto della stella.
Portiere di calma olimpica, dall’innato senso del piazzamento, Mattrel è, inoltre, dotato di grande agilità. Secco come un grissino, aria sognante, apparentemente svagata, mille volute di biondo-oro gli aureolano quel faccino tondo e infantile. Sta tra i pali e acchiappa tutto, palloni alti, tesi, radenti e parabolici: un talento naturale.
Nella Juventus, dove titolare inamovibile è comunque per il solo torneo 1957-58 (con l’esclusione della stagione 1961-62 che disputa in mezzo ai pali del Palermo) si ferma fino a tutto il campionato 1964-65, totalizzando 115 presenze. Con i bianconeri vince tre scudetti (1958, 1960 e 1961) e altrettante volte la Coppa Italia (1959, 1960 e 1965).
Il suo compagno al Palermo, Alberto Malavasi, lo ricorda: «Non aveva eccelse doti acrobatiche e atletiche, ma sapeva organizzare la difesa come nessuno. Lui era sempre piazzato: sorprenderlo era un’impresa, perché Carletto sapeva prevedere tutte le traiettorie. Era un professionista di rara serietà; studiava tutto, si allenava come un certosino, non lasciava nulla al caso».
Nel 1965 la Juventus lo cede al Cagliari e dopo un paio d’anni in Sardegna si accasa alla Spal. Dopo due gettoni con la Giovanile e una con la Nazionale B raggiunge la maglia azzurra della massima rappresentativa che indossa due volte, prendendo parte alla sfortunata spedizione per il mondiale cileno del 1962.
«Ho avuto le mie disavventure – raccontava – e ho anche sofferto tanto, ma sono sempre riuscito a superare tutto. Sono dovuto anche rimanere fermo un anno per la schiena, però, ho ricominciato da capo, con pazienza e con ostinazione. A Palermo ho passato un anno fortunato che mi ha procurato la convocazione in Nazionale; poi, sono tornato alla Juventus, cominciando la serie di stagioni altalenanti, di alti e bassi, di concorrenze con Anzolin. Ho attraversato, anche, momenti di scoraggiamento; apparenza a parte, sono una persona molto sensibile. Ora, posso dire che quanto mi capitava era normale per un calciatore e che io ho sempre drammatizzato per mancanza di esperienza. Ho smesso presto con il calcio, ma non ho grossi rimpianti; ma doveva andare così e accetto il tutto con fatalismo».
Di un calciatore, solitamente, si ricordano le tappe di una più o meno luminosa carriera; si elencano le vittorie e le sconfitte, scudetti e Coppe, si rammenta prima di tutto, e spesso soltanto, il calciatore. Eppure, dovendo parlare di Mattrel, si sente fortissima la necessità di anteporre a tutto, una testimonianza del cuore e ricordare l’uomo e il calciatore, perché l’uomo non ha mai abbandonato l’atleta.
«Era un uomo ironico, intelligente, simpatico e davvero buono con tutti – racconta la moglie Grazia – i difetti? Forse la sua immensa e sincera bontà poteva essere scambiata da qualcuno per ingenuità; poi, probabilmente, era troppo juventino: se così non fosse stato, avrebbe accettato ingaggi più importanti in società altrettanto prestigiose mentre, invece, per non tradire mai la sua fede, non ha mai osato dire di no alle offerte dei dirigenti bianconeri».
Il ricordo del figlio Diego: «Papà ci raccontava spesso di quando, a 10 anni, con una scusa qualsiasi usciva di casa e si precipitava al Combi, per assistere all’allenamento della Juventus. Se ne stava un po’ sugli spalti e poi, quatto quatto, scavalcava la rete e si piazzava dietro la porta di Viola, il suo idolo di sempre. Poiché si offriva regolarmente di fare il raccattapalle, nessuno trovava il coraggio di cacciare quel moccioso così simpaticamente invadente; con grande costanza, da quella posizione privilegiata, mio padre cercava di imparare il senso di posizione e di assimilare tutti i trucchi del mestiere. Un bel giorno, Parola, dopo aver scorto per la centesima volta quel biondino a bordo campo, decide di fargli sostenere un provino. A 12 anni aveva inizio la favola del bambino che si apprestava a diventare grande, soprattutto grazie al calcio. Vennero presto le convocazioni in tutte le rappresentative Nazionali e poi i tre scudetti, le due Coppa Italia, la stagione in prestito al Palermo, i campionati mondiali in Cile e il ritorno in bianconero per altri tre campionati, coincisi con l’eterno dualismo, sempre mal digerito, con l’amico Anzolin. Ma, a lui, bastava giocare per la sua Juve: quando si trattava di discutere il rinnovo del contratto, si faceva forza degli aumenti ottenuti dai compagni e annunciava ad amici e parenti: “Quest’anno voglio proprio strappare un bell’ingaggio”. Ma poi, una volta che si trovava di fronte ai dirigenti, non aveva mai il coraggio di chiedere di più e finiva sempre per accettare la stessa cifra o, forse, addirittura meno dell’anno precedente. Il problema era che, in Juve, tutti, proprio tutti, sapevano che, pur di indossare quella maglia, avrebbe giocato anche gratis».
Un destino dispettoso e beffardo, lo porta via ai suoi cari a soli trentanove anni, in un tragico incidente stradale, non concedendogli mai di sfogliare, orgoglioso, l’album dei ricordi.
«Mio marito era andato a Barbania, nel Canavese, per un pranzo di lavoro e, alle 15 e 30, mi aveva telefonato per dirmi che stava per partire alla volta di Carmagnola, dove, nel tardo pomeriggio, avrebbe dovuto disputare una partita di beneficenza con le Vecchie Glorie, a favore dei terremotati del Friuli. Quella è stata l’ultima occasione in cui ho sentito la sua voce; a Front Canavese, per cause mai completamente accertate, la sua 131 è finita fuori strada e, sullo slancio, ha terminato la sua corsa contro una betulla. Carlo è morto sul colpo, dopo aver battuto la tempia sul parabrezza, non ostante l’urto in sé non fosse stato particolarmente violento; l’autovettura, infatti, era ancora in buone condizioni. La fortuna gli era stata assai nemica; un anestesista, che aveva assistito all’incidente, lo ha soccorso immediatamente ma, purtroppo, il suo intervento è risultato vano. Era il 1976 e il mio Carlo aveva solo 39 anni!».
ANGELO CAROLI, DA “STAMPASERA” DEL 27 SETTEMBRE 1976
Aveva la mia età: era nato il 14 aprile, il mio stesso mese, del ‘37. Sottolineammo spesso questo particolare, sorridendoci sopra in modo infantile, come fanno i ragazzi che si raccontano tutto della propria vita. Conobbi Carletto nel 1955. Ero stato acquistato dalla Juventus. Erano i tempi di Puppo.
Nelle giovanili bianconere cresceva un fanciullo di talento, biondo, riccioluto, svagato, occhi chiari, un sorriso perenne ma non disteso, direi apprensivo, quasi che quell’aria apparentemente tranquilla occultasse chissà quali sedimenti di segrete preoccupazioni. Faceva il portiere, aveva due gambe un po’ arcuate, secche come rami secchi, che facevano contrasto con quel faccino a tutto tondo e rosato come quello dei celebri putti di Luca della Robbia. Faceva il portiere ma non volava. Il suo talento lo spingeva alla riflessione: aveva avuto maestri come Sentimenti IV e Viola: il suo primo istruttore fu Bertolini, il lunghissimo mediano che avvolgeva la propria testa con un vistoso fazzoletto e fece grande la Juve degli anni ‘30.
Carletto era puntiglioso: il più severo critico di se stesso. Accettava la bravura altrui quando era geometrica, scontata, calcolata ed esaltata dallo stile e dalla classe: rifiutava i gol scaturiti per caso, da una pedata male assestata, che imprimeva al pallone traiettorie vaganti, inattendibili. Si indispettiva spesso con il sottoscritto, che aveva il piede ruvido, e che lo superava con pallacce sbilenche e senza senso. Sorridevamo anche di questo. I palloni, intanto, continuavano a finire nelle braccia di quel portierino che in pochi anni bruciò la concorrenza, da Viola a Vavassori, a Romano.
Disputò una stagione con Parola nell’Anconetana, poi vinse tre scudetti nella Juve. Fu convocato nella Nazionale che viaggiava verso Santiago del Cile, mondiali del ‘62. Fu la stupefacente stagione vissuta nel Palermo a consacrarlo. Carletto ricordava volentieri quell’anno, la Sicilia, quei soli che si sfacevano al tramonto come tante arance, quel calore della gente del Sud. In Cile visse un’esperienza amara. L’Italia fu sconfitta per 2 a 0 dal Cile, dopo 90’ tempestosi Per quell’evento, Carletto spesso si rabbuiava: aveva subito da Carosio un’ingiustizia radiofonica. La celebre «voce» calcistica accusò Mattrel di aver lasciato i pali per raccogliere il berretto depositato vicino a un montante. E per questo episodio il portiere avrebbe subito dal Cile un incredibile gol. Mattrel si turbava e sempre smentì Carosio, rifiutandone la versione.
Erano rari i momenti di turbamento di Carletto. Era un uomo felice, viveva per il lavoro e per la famiglia. Una corsa per migliorare la propria posizione sociale, con una condotta di vita decorosa, serena, onesta. Ieri, Carletto ha interrotto bruscamente questa corsa e lascia la moglie Grazia, i figli Diego di 11 anni e Pier Carlo di 7. E lascia una nuvola di amici, con i quali discuteva di lavoro e di calcio, con i quali trascorreva week-end sportivi, per allungare illusoriamente i ricordi, le domeniche festose negli stadi.
Conobbi Mattrel nel ‘55; da allora l’ho frequentato spesso. Non cambiava mai: sempre pacato, disponibile, giovanile. E ora lo piango, incapace di pronunciare una sola sillaba. Soltanto silenzio.
UN SIMPATICO RICORDO DELLO STESSO ANGELO CAROLI
Nella tournée in Scandinavia del 1957 si verificò un episodio piccante. Nonostante fosse il mese di agosto la temperatura non era estiva. Carletto Mattrel fu sorpreso dai compagni di squadra mentre si rifugiava nella propria camera insieme con una splendida fanciulla dagli occhi azzurri come il mare e una cascata di capelli che ricordavano i campi di grano del Texas. Carletto non si accorse di nulla e andò a letto tranquillo. Umberto Agnelli fu messo al corrente. Bisognava mandare a monte quella notte d’amore. Il presidente bussò alla sua camera, ma non ebbe risposta. Bussò di nuovo, ancora silenzio. A quel punto Agnelli, con tono divertito ma severo, aggiunse: «Apri. So che sei lì dentro e che non sei solo». Mattrel uscì dalla camera con un pallore lunare diffuse sulle gote rotonde. Umberto chiese spiegazioni e Carletto replicò con stupore candido e con prontezza sbalorditiva: «Avevo freddo e ho pensato di scaldarmi un poco». Tutto si concluse con una risata omerica. Raccontarono l’episodio, molti anni dopo, alla moglie Grazia. Rise anche lei, con tenerezza. Erano tempi scapigliati, spensierati e i ritiri sembravano Luna Park...
Persona anche umanamente stupenda.
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