domenica 24 marzo 2024

Sergio CERVATO


Figlio di contadini, nasce a Carmignano di Brenta (PD), il 22 marzo del 1929 ed è scoperto diciottenne nel Bolzano da Renato Bottacini. A seguito della retrocessione, in considerazione delle qualità del giocatore, Bottaccini lo indirizza, viste le ottime sue conoscenze con il sodalizio genovese (allora i procuratori non esistevano), alla Sampdoria. I provini non sono esaltanti e la società si aggrappa, per rescindere il contratto, a una carenza di equilibrio, essendo l’atleta mancante di una falange al dito della mano. Viene quindi immediatamente indirizzato alla Fiorentina e sarà la sua fortuna.

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Sergio Cervato era il giocatore di ogni epoca che aveva disputato più partite nella Fiorentina: 316 in undici anni di fedeltà. Era uno di «quelli dello scudetto» (ne rimanevano quattro o cinque) e i tifosi fiorentini lo lasciarono partire con molti brontolii ma senza clamorose contestazioni. Cervato stava per compiere trent’anni e sembrava un vecchio combattente pieno di ferite: aveva avuto guai a un piede (il famoso «piede freddo» che a suo tempo aveva bloccato anche Meazza) e si diceva che fosse troppo spesso esposto a strappi muscolari. Anche in Nazionale, dopo venticinque partite, non era più inamovibile: lo sostituiva un tracagnotto della sua stessa stazza, Gaudenzio Bernasconi, centromediano della Sampdoria.
La Juve lo acquistò, ufficialmente, per cinquanta milioni. In quegli stessi giorni il Bologna ingaggiava Campana per ottanta e la Roma – con la stessa cifra – Manfredini detto «Piedone». Eravamo alla vigilia del boom economico. Una FIAT Millecento lusso, appena presentata al salone di Ginevra, costava un milione e 50.000.
La critica era quasi unanime nel giudicare Cervato l’unico terzino italiano di valore europeo dai tempi di Ballarin e Maroso. Aveva giocato per anni a sinistra componendo con Magnini una formidabile coppia, poi si era spostato al centro e, da libero, aveva assunto un ruolo, a detta di alcuni, più idoneo al suo stile. Aveva nello slancio la sua arma migliore, era veloce e intelligente, con una visione ben precisa del gioco difensivo, dove l’eleganza era pari alla decisione. Sono rimasti famosi certi suoi salvataggi che sembravano disperati e invece venivano da fulminee intuizioni. Aveva un modo per scacciar via l’incubo della capitolazione che scatenava applausi insoliti per un difensore, di norma riservati a goleador (o ai portieri dei miracoli). C’è chi ricorda ancora un suo intervento in una partita contro il Brasile, a San Siro, nel 1956: il centromediano Orlando era solo in piena area, davanti alla rete di Viola, ottantamila col cuore in gola, sembrava un goal inevitabile, quando si vide Cervato sbucare alla sua maniera come da una zona nascosta del campo e soffiare in un lampo, con una «spaccata meravigliosa», la palla dal piede del brasiliano. Lo salutò un boato di riconoscenza. L’Italia poi vinse 3-0 e quell’intervento è rimasto indimenticabile.
Cervato era famoso anche per i goal che segnava, non solo quelli che impediva. Fu il prototipo del difensore-cannoniere, grazie ai suoi micidiali tiri piazzati: i rigori, che ha imparato a battere inesorabilmente dopo qualche errore di gioventù (uno dei primi, calciato lontanissimo dai pali, lo aveva sbagliato proprio contro la Juve a cinque minuti dalla fine di una partita finita 0-0), ma soprattutto le punizioni. Quando ce n’era una da limite, lui veniva avanti con la sua andatura dondolante con quelle gambe da cow-boy appena smontato da cavallo, prendeva una breve rincorsa e lasciava partire tiri che raramente i portieri facevano in tempo a vedere. Spesso restavano impalati, impotenti, mentre il pallone si infilava lassù, nell’angolo fra il palo e la traversa.
Con un goal simile – nel «sette», come si dice in gergo – si presentò al suo esordio in maglia bianconera. Era addirittura la finale di Coppa Italia, che allora si giocava in settembre: a San Siro la Juventus travolse l’Inter per 4-1 e Cervato fu il cannoniere della giornata, segnando – tra quelli di Charles e Sivori – due gol, il primo appunto su punizione e il secondo su rigore. La Juve di quella stagione (1959-60) era allenata da Renato Cesarini e viveva un momento particolare: c’era Boniperti che non gradiva il ruolo di ala destra e sembrava sul punto (udite, udite) di cambiare società. Cervato era stato chiamato a rafforzare una difesa tutta nuova e impostata su due giovani di talento, Castano e Benito Sarti. Qualcuno nutriva perplessità sulla tenuta del vecchio difensore: lui rispose disputando ad alto livello tutte le trentaquattro partite del campionato e segnando sei gol (uno appena in meno di Boniperti) come contributo personale alla conquista dello scudetto; Riprese anche il suo posto in Nazionale: tre partite, l’ultima a Barcellona, una sconfitta patita dalla Spagna di Suarez e Di Stefano nel marzo del 1960, commissario tecnico Gipo Viani.
Nella sua seconda stagione juventina Cervato fu di nuovo tra i protagonisti. Giocò ventotto partite (segnò un solo gol, su rigore), riprendendo in qualche occasione l’antico ruolo di terzino e alla fine si ritrovò vincitore su due fronti: la Coppa contesa in finale proprio alla sua vecchia squadra; la Fiorentina e lo scudetto difeso in molte risse con l’Inter di Herrera. Così quando lasciò la Juve poteva vantare un «en plein» davvero straordinario: in due stagioni aveva vinto due Coppe Italia e due campionati.
Finì la carriera nella Spal, dove giocò altri quattro anni e continuò a firmare, con le sue micidiali punizioni, altri gol. Il destino, però, volle che l’ultimo pallone messo in rete dal terzino-cannoniere fosse un autogol. Accadde all’Olimpico contro una Roma che schierava un De Sisti ventunenne.  

VLADIMIRO CAMINITI, DAL SUO LIBRO “JUVENTUS JUVENTUS”
Aveva un modo di contrare che era azzannare, non c’era possibilità che si distraesse e in campo infatti non sorrideva mai, più spesso digrignava i denti; era rude alquanto ma perché al calcio una volta i terzini si occupavano di rinviare il pallone e si impegnavano, si studiavano di farlo come si facevano una volta le porte e le finestre, cioè solide, forti, e solida e forte era la pedata, i meno bravi alzavano il pallone a campanile, i più bravi, come Cervato, davano al pallone le giuste traiettorie. Calciava le punizioni con mirabile effetto. Può essere considerato uno dei più grandi terzini della storia. Lo confermò, anche da stopper, alla Juve.

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