lunedì 27 febbraio 2023

Sergio GORI


«È un ragazzo estremamente educato – scrive Alberto Refrigeri su “Hurrà Juventus” – non alza mai la voce, ha le idee chiare e le esprime con disarmante semplicità. Quando parla ti guarda fisso negli occhi, sempre, tranquillo e sicuro di sé. Un ragazzo, insomma, veramente a posto, con il quale capisci subito la facilità del dialogo, con il quale comprendi di poter affrontare qualsiasi argomento, che le sue risposte non saranno mai evasive o di difficile interpretazione, ma profonde e categoriche».
Bobo diventa juventino nell’estate del 1975; arriva da Cagliari a rinforzare una squadra che ha vinto lo scudetto e si appresta a disputare la Coppa dei Campioni. È una punta, ma sa adattarsi anche a fare il rifinitore. Parola, trainer di antica milizia gloriosa, medita l’impiego di Bobo come alternativa strategica a Capello, infortunatosi seriamente sul finire della stagione precedente, per il quale si paventano tempi di recupero piuttosto lunghi. Ma è chiaro che della classe e dell’esperienza di Gori, la Juventus avrà bisogno e non saltuariamente; è un titolare in più, in una rosa ricca di alternative.
«Mi hanno definito un jolly di attacco – dice il giorno della presentazione – e per questo penso che mi abbiano voluto qui. Non so ancora in quale ruolo Parola mi utilizzerà, io mi sento centravanti arretrato, più che vera punta, anche se l’anno scorso a Cagliari ho segnato dieci gol. Convivenza con Anastasi? Sono problemi dell’allenatore ma penso che non ci sarà nessun conflitto tra di noi. E poi ci può pure essere l’eventualità che Gori non giochi affatto, quindi ogni discorso è prematuro. Mi vedevo già milanista quest’anno, invece sono approdato qui. Una bella soddisfazione, un premio per tanti sacrifici sostenuti. Tutti mi criticavano perché si diceva che fossi un “figlio di papà”, solo perché mio papà aveva un ristorante dove si potevano trovare i giocatori dell’Inter e del Milan. Ora conoscerete un Gori diverso. Sono contento soprattutto – dice scherzando – di essere compagno di Gentile almeno non mi picchierà più».
Il campionato da immediatamente spazio a Sergio; 5 ottobre 1975, prima giornata di campionato al Comunale, con Juventus-Verona e Gori mezzala, in una partita di attacco che richiede il contributo di tutti alla spinta offensiva. Prova positiva, anche se Bobo dimostra di saperci fare assai meglio dalla tre quarti in su. Bene anche a Como, seconda giornata, in cui la Juventus si salva per il rotto della cuffia, pareggiando 2-2 in extremis, con una punizione di Cuccureddu.
Il primo vero acuto di Gori nella prima gara di cartello della stagione, al Comunale, contro la Fiorentina Una Juventus caricatissima, in vista dell’impegno di Coppa dei Campioni con il Borussia Mönchengladbach, travolge i gigliati con memorabile prova corale e Gori segna la prima, stupenda rete. Concede il bis sette giorni più tardi, contro la sua ex-squadra, a Cagliari; la rete di Bobo decide la partita, consegnando ai bianconeri il primo successo esterno della stagione. «È stato molto abile Causio a effettuare il cross. Anastasi mi ha lasciato la palla ed io senza pensarci due volte l’ho calciata al volo, come veniva. Non ho provato niente di particolare. In quel momento non pensavo al Cagliari. Ero soltanto felice per aver segnato».
È un ottimo momento, sia per la squadra che per Gori, stabilmente impiegato da Parola, anche se con compiti tattici non sempre uguali. A ridosso delle punte, con licenza di spingersi in area, Sergio piazza spesso il suo spunto vincente, con esiti talvolta clamorosi. Come il 16 novembre 1975 a Milano, contro il Milan, in una partita spigolosa ed equilibratissima nella quale i bianconeri si giocano il provvisorio primato in classifica; è proprio un gran colpo di testa di Gori a risolvere il match. «Ricordo con gioia quella partita, quando segnai il gol della vittoria a un quarto d’ora dalla fine. Fu una doppia soddisfazione in quanto, prima dell’incontro, Rocco aveva dichiarato che era contento che giocassi io al posto di Damiani, perché Oscar era più difficile da marcare».
Non mancano, chiaramente, anche momenti meno esaltanti ma Bobo trova il modo di conquistare simpatie e consensi. Va nuovamente in gol nella netta vittoria sull’Ascoli (3-0, il 21 dicembre), ma soprattutto si rivela match winner di gran valore nella partitissima del 4 gennaio 1976, Juventus-Napoli in un Comunale stracolmo. Al vantaggio napoletano, siglato da Savoldi su rigore, risponde Damiani sul finire del primo tempo. E quando le cose sembrano mettersi decisamente per un pareggio, ecco la zampata di Gori, a una manciata di minuti dalla fine; il suo gol fissa il punteggio sul 2-1, la Juventus vince ed è sempre più sola.
La stagione, intanto, è nel vivo; eliminata in Coppa dei Campioni dal Borussia (con Gori autore del primo dei due gol bianconeri nella gara di ritorno giocata a Torino e terminata 2-2), la squadra juventina accusa periodo negativo e favorisce, con risultati alterni, la clamorosa rimonta del Torino. Gori trova ancora il modo di mettersi in evidenza, segnando il gol della vittoria a Roma contro la Lazio e realizzando una significativa doppietta a Bologna contro i felsinei. La stagione 1975-76 finisce nei peggiori dei modi, con uno scudetto perso per un soffio e proprio in dirittura di arrivo. Uno dei pochi a vantare, alla fine, un curriculum di tutto rispetto è proprio Gori: ventidue presenze in campionato, otto reti quasi tutte decisive. Secondo cannoniere bianconero, dopo Bettega, ma ben davanti a Damiani, Causio, Altafini e Anastasi. La conferma di Bobo per la stagione successiva è scontata.
Ma per l’ex compagno di attacco di Gigi Riva, il 1976-77 non sarà la stessa cosa. Colpa sicuramente non sua, semmai fatalità. Arriva alla Juventus Boninsegna, centravanti di mille battaglie e il posto di bomber non può che essere suo di diritto. Mezzali sono Tardelli e Benetti, un’accoppiata vincente e, per Gori, le occasioni di farsi luce diminuiscono a vista d’occhio; gioca spezzoni di partita, ereditando in questa delicata incombenza la funzione di quel vecchio marpione di Altafini, che ha abbandonato la nave bianconera.
Sembra, per lui, una stagione incolore, destinata all’anonimato, in una squadra che al contrario sta frantumando tutti i record, nella sua scalata allo scudetto. Ma è destino che Gori debba vestire i panni del risolutore, nei momenti cruciali. Accade a San Siro, terz’ultima di campionato. È l’8 maggio del 1977: Inter-Juventus è, praticamente, l’ultimo ostacolo che divide l’undici di Trapattoni dallo scudetto. Boninsegna, che darebbe dieci anni di vita per giocare contro la sua ex squadra, deve dare forfait per un infortunio riportato in Coppa Uefa; tocca, quindi, a Gori e Bobo, oltre a giocare una gran partita, segna il gol che sblocca paura e risultato. La Juventus vince a Milano e ipoteca il più sensazionale scudetto dei tempi moderni.
«È stato un anno infelice – ammette a fine incontro – questa è la mia prima partita vera, dopo una lunga attesa, ed è ovviamente il mio primo gol. Quando il mister sabato sera mi ha detto che avrei giocato e che dovevo giocare in un certo modo, muovendomi spesso sulle fasce laterali, mi sono detto: “Voglio uscire da San Siro tra gli applausi, voglio dimostrare che non sono un giocatore finito anche se siedo sempre in panchina”. Ho fatto il gol, sono uscito tra gli applausi. Va bene così. È stato un anno difficile, per una domenica sono felice anch’io. Mi hanno invitato alla “Domenica Sportiva”, non ho accettato, voglio gustarmi una serata in famiglia, qui a Milano. L’anno scorso era stato tutto diverso, avevo disputato ventidue partite, segnato otto gol. Ma quest’anno chi si ricordava più di me? Adesso siete tutti qui che mi attorniate, che mi intervistate. Ripenso ai giorni, e sono stati tanti, in cui compravo i giornali e non trovavo mai il mio nome, nemmeno per sbaglio. Sembrava perfino che non mi allenassi, che non appartenessi alla Juventus. Oggi ho provato tante emozioni per la prima volta. Ad esempio, non avevo ancora segnato un gol all’Inter che è stata la mia squadra, come lo è stato il Cagliari. Avevo diciassette anni quando misi a segno la prima rete in maglia nerazzurra contro la Juventus a Torino. Oggi, che ne ho quindici dì più, ho segnato un gol con la maglia bianconera contro l’Inter. È stata la mia rivincita. Il mio sfogo. Però non voglio che la gloria si fermi a questa domenica. Non sono tipo da panchina, ci soffro troppo, non gioco a calcio per far soldi ma per sfogare una passione. Comunque di lasciare la Juventus parleremo a fine anno. Ora sono impegnato a conquistare lo scudetto. Se ci riusciamo potrò dire che vi ho contribuito un po’ anch’io. C’era chi si aspettava la vittoria storica dell’Inter. Invece, guardate, c’è stata la mia rete, storica».
Per Bobo, professionista serissimo e campione autentico, una soddisfazione più che meritata, all’epilogo di una stupenda carriera con il solo rammarico di non essere approdato prima ai colori bianconeri. «Boniperti mi propose il rinnovo del contratto, considerato che ero più giovane di Boninsegna. Ma io rifiutai, perché non potevo passare un altro anno in panchina. Non sarei stato utile né a me stesso, né alla Juventus e chiesi di essere ceduto. Boniperti, da quel grande presidente che era, mi accontentò e mi trasferii al Verona».

NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 28 OTTOBRE – 3 NOVEMBRE 2003
«Ho smesso di giocare quando mi sono accorto che arrivavo per ultimo agli allenamenti ed ero il primo ad andare via. Ne avevo abbastanza. Dopo vent’anni di pallone ho preferito dare un taglio netto e cambiare aria. Ma oggi non lo farei più». La confessione è di Sergio Gori, in arte Bobo, dal 1964 al 1978 mezzapunta di Inter, Vicenza, Cagliari, Juve e Verona, con appendice in C2 nel 1979 a Lodi. Oggi Bobo ha cinquantasette anni ed è il titolare del locale “Le cento pizze”, in Piazza Santo Stefano a Milano. «Potessi tornare indietro farei di tutto per rimanere nell’ambiente. Anche con piccoli incarichi. Non hai idea della potenza che ha il calcio: può aprirti mille porte e darti cento opportunità in più. Ma in quel momento ero veramente esausto. Sono entrato nei ragazzi dell’Inter a dodici anni e già vivevo il calcio come una professione. Per vent’anni non ho fatto altro che il calciatore, così quando ho iniziato a isolarmi mentalmente e fisicamente perché non sentivo più il bisogno del gruppo, ho capito di essere arrivato alla frutta. Dopo la tribolata stagione a Verona ho preso la decisione di smettere, sebbene le scarpette al chiodo le abbia attaccate l’anno dopo a trentatré ami. Sono tomato a milano, anche se per il mio dopo calcio non avevo fatto nessun programma».
Le spalle erano, comunque, coperte dalle “Colline Pistoiesi”, lo storico e avviatissimo ristorante aperto da babbo Pietro molti anni prima. «Mio padre, originario di Altopascio, è stato tra i primi a portare la cucina toscana a Milano. Da tifoso sfegatato dell’Inter, fece in modo che quel locale diventasse un covo nerazzurro. Ricordo che da bambino mi capitava quasi tutti i giorni di pranzare con i giocatori. C’era Matteucci che mi aspettava sempre, mentre a Tognon mi divertivo a rubare il pollo bollito dal piatto. Erano tempi diversi, c’era più spontaneità e i derby si giocavano anche al ristorante. Fu mio padre a indirizzare presso un altro locale i giocatori del Milan».
L’altro locale era l’Assassino, il cosiddetto “ufficio milanese” del Paròn Rocco e di proprietà di Ottavio Gori, fratello di Pietro e zio di Sergio. «Non ho fatto altro che rispettare le tradizioni di famiglia rilevando le Colline Pistoiesi, anche perché mio padre nel frattempo era venuto a mancare. Dal pallone alla ristorazione».
Passaggio naturale si direbbe. «Al momento, non c’erano alternative valide, né me le ero costruite. Nel corso degli anni ho cambiato vari locali alla ricerca del giusto equilibrio tra impegno e tempo libero. Le Colline mi avevano spremuto: è il classico ristorante in cui il titolare deve essere sempre in pista, a pranzo e a cena, tutti i giorni. Dopo qualche tempo l’ho lasciato a mia sorella. Adesso sono qui alle “Cento Pizze”. È il mio decimo locale e sarà anche l’ultimo. Sono un po’ stanco. Anche se la pizzeria ti impegna di meno come cucina, dal lato organizzativo richiede tempo e concentrazione. Alle sette di mattina sono già operativo e fino alle tre del pomeriggio si sgambetta. Faccio una sosta e poi riparto per la cena. Ho vari dipendenti ma, soprattutto, c’è la mia famiglia. Lavorano tutti con me: mia moglie Daniela e i miei tre figli Saida, Davide e Pietro».
Un bel team su cui Bobo può contare a occhi chiusi. «Alle nove di sera saluto tutti e me ne vado a casa a riposare». A meno che non ci sia da andare in onda: «Da qualche anno sono a Telenova per parlare di calcio. Mi trovo bene e poi posso dire liberamente ciò che penso».
Perfetto. Cosa pensi del doping? «Non mi piace che la gente parli a tanti anni di distanza. Perché non l’hanno fatto subito? E poi sento talvolta delle accuse del tipo: “chissà cosa ci davano”. I nostri medici erano di una correttezza unica. Ascolta me: se qualcuno mi avesse detto, prendi questa roba qui che oggi giochi da dio e segni, ma ti mangi dieci anni di vita, io l’avrei fatto. E se non è mai accaduto è anche perché i medici non me lo avrebbero mai permesso. Piuttosto più di una volta ho finito l’allenamento vomitando dalla fatica: e chi ti dice che certe malattie non siano il risultato degli sforzi eccessivi?».
I dubbi rimangono, l’unica cosa certa è che Bobo non le manda a dire. «Nel 1969 sono stato il giocatore più multato dell’Inter: pagai 1.200.000 delle vecchie lire perché chiedevo più spazio. E lo stesso mi è successo con Valcareggi. Non mi fece giocare in un’amichevole a Cagliari con la Spagna. Pochi giorni dopo gli telefonai per dire addio alla Nazionale».
Bel caratterino eh? «Non tanto quello, quanto la necessità di sentirsi considerato importante per il gruppo: per me il calcio è l’annullamento dell’egocentrismo a favore della squadra. Quando sono andato a Cagliari, ad esempio, ho fatto da spalla a Riva. E l’ho fatto volentieri, non solo perché Gigi ti era riconoscente, ma anche perché quella era la vera strada per il successo».
Non a caso quel Cagliari vinse addirittura lo scudetto. «È il successo cui tengo di più anche perché in Sardegna ho lasciato il cuore. Sarei rimasto volentieri, ma il destino mi ha fatto prendere altre strade. E il destino nel mio caso si chiamava Juventus e avevo quasi trent’anni».
Curiosa la carriera di Bobo: promessa non completamente mantenuta nell’Inter di Herrera, boom a Cagliari e finale agrodolce con la Juve. Il tutto condito da ben quattro scudetti. «Non si può certo dire che portassi male. Ho esordito con l’Inter a diciotto anni. Era dicembre, faceva freddo. Mi misi la maglia nerazzurra, quella pesante di lana che, se la tiravi, ti copriva quasi le ginocchia. Poi ho segnato alla Juventus nella domenica del sorpasso al Milan. In premio ricevetti la sterlina d’oro dal presidente Angelo Moratti. In pullman verso Milano cotto dalla gioia mi addormentai: è stato il sonno più bello della mia vita».
Dopo due tricolori con l’Inter e lo storico trionfo con il Cagliari, ecco la Juventus. «Il primo anno fu molto positivo, anche se perdemmo lo scudetto all’ultima giornata. In campo io e Bettega spesso ci scambiavamo la posizione, la squadra girava. L’anno dopo rimasi ai margini. Così chiesi a Boniperti di andare via».
Ultimo dettaglio: chi te lo ha messo il soprannome? «Fu il viareggino Giorgio Barsanti, attaccante dell’Inter del 1945-46. Ero appena nato e lui, rivolto a mio padre mi battezzò così: è nato Bobo».

1 commento:

  1. Ricordo le polemiche su Gori: "l'avete preso per non farlo giocare". In realtà Gori giocò molto il primo anno, il secondo anno fu chiuso dalla stagione strepitosa di Boninsegna e di Bettega.
    Poi negli anni '80 e '90 e 2000 ho visto in tribuna fior di giocatori nelle altre squadre, mai una parola di critica, nemmeno per Vampeta (pagato come Ronaldo) e per Quaresma (dov'è adesso, in tribuna o in vacanza?).

    Gori era un gran bel giocatore, peccato che da noi sia arrivato tardi, ma a Cagliari si è tolto tante soddisfazioni.

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