giovedì 25 gennaio 2024

Alberto PICCININI


RENATO TAVELLA, “IL ROMANZO DELLA GRANDE JUVENTUS”
Laterali erano Mari e Piccinini, due ottimi giocatori che si compensavano a vicenda, giocando sovente in diagonale: più difensivo Mari, più per l’attacco Piccinini. Il quale, poi, conosceva i suoi limiti e non solo rimediava con intelligenza e la posizione, ma non faceva mai “il di più” per dribblare e brillare, giocando unicamente per la squadra.
Il 1949, per la Juventus, è l’anno zero. Il ventottenne presidente Gianni Agnelli vuole riportare la sua squadra ai fasti antichi, a quei successi epici culminati, tra il 1930 e il 1935, con l’indimenticabile serie dei cinque scudetti consecutivi. Non è ammissibile prolungare oltre, un digiuno che dura oramai da quattordici anni. Per far fronte a ciò, la rosa della stagione precedente viene quasi interamente smantellata: tra i titolari sono riconfermati i soli Manente, Parola, Boniperti, John Hansen e Muccinelli, ai quali sono affiancati i nuovi Bertuccelli, Viola (che rientra dal prestito alla Lucchese), Mari, Piccinini e gli stranieri Præst e Martino. I miglioramenti per ora sono solo sulla carta; occorre amalgamare al meglio undici campioni e farne una squadra.
L’arduo compito è affidato al neo allenatore inglese Jesse Carver che, con sapiente maestria, allestisce una compagine fortissima, dotata di un solido impianto difensivo e di un centrocampo straordinariamente completo.
Accanto al confermato Parola, il nuovo duo Mari-Piccinini, erede della coppia Depetrini-Locatelli, deve garantire grinta e tecnica, recuperi e suggerimenti, impostazioni e contenimento.
Alberto Piccinini, nato a Roma il 25 gennaio 1923, cresce nella Roma per poi trasferirsi nella Salernitana, dove Gipo Viani lo imposta da finto centravanti. Piccinini veste la maglia numero nove, ma il suo compito è quello di marcare il centravanti avversario, quando i campani sono costretti in difesa; il suo arretramento, consente al difensore centrale Buzzegoli di operare in seconda battuta.
Questa invenzione tattica, è definita “Mezzo Sistema” o “Vianema”; il libero, l’ultimo nato del calcio mondiale, muove i primi passi proprio a Salerno, in quel lontano 1946. Dopo un paio di stagioni, è ceduto al Palermo e raggiunge Torino nell’estate del 1949.
Non ha un fisico eccezionale, ma le qualità proprie del mediano classico; l’ottima visione di gioco e il sempre felice tocco di palla gli consentono finezze in serie e non troppe coperture, delle quali se ne occupa il compagno di reparto Mari.
Giocatore elegante e di classe, Piccinini, che si toglie anche la soddisfazione di disputare cinque partite in Nazionale, è certamente da ricordare come uno dei migliori comprimari degli anni Quaranta e Cinquanta.
Nell’estate del 1952, lascia la Juventus per raggiungere il Milan, dopo aver vestito per ben 104 volte la maglia bianconera e aver segnato due goal.

LINO CASCIOLI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1967
Ogni tanto qualcuno si ricorda di lui. Qualcuno sfoglia a ritroso il grande album del calcio e inevitabilmente lo ritrova, fra le ombre del passato. Ogni tanto cade il diaframma e riappare tra noi e non sembra neppure un fantasma della memoria tanto è ancora giovane e in carne, così simile al campione di ieri, pur, nell’edizione di oggi, imborghesita dalla cellulite, da domandarci subito per quale misteriosa ragione sia scomparso, si sia eclissato, abbia messo tra sé e il calcio troppe cose: il posto di impiegato alla FIAT, il silenzio di tutti questi anni, i due figli che ne adorano il mito e che oggi non potrebbe più tradire, non potrebbe più deludere per una di quelle panchine sgangherate che continuano a offrirgli. Ha tagliato tutti i ponti, eluso tutte le seduzioni, le chimere, sembra che abbia persino evirato i ricordi, pure splendidi e dignitosi. Eppure dopo cinque minuti che ci parlo già scopro che della vita di un tempo, della sua carriera bella e luminosa, ha saputo conservare tutti gli incanti, ma solo per sé. «Non li cedo per moglie o per figliolo, non ne fo con alcuno parti uguali».
Tanti anni senza vivere più di calcio, senza rivedere la Juve, gli amici di un tempo (Ferrario, Muccinelli), senza riconoscere più nessuno. Lontano, isolato, senza respirare l’atmosfera densa di entusiasmo degli stadi. Ma come fa signor Piccinini? Non impazzisce? Non muore? «Ho scelto la mia vita borghese, tranquilla e oggi non me ne pento. Ho tagliato tutti i ponti. Beh, certo… qualche volta mi volto indietro a guardare. Qualche volta mi assalgono i ricordi, tutti insieme, ed è come scoprirsi addosso una febbre. Mi capita quando vedo certe partite alla TV, come Juventus-Inter, Juventus-Milan. Vivo ancora nel calcio a modo mio. Ci vivo con mio figlio Alessandro di nove anni, che conosce tutte le nazionali straniere a memoria. Un fenomeno, mi creda! Ci vivo con mio figlio Stefano, di quindici anni, che ha un futuro come calciatore, creda a me. Un fisicaccio… Mi ricorda Ferrario per la maniera come si piazza al centro dell’area e… Ma lasciamo perdere. Per il momento sono fantasie. Pensi che lui voleva fare il portiere. Ma se è nato stopper in tutto e per tutto!».
Ecco, tutto questo è bello. Mi scusi signor Piccinini, se insisto. Ma un posto da centralinista non le sembra troppo angusto, troppo soffocato per un ex Campione d’Italia, per un ex nazionale? «No. Oggi la penso come ieri, quando feci la mia scelta: avevo allenato il Palermo e per sei mesi il Cosenza. La squadra mi era stata offerta a metà campionato, quando aveva quattro punti in meno della Reggina di Pugliese. Finii il torneo secondo a tre punti di distacco. Insomma, dal mio punto di vista, avevo vinto il campionato. E poi quel diavolo di Pugliese vinceva sempre. Insomma alla mia prima esperienza me la cavai con onore. Tornai a casa e trovai nella cassetta delle lettere l’offerta della FIAT. A Cosenza tergiversavano per il rinnovo del contratto. Non ci pensai due volte e accettai il posto. Oggi lavoro tra gente che mi vuole bene. E poi è stato meglio che sia andata così. Oggi il calcio è così cambiato! Mi viene da piangere a volte quando assisto a certe partite. Non se ne può più. Giocatori che nemmeno sanno stoppare la palla vengono marcati da due o tre uomini. Se ci fosse oggi un Nordhal allora? Quest’anno ho assistito a una sola vera partita di calcio: Juventus-Fiorentina. Poi il buio».
Passiamo in rassegna i laterali di oggi. Vediamo cosa ne pensa uno che ha fatto il mestiere del mediano per tanti anni. Lei, Piccinini, è un’autorità in proposito. Ci sa dire chi le piace di più tra quelli che vanno per la maggiore? Bedin? Fogli? Bianchi? Bertini? «Beh; il ruolo è cambiato. In peggio, naturalmente. Bedin non fa il mediano nel senso a me familiare della parola. È un giocatore come vanno oggi, né carne, né pesce. Mai visto un giocatore intrupparsi con i compagni, come accade nel gioco di oggi. Oggi c’è bisogno soprattutto di centometristi per divorare gli spazi brevi e quelli lunghi. Chi mi piace di più è Fogli, ma non ha il vigore che avevamo noi e non parlo solo di me, parlo di Annovazzi, Chiappella, Venturi, Segato, Fattori. C’era una concorrenza che metteva paura. Oggi quello che ha giocato meglio la domenica prima lo buttano dentro, in Nazionale».
A sentirla parlare viene spontaneo chiedersi, signor Piccinini, se a lei piace davvero il calcio, al di là dei ricordi che le ridesta voglio dire. «No, non dia retta agli sfoghi di chi ne è rimasto fuori. Mi piace, ci sono nato. Se rinascessi rifarei il giocatore di calcio. Forse non commetterei gli stessi errori… Beh, adesso passo dirlo, la mia vita non era sempre la più ligia ai doveri di un calciatore. Eppure due mesi prima dell’incidente di Cagliari (quando schiacciai il ginocchio contro un palo) ero ancora capitano della Nazionale B che giocava in Turchia, la partita in cui esordiva Ghezzi. Andavo ancora forte».
La Juventus che posto occupa nella sua vita di oggi? Anzi, ha ancora un posto? «Il primo posto in senso assoluto. Ho vinto due scudetti e due secondi posti giocando nella Juve. Sono andato in Nazionale. Ho giocato accanto a calciatori indimenticabili come Boniperti, Martino, Muccinelli…».
A quale personaggio del passato ritiene di assomigliare di più, visto che con i calciatori di oggi è impossibile ogni paragone? «È difficile. Forse a Locatelli».
Cosa fa quando a casa, la sera, e ricorda? «Leggo tutti i giornali sportivi. Mi aiutano a dimenticare. Come vede ci vivo ancora in mezzo al mondo del calcio. Ma per procura».
È contento della sua carriera? «No. Avrei potuto fare molto di più, anche se ho avuto tutte le soddisfazioni. Lo sa che, tra campionati-ragazzi, campionati-riserve e tornei veri, ho quasi sempre vinto?».
Che cosa pensa possa ancor oggi essere ricordato di lei, come tipico della sua personalità di giocatore? «Forse la precisione nei passaggi. Carlin una volta scrisse che io ero il giocatore che sbagliava solo tre passaggi in un campionato».
Qual è l’episodio che i suoi figli le chiedono di raccontare più spesso? «Il goal che segnai all’Inter e che ci garantì la vittoria del campionato. Eravamo primi in classifica con tre punti di vantaggio. Dopo venti minuti l’Inter vinceva per 2-0. Rimontammo 2-2 e a dieci minuti dalla fine realizzai il goal del 3-2. Ma bisogna ancora ricordare?».
Un’ultima domanda, signor Piccinini, se le chiedessero di ritornare? «Ci penserei, ma so che non è possibile: Sono così lontano da tutti! No, meglio non pensarci. Meglio vivere la mia vita. Meglio non farci nessun pensiero. La vita di un calciatore è bella. È la miglior vita che un uomo possa fare. Migliore di quella di un divo del cinema, migliore di quella di un re. Ed io l’ho fatta. Adesso è finito. Devo ricordare ancora? O posso andare?»


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