Apri Google e digiti il suo nome – scrive Francesco Schirru, su Goal.com del 2 luglio 2020 –. Il drammaturgo statunitense? La linea di abbigliamento per il surf? La città americana? Il clan, dinastia reale che ha avuto un’enorme importanza nella storia irlandese? No. No. No. No. Meglio allargare la ricerca. Calciatore. Ok, ci siamo. Fabian O’Neill. Nome ispanico, cognome dalla verde isola d’oltre manica. Uruguayano, idolo di Cagliari, di Zizou. Cavalli, donne, bar, fattorie, macchine, povertà e ricchezza, musica e parole. Classe, superata. Milioni. Una storia che ha tutto. Elevato alla massima potenza.
Tre amici seduti al pub. Dopo tre vodka & Redbull ci si abbandona alla nostalgia. È inevitabile. Com’è che si finisce a parlare di fine anni ‘90 e inizio 2000 se la discussione verteva sul presente? Mistero. Fatto sta che si comincia a ricordare, «ma tu hai presente quell’uruguayano su cui puntò la Juventus dopo che fece faville al Cagliari?». «Ma chi, O’Neill?». Bocche spalancate e aneddoti. Voi non avete idea, vanno avanti per ore. Peccato che dopo un po’ il locale chiuda.
Ma di O’Neill ci si ricorda anche usciti, perché è impossibile dimenticare quei lanci, quelle sparate fuori dal campo, le dichiarazioni oltre la carriera. Ha sangue latino e irlandese, un mix esplosivo. Cresce a Paso de los Toros, esplode nel Nacional e 22enne giunge alla corte di un Cagliari che ha appena vissuto la Coppa UEFA ed è terra imbandita per gli uruguayani. Sono stati di casa, sono di casa, lo saranno. Un legame incredibile tra Sardegna e Sudamerica.
È un trequartista che non ha la dinamite nei piedi, ma il compasso, quello sì. Sa disegnare, creare la bellezza, renderla unica per sempre. Conquista il cuore dei sardi, che lo vedono come un hermano del Sudamerica, conquista la Nazionale. Conquista persino Zinedine Zidane, monsieur Zizou che di classe e precisione se ne intende quanto basta da vincere il Pallone d’Oro mentre el señor O’Neill strega l’isola: «Il giocatore con più talento che ho visto, O’Neill».
Vi sembra poco? Siamo all’inizio. C’è così tanta roba, la penna (la tastiera) ha sete di sapere. O’Neill è uno di quelli. Il talento lo rende capace di vivere la vita. E non se la lascia scappare. Guadagna e spende. Spende e si mette nei guai. Non è tutto rose e fuori, sarebbe troppo bello. Dietro l’angolo c’è il vizio, verso cui il suo patron cagliaritano riuscirà a chiudere un occhio.
L’occhio si chiude, ma tanti si aprono nel 1999 quando O’Neill, al suo picco da giocatore del Cagliari, urta con la sua auto una moto. Viale Diaz è la strada che collega la spiaggia del Poetto al centro cittadino. Poco traffico, poche macchine. Molta velocità. Omissione di soccorso, due feriti, per fortuna guariti. Si comincia a scoprire la faccia oscura della luna, a pochi mesi dall’addio. È destinato alla Juventus e per molti è meglio così, dopo essere stato intoccabile. In quel settembre, in quello schianto, si perde il mito e si scopre la fragilità della persona.
O’Neill combatte senza successo con il demone dell’alcol (tanto da arrivare ad aver bisogno di un trapianto di fegato), lo ammetterà pubblicamente a fine carriera: «La situazione adesso non è migliorata. I miei problemi, andati avanti nel corso degli anni, rimangono. Prima di tutto ho avuto problemi con l’alcool: dopo un’operazione alla vescica a cui mi sono sottoposto sei mesi fa. Non avrei dovuto toccare un bicchiere per tre anni, ma ho resistito soltanto un mese».
Ammetterà di aver cominciato a bere a nove anni, rum e cola. In maniera costante. La Juventus però andrà oltre, o non sarà consapevole, di quei comportamenti lontani dal campo. Vederlo al suo interno è troppo bello per lasciarselo scappare. E così, 1999, O’Neill conosce Zidane e Del Piero. Ancelotti, Trezeguet. Un mondo incredibile in cui entrerà e uscirà velocemente.
Ha provato, non è riuscito a reggere allo stile Juventus, troppo per lui: «Per loro è un lavoro, lo prendono così. Arrivano all’allenamento con abito e cravatta, si cambiano, si allenano, si fan la doccia e se ne vanno».
Sì ok, ma oltre il lavoro, c’era di più. Non aggiungiamo altro, superfluo. «Una volta fecero una festa nell’appartamento di Inzaghi e portarono le showgirls dei programmi tv, mi coinvolsero a ballare e bere birra. Terminarono tutti a far sesso meno che me. Che bello eh? Il giorno dopo vidi le stesse ragazze in tv e dissi a mia moglie: «Guarda, ieri notte eravamo con tutte loro ed io non sono uscito con nessuna».
Quattordici gare, birre e donne dopo, lascia la Juventus nel 2002 per il Perugia, divenendo il più forte mai allenato da Cosmi (cit) per poi tornare a Cagliari. Zero presenze, nuovamente Nacional e nuova vita. Ha guadagnato tanto, soprattutto alla Juventus. Ha sperperato tutto. Non avrà una frase a effetto come Best, ma poco male. «Ho guadagnato quattordici milioni soldi grazie al mio agente, ma adesso li ho persi tutti fra donne, scommesse e vizi vari, e vivo da povero. A Cagliari ero un idolo, ma quando lottavamo per non retrocedere i tifosi mi gridavano “ubriacone!”, poi salimmo in A e quegli stessi tifosi mi pagarono da bere. Funzionava così il calcio da quelle parti».
Ha la camicia indosso, ma non quella da dirigente. Ha la classe innata, ma non di chi ha continuato a far parlare di sé relativamente al campo. Fa il barista, lavora in una fattoria, ha poco denaro, tanti demoni, ma non ha rimpianti. Ha fatto quel che si sentiva di fare. Persino un videoclip su Youtube. Mani in tasca, a sollevare la birra, a battere sul tavolo a tempo di musica. Si chiama “La Parabola”. La sua non è stata quella del buon samaritano, ma di un uomo fragile. Grandi piedi, grandi vizi.
peccato davvero, a me personalmente è sempre piaciuto come calciatore. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su i due anni passati a torino, sulle sue famose nottate torinesi. perchè ha deciso di buttare via una carriera così promettente??
RispondiEliminaÈ morto nel 2022
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